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In una vasca dell’Acquario di Livorno è stata installata una rete costituita da una bioplastica in grado di degradarsi in acqua salata, e che verrà usata per realizzare impianti di riforestazione della Posidonia oceanica, una pianta essenziale per l’ossigenazione dell’ecosistema marino.

Il risultato deriva da una collaborazione tra A.S.A. SpA (Azienda Servizi Ambientali SpA), il Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Pisa (DICI), Francesco Cinelli, già docente di Ecologia Marina e Scienza Subacquea all’Università di Pisa, BioISPRA, l’Acquario di Livorno e l’azienda tessile Coatyarn Srl.

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“I supporti proposti per la riforestazione dei fondali - spiega Maurizia Seggiani, docente di Fondamenti Chimici delle Tecnologie al DICI - hanno un grande impatto ambientale, perché costituiti da reti di ferro rivestite con monofilamenti di polipropilene che causano la dispersione in mare di microplastiche e la morte delle specie marine che vi rimangono intrappolate. Il nostro gruppo di ricerca ha individuato e testato una bioplastica, il PBSA (polibutilene succinato-co-adipato), usato in diverse applicazioni in sostituzione di plastiche tradizionali ma mai fino ad ora per applicazioni di restauro marino. Dal PBSA è stata ricavata una rete con proprietà meccaniche adeguate a contenere le talee di piccole piante di Posidonia, e in grado di biodegradarsi in un paio d’anni, il tempo necessario alla pianta per mettere radici”.

La rete per la messa a terra delle piante è stata realizzata grazie alla collaborazione con Coatyarn Srl, azienda leader nel settore tessile specializzata nella produzione di filati rivestiti ad alto contenuto tecnologico, e il primo prototipo è stato posato all’acquario di Livorno assieme ad alcune talee di Posidonia per verificarne l’efficacia nel trattenere le piantine al suolo per il tempo necessario al loro radicamento.

Il prossimo passo, previsto nella primavera 2022, sarà un test in mare aperto, in prossimità dell’Isola D’Elba, dove le praterie di Posidonia sono minacciate dagli impianti di dissalazione del mare a osmosi inversa, che rilasciano acqua ipersalina mal tollerata dalla pianta, rendendo necessarie operazioni di trapianto.

“Le potenzialità di impiego delle reti in bioplastica sono molto ampie - conclude Maurizia Seggiani - per esempio nell’itticoltura, o nei cosiddetti “orti marini. Inoltre, le reti possono anche essere usate sulla terraferma, per esempio per consolidare frane e scarpate con un materiale in grado di biodegradarsi in quell'ambiente una volta che ha svolto la sua funzione”.

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Se c’è troppo sole le piante si proteggono grazie a speciali proteine che agiscono come “interruttori” per accendere e spegnere specifiche interazioni tra molecole. La caratterizzazione di questo meccanismo che consente alle piante di sopravvivere a diverse condizioni di luce arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e nato dalla collaborazione delle Università di Pisa e di Ginevra.

“Capire le strategie con le quali le piante riescono a proteggersi dall’eccessiva luce è importante per la nostra comprensione del mondo che ci circonda, ma non è solo questo e infatti comprendere le loro strategie di adattamento è estremamente importante per riuscire ad aumentare la produttività delle colture”, spiega la professoressa Benedetta Mennucci dell’Università di Pisa, che assieme al professor Francesco Luigi Gervasio dell’Università di Ginevra ha coordinato lo studio.

 

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“La proteina che abbiamo studiato è presente nel fotosistema della piante ed ha il compito di raccogliere la luce solare e trasferire l’energia assorbita ad altre proteine, che portano avanti il processo fotosintetico”, racconta Edoardo Cignoni, dottorando dell’Università di Pisa, “per far questo contiene degli aggregati di molecole, clorofille e carotenoidi, che sono i principali protagonisti nella cattura della luce. Le nostre simulazioni di dinamica molecolare insieme ai calcoli quantomeccanici hanno mostrato come i moti della proteina riescono a controllare i processi fotoprotettivi, accendendo e spegnendo specifiche interazioni tra le molecole”.

Il gruppo di ricerca della professoressa Benedetta Mennucci (MoLECoLab) si studia, attraverso modelli computazionali multiscala, la risposta di sistemi biologici alla luce. Il lavoro della professoressa Mennucci è finanziato dal progetto European Research Council (ERC) Advanced Grant LIFETimeS.

Allo studio hanno inoltre partecipato il dottor Lorenzo Cupellini dell’Università di Pisa, Margherita Lapillo, all’epoca post-doc nel gruppo della professoressa Mennucci, e Silvia Acosta-Gutiérrez, all’epoca post-doc nel gruppo del professor Gervasio.

 

978880624827HIG.JPGLa professoressa Carla Benedetti del Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica è l'autrice del saggio "La letteratura ci salverà dall’estinzione" (Einaudi, 2021) di cui pubblichiamo alcuni estratti dal capitolo primo "Gli acrobati del tempo".

Il volume vuole stimolare un radicale cambiamento di rotta di fronte ai rischi dell’Antropocene. Per questo è necessario, afferma l'autrice, mettersi nei panni di chi vivrà dopo di noi, farsi cioè "acrobati del tempo". Ma non è cosí semplice. C’è resistenza a guardare lontano nel futuro. L’empatia scatta per i viventi di oggi, non per quelli che devono ancora nascere. Occorre una metamorfosi. E cosa c’è di piú potente della parola per mutare il nostro modo di ragionare e di sentire? Le opere del presente e del passato, da Omero a Amitav Ghosh, formano un campo di forze capace di liberare energie che portano in un’altra direzione. Dove l’economia, il diritto e la politica continuano a fallire, forse la letteratura e la filosofia potranno salvarci dall’estinzione.

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Mettersi nei panni degli uomini che vivranno dopo di noi è un processo cognitivo ed emotivo piú complicato di quanto si potrebbe pensare. Solo pochi «acrobati del tempo» ci riescono. L’espressione è del filosofo ebreo tedesco Günther Anders, che nel 1989 scriveva:

Oggi, a parte due o tre “acrobati del tempo”, non c’è nessuno che sia capace di mettersi nei panni di chi sarà domani (per non parlare di quelli che domani non ci saranno piú), e di anticipare il loro sguardo verso il passato (e quindi anche verso il nostro oggi)

La frase potrà sembrare un po’ sibillina sul momento, ma diventa chiarissima non appena si pensa a quanto sta accadendo nei nostri anni. I danni irreversibili che i viventi di oggi stanno procurando all’ambiente e che verranno pagati dalle generazioni piú giovani, e ancor piú da quelle che devono ancora nascere, sono ormai noti. Eppure si continua a immettere quantità proibitive di CO2 nell’atmosfera, a usare combustibili fossili, a consumare indiscriminatamente risorse non rigenerabili. La prima convenzione quadro sui cambiamenti climatici proposta dalla Conferenza sull’Ambiente e sullo sviluppo delle Nazioni Unite risale al 1992. Da piú di due decenni le autorità di ogni Paese, gli apparati militari e di sicurezza sono a conoscenza della gravità dei rischi ambientali a cui stiamo andando incontro, con grande anticipo sulla consapevolezza pubblica. Eppure chi avrebbe potuto prendere decisioni per fermare questo processo non lo ha fatto, e ancora oggi le contromisure possibili stentano a essere messe al primo posto nell’elenco delle priorità dei governi mondiali. Evidentemente gli uomini di oggi non sono in grado di farsi acrobati del tempo, di mettersi nei panni di chi si troverà, in un futuro assai prossimo, a vivere su un pianeta dal clima sconvolto, dove scarseggiano l’acqua, il cibo e l’energia […]

I viventi di oggi – o una parte di essi, poiché non siamo tutti responsabili in egual misura – stanno alterando la biosfera, intaccando le riserve del pianeta accumulate in miliardi di anni, stanno consumando i ghiacci polari, le foreste, il petrolio, sterminando la fauna, la flora, condannando cosí a una terribile agonia le generazioni future. La storia dell’umanità è disseminata di sterminî e ferocie. Ma non era mai successo prima d’ora che la violenza genocida si esercitasse sui viventi di domani. Questa è in assoluto la novità piú “disumana” del nostro tempo, che rende ancora piú atroce e intollerabile l’inerzia di oggi, ciò che non viene fatto finché si sarebbe ancora in tempo. Non basterebbe forse questo pensiero a smuovere tutti i nostri simili e suscitare in loro il senso dell’intollerabilità di ciò che stanno provocando? Eppure non è cosí semplice.
Qualcosa li blocca e impedisce loro di provare un sentimento empatico che pure sembrerebbe cosí primario.

Carla Benedetti

enza_pellecchia.pngLa Conferenza dei Rettori delle Università italiane (CRUI) ha sottoscritto a dicembre un Memorandum of understanding con il Segretariato Permanente dei premi Nobel per la Pace. Si tratta di un importante accordo tramite il quale le Università italiane – già impegnate nella Rete delle Università italiane per la pace (RUniPace) – potranno rafforzare il loro impegno per la Pace e implementare attività di ricerca, didattica e terza missione potendo contare sulla collaborazione autorevole e prestigiosa del Segretariato.

"Dopo la sottoscrizione del Memorandum si apre ora la fase di implementazione, grazie ad accordi specifici che i singoli Atenei potranno concordare con il Segretariato: una importante opportunità che auspichiamo verrà sfruttata anche dal nostro Ateneo", ha detto la professoressa Enza Pellecchia (foto), direttrice del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell'Università di Pisa (Cisp) e coordinatrice di RUniPace.

L’accordo tra la CRUI e il Segretariato Permanente dei premi Nobel per la Pace è relativo in particolare al programma Leading by Example creato dal Segretariato con l’obiettivo di formare la generazione dei futuri leader nell'arte del peacemaking. Leading by Example sviluppa progetti di Peace education e Peace building dedicati agli studenti universitari con il coinvolgimento dei premi Nobel per la Pace. Più di 7.000 giovani e più di 550 università di ogni parte del mondo hanno partecipato al progetto e hanno parlato di Pace, Diritti Umani, Sostenibilità e Leadership.

Tra le altre forme di collaborazione individuate dal Memorandum si segnalano lo sviluppo di programmi comuni di leadership educativa, l’organizzazione di eventi comuni con la partecipazione dei Premi Nobel per la Pace presso le Università italiane, la individuazione di una delegazione di giovani attivisti, studenti e accademici delle Università e organizzazioni giovanili italiane per la partecipazione al Summit mondiale dei Premi Nobel per la Pace, l’organizzazione di un workshop o un PeaceLab al Summit Mondiale dei Premi Nobel per la Pace.

Il Segretariato Permanente dei Premi Nobel per la Pace, creato nel 2006, è un'organizzazione indipendente, senza scopo di lucro e non governativa, che ha sede a Piacenza e opera su base permanente per rafforzare il pensiero umanitario e non violento a sostegno dei valori umani promuovendo l'eredità, la conoscenza e il lavoro dei Premi Nobel per la Pace. Il Segretariato agisce come Hub per la Pace, un ecosistema che promuove il cammino verso la pace in tutti i Paesi e con tutti i popoli. Promuove dialoghi internazionali su questioni globali e locali e programmi educativi. Suo evento principale è il Summit Mondiale dei Premi Nobel per la Pace (WSNPL), giunto alla sua 17a edizione e fondato nel 1999 su iniziativa dell'ex presidente dell'URSS e Premio Nobel per la Pace, Mikhail Gorbaciov.

RUniPace è la più giovane delle reti CRUI, nata nel 2020 su iniziativa del Rettore di Pisa Paolo Mancarella e del Rettore di Brescia Maurizio Tira: ad essa aderiscono 60 Atenei, con l’intento di rafforzare gli Studi per la Pace a partire dalla valorizzazione del patrimonio di competenze e di ricerche sulla costruzione della pace con mezzi pacifici che già esiste nelle Università italiane, dando visibilità e creando coordinamenti tra studiosi e studiose sia all'interno dei singoli Atenei, sia in collaborazione tra più Atenei, sempre in un'ottica interdisciplinare. 

 

 

 

 

 

La geotermia toscana è una risorsa rinnovabile e a zero emissioni di gas serra. La buona notizia arriva da due studi coordinati dai professori Alessandro Sbrana e Paola Marianelli del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e pubblicati sulle riviste “Energies” e “Journal of Volcanology and Geothermal Research”. Le ricerche, presentate in un workshop organizzato da Enel Green Power il 13 e 14 dicembre, hanno riguardato le zone di Larderello e del Monte Amiata dove si trovano buona parte degli impianti toscani.

“Abbiamo ricostruito le emissioni di CO2 precedente alla produzione geotermoelettrica – spiega Sbrana – dai dati appare evidente che le emissioni delle centrali geotermoelettriche abbiano sostituito quelle naturali. La riduzione delle emissioni naturali, che segue l’entrata in esercizio di una centrale geotermoelettrica, è infatti del tutto equivalente alle emissioni della centrale stessa, quindi l’impatto netto è nullo”.

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Il professor Sbrana al workshop del 13 e 14 dicembre

La geotermia toscana conta attualmente 34 centrali gestite da Enel Green Power e con i suoi 6 miliardi di KWh prodotti ogni anno soddisfa il 34% circa del fabbisogno elettrico regionale e rappresenta il 70% dell’energia elettrica da fonti rinnovabili.

“Lo sviluppo della geotermia può contribuire al contenimento delle emissioni climalteranti e alla transizione ecologica – conclude Sbrana - a maggior ragione se si considera che la geotermia rappresenta una ricchezza anche dal punto di vista termico per l’utilizzo del calore che fornisce riscaldamento ed acqua calda a case, esercizi commerciali, aziende artigianali ed agricole”.

 

 

 La distribuzione delle piante vascolari del nostro pianeta si divide in due grandi gruppi a partire dalla Laurasia e dal Gondwana, due antichi continenti risalenti a circa 250 milioni di anni fa. È questo quanto emerge da uno studio pubblicato sulla rivista “New Phytologist” coordinato da Angelino Carta del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, in collaborazione con Lorenzo Peruzzi dello stesso Dipartimento e Santiago Ramírez-Barahona dell’Universidad Nacional Autónoma de México.

Per giungere a questa conclusione i ricercatori hanno analizzato oltre otto milioni di dati relativi alla distribuzione di 67.000 specie vegetali su scala globale. La divisione Laurasia-Gondwana, due antichi continenti che corrispondono oggi all’incirca alle terre del nostro emisfero settentrionale e meridionale, si rispecchia inoltre in alcune differenze fra i due grandi gruppi di piante. La flora settentrionale, costituita soprattutto da piante erbacee, è infatti a livello evolutivo più recente rispetto a quella meridionale costituita soprattutto piante legnose tropicali e in cui prevalgono linee evolutive più antiche.

 

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I tre regni floristici in cui è attualmente suddivisa la terra: un regno olartico che comprende tutte le terre settentrionali, mentre la porzione meridionale del globo è composta dal regno olotropicale e dal regno australe


“La separazione Laurasia-Gondwana non è mai stata osservata e nemmeno proposta nei precedenti tentativi di studiare le relazioni tra le flore dei continenti – spiega Carta - Eppure questo risultato è perfettamente allineato con le conoscenze relative ai movimenti geologici delle placche terrestri studiate dai colleghi geologi”.

“Questo studio è importantissimo perché rappresenta il passo fondamentale per conoscere la storia evolutiva della vita sulla terra e come le piante convivono nei diversi continenti - conclude Carta - Infatti, associando questi risultati a quelli ottenuti mediante l'analisi della distribuzione degli animali sarà possibile valutare come è avvenuta la separazione delle comunità di organismi nei diversi continenti”.



mazzanti foto.jpgPrima al mondo per numero di vitigni, ben 545, prima per produzione enologica, posto che si contende annualmente con la Francia, terza per produzione di uva e quarta per superficie vitata. Questi numeri mettono l’Italia fra le superpotenze dell’uva e del vino insieme a Francia e Spagna, titolo insidiato sempre più da Paesi extraeuropei emergenti, come Cina, Cile, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Sudafrica. E’ questo lo scenario generale che traccia il libro “Geografia della Vite, IV: la viticoltura italiana” scritto dal professore Riccardo Mazzanti dell’Università di Pisa e pubblicato dalla Pisa University Press.

Ricchissimo di dati e informazioni il volume inquadra il nostro Paese in una prospettiva internazionale scendendo poi nel dettaglio regione per regione. Scopriamo così che quasi la metà dei vigneti si trova nel Mezzogiorno, in particolare in Puglia e in Sicilia, secondo il Settentrione con il 36%, soprattutto il Veneto, e il resto nel Centro Italia dove primeggia la Toscana con l’8%. Una ripartizione della superficie vitata, come spiega lo studio, certo riconducibile a fattori di carattere geografico-ambientale, ma anche socioeconomico e culturali.

Per quanto riguarda poi la produzione enologica nazionale, complessivamente si aggira, con variazioni annuali talvolta notevoli, sui 55 milioni di ettolitri, oltre la metà dei quali riferibili a vini bianchi. Come etichette l'Italia può vantare oltre 400 vini a Denominazione d'Origine Protetta, 73 dei quali DOCG, e 118 vini a Indicazione Geografica Tipica: Piemonte e Toscana ne accolgono il maggior numero (58 ognuna), seguite da Veneto e Lombardia. Va infine sottolineato che quasi un quinto della produzione nazionale proviene da viticoltura biologica.

Ma il libro analizza il paesaggio vitivinicolo anche dal punto di vista turistico, culturale ed economico. Oggi si contano in Italia circa 170 Strade del Vino, concentrate in prevalenza a Nord e al centro (17 in Toscana, 16 in Veneto, 13 in Emilia-Romagna, 9 in Lombardia), ma diffuse anche nel resto della Penisola (17 in Sicilia, 11 in Puglia e 10 in Calabria, ad esempio). Nel 2017 una ventina di esse si sono organizzate nel Coordinamento Nazionale delle Strade del Vino, dell’Olio e dei Sapori, e oggi sono 79 che raggruppano per un totale di oltre 1.000 aziende vitivinicole, 500 ristoranti, 450 strutture ricettive e 320 agriturismi.

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Dal punto di vista economico, un limite sostanziale della viticoltura italiana è però secondo lo studio la piccola dimensione delle aziende viticole, in media solo 1,71 ettari. Questo infatti comporta una cronica scarsità di capitali e di investimenti, problema che, secondo l’autore, può essere affrontato efficacemente soltanto attraverso l'associazionismo e la cooperazione.
“Resta in ogni caso il primato di regioni come Piemonte, la Toscana, il Veneto, il Trentino-Alto Adige o il Friuli – conclude Riccardo Mazzanti - che costituiscono un modello per la viticoltura e l’enologia mondiale grazie al loro un ruolo-guida a livello produttivo, organizzativo e di presenza sui mercati”.

 

“Cinema e diversità. Tre film sulla disabilità nel cinema contemporaneo” è il titolo della tesi di Paolo Castiglia, studente con disabilità motoria, che il 29 novembre si è laureato con 110/110 e lode in Discipline dello Spettacolo e della Comunicazione all'Università di Pisa.

“Non potrei essere più felice di aver concluso questa prima parte del mio percorso universitario all'Università di Pisa - ha dichiarato il neodottore - Da subito, grazie all'insostituibile e preziosa solerzia del dottor Alfonso Curreri e di tutto l’Ufficio Servizi per l'Integrazione di studenti con Disabilità, la mia inclusione all'interno del sistema universitario è stata totale e priva di ostacoli”.

Castiglia nella sua tesi, discussa a distanza, ha ricostruito la rappresentazione sociale della diversità nel cinema, portando alla luce il reticolo di pregiudizi, stereotipi, stigmatizzazioni o riduzioni retoriche della figura del disabile. Le tipologie di personaggi che si ritrovano sul grande schermo, dal freak fino al disabile di genio, hanno infatti in buona parte ostacolato una restituzione più profonda e autentica di questa figura dell’alterità dell’immaginario cinematografico. Banco di prova di questi schemi narrativi sono quindi tre film recenti: Lo scafandro e la farfalla (Julian Schnabel, 2007), Wonder (Stephen Chbosky, 2017), La forma dell’acqua (Guillermo Del Toro, 2017).

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La discussione della tesi a distanza, il momento della proclamazione

 

“Come analizzo nella mia tesi, la normalità è solo un'impostazione mentale e sta alla società e all'ambiente con il quale ci interfacciamo costruire un'idea di diversità che arricchisce e non divide – ha aggiunto il neodottore - In quest'ottica, la mia carriera universitaria all'interno dell'ateneo di Pisa è stata assolutamente positiva, sia per l'alto livello della sua offerta formativa, sia per l'umanità e la competenza del personale universitario nella sua interezza”.

“Accompagnare lo sviluppo di questa tesi mi ha portato a conoscere uno sguardo che indaga lucidamente e nello stesso tempo prende posizione - ha commentato il professore Maurizio Ambrosini, tutor di Castiglia - un discorso critico che non fa sconti ma riserva a ogni testo filmico un'attenzione appassionata”.



Aiutare l'ambiente secondo natura, capire con che strategie gli ecosistemi si preservano e intervenire di conseguenza. La nuova frontiera della ricerca per proteggere gli habitat a rischio sono le cosiddette ‘Nature-based solutions’. A questo principio si sono ispirati due nuovi studi dell’Università di Pisa da cui è emerso per esempio che la vicinanza fra piante non sempre genera concorrenza, ma può essere una buona strategia per aumentarne crescita e sopravvivenza.

In particolare, i lavori pubblicati sul “Journal of Applied Ecology e su “Ecological Engineering” hanno riguardato la Posidonia oceanica, una specie chiave dell’ecosistema marino costiero, e lo sparto della sabbia e la gramigna delle spiagge, specie utili per il ripristino dei sistemi dunali degradati.

 

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Il gruppo di ricerca dell’Università di Pisa, da destra a sinistra Elena Balestri, Claudio Lardicci, Virginia Menicagli e Flavia Vallerini

Nel caso della Posidonia, le piantine coltivate in gruppi ad elevata densità su un substrato precedentemente colonizzato da Cymodocea nodosa, una pianta marina pioniera “benefattrice”, hanno dimostrato tassi di sopravvivenza fino a tre volte superiori rispetto a quelle cresciute da sole su substrato non colonizzato. Per quanto riguarda i sistemi dunali, per ridurre poi l’elevato tasso di mortalità che caratterizza gli interventi di ripristino, sparto e gramigna sono stati piantati in gruppo ottenendo però risultati opposti in base alla distribuzione spaziale del fertilizzante, omogenea o eterogenea. Infatti se piantate in gruppi con fertilizzante distribuito omogeneamente, le piante di sparto mostravano una crescita fino a quattro volte maggiore mentre quelle di gramigna mostravano una crescita ridotta di circa la metà rispetto a quelle piantate da sole.

“Questi studi mirano a risolvere le criticità degli interventi di ripristino ambientale attraverso l’adozione di approcci sostenibili basati su processi ecologici naturali come le interazioni positive pianta-pianta”, spiega il professore Claudio Lardicci dell’Università di Pisa.

“E’ fondamentale in ogni caso valutare sia la distribuzione spaziale dei nutrienti che le caratteristiche delle specie utilizzate – aggiunge Elena Balestri, ricercatrice dell’Ateneo pisano - individuando in ogni caso la soluzione ottimale che massimizzi le interazioni positive tra piante e riduca quelle negative”.

Gli esperimenti sono stati condotti in nella zona costiera di Vada (Livorno) e in un vivaio marino sperimentale allestito presso l’INVE Aquaculture Reserch Center di Rosignano Solvay (LI). Qui i ricercatori hanno utilizzato un sistema che hanno appositamente sviluppato e brevettato come Università di Pisa per la coltivazione di piante marine. Hanno collaborato ai due studi i dipartimenti di Biologia e di Scienze della Terra, e il Centro per l'Integrazione della Strumentazione scientifica (CISUP) e il Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico (CIRSEC).


In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza sulle donne, il 25 novembre alle 17 alla Gipsoteca di Arte Antica (piazza San Paolo all’Orto 20, Pisa) si inaugura "The consequences" di Stefania Prandi, una mostra fotografica che racconta il dramma dei femminicidi attraverso lo sguardo di chi resta: mamme, sorelle, padri, figlie e figli. L’iniziativa è sostenuta dal Comitato Unico di Garanzia (CUG) dell'Università di Pisa che vi ha collaborato insieme all'Associzione Casa della Donna, Facciamo 31 e Cesvot.

La mostra sarà inaugurata dalla professoressa Elena Dundovich presidente del CUG dell'Università di Pisa e nell’occasione sarà presentato con l’autrice Stefania Prandi il libro “Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta” (Settenove, 2019).

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Il progetto fotografico di Stefania Prandi nasce a seguito di un'indagine durata tre anni, che ha raccolto, attraverso le parole dei familiari, le storie di donne uccise per mano di mariti, ex fidanzati, padri, o che sono sparite. Un lavoro che mette al centro l'ascolto, accoglie la rabbia, il lutto ma anche la forza di chi porta avanti le battaglie, dentro e fuori i tribunali, per restituire dignità a queste donne, perché oltre alla verità processuale esiste anche quella storica.

Stefania Prandi, giornalista, scrittrice e fotografa, ha realizzato reportage e inchieste in Italia, Europa, Africa e Sudamerica. Si occupa di questioni di genere, lavoro, diritti umani, ambiente e cultura. Tra le sue collaborazioni: Il Sole 24 Ore, National Geographic, Radiotelevisione svizzera, El País, Al Jazeera, Correctiv, BuzzFeed. Nel 2018 ha pubblicato il libro Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo (Settenove) e nel 2020 Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta (Settenove). Ha vinto numerosi riconoscimenti internazionali e premi come Volkart Stiftung Grant, Henri Nannen Preis e Otto Brenner Preis.

L’esposizione resterà aperta fino al 2 dicembre con i seguenti orari: venerdi-sabato-martedì-mercoledì-giovedì ore 10-13 e 15-19, domenica-lunedì ore 15-19.

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