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film 2016Gli ostacoli familiari e sociali, la difficoltà di andare oltre gli schemi, le convenzioni e le proprie paure sono i temi dei film protagonisti dell’iniziativa “Il cinema va all’Università”, il secondo ciclo di proiezioni gratuite per studenti che ha l’obiettivo di stimolare e fornire spunti di riflessione sul tema della realizzazione di sé attraverso il riconoscimento e l’affermazione delle proprie potenzialità e delle proprie vocazioni. La rassegna, organizzata dal Servizio di Ascolto e Consulenza dell’Università di Pisa, avrà inizio mercoledì 24 febbraio con la proiezione di “Billy Elliot”, film di Stephen Daldry del 2000, che racconta la storia di un ragazzino di 11 anni, il cui sogno è diventare un ballerino classico. L’appuntamento è alle ore 14.30 nell’Aula Magna del Polo Fibonacci, in via Buonarroti 4.

La particolarità dell’iniziativa è che ogni proiezione sarà introdotta da uno studente del corso di laurea in Storia e forme delle arti visive, dello spettacolo e dei nuovi media e da tirocinanti psicologi del Servizio di Ascolto che illustreranno le tematiche al centro dei film e parteciperanno al dibattito alla fine della serata. “Da oltre 10 anni il Servizio di Ascolto d’Ateneo offre sostegno gli studenti in difficoltà nell’affrontare la vita universitaria e dopo l’esperienza dello scorso anno abbiamo deciso di riproporre un’iniziativa che mira a coinvolgere i ragazzi in riflessioni più ampie – ha commentato Rosalba Tognetti, prorettore per gli Studenti, in occasione della presentazione della rassegna – Per questo secondo ciclo abbiamo scelto un altro tema che li riguarda da vicino e il nostro auspicio è poter dar loro spunti e stimoli per affrontare passaggi talvolta particolarmente impegnativi nella vita di uno studente”.

cinema università“Ognuno di noi per realizzare se stesso spesso deve affrontare e superare vari ostacoli interni ed esterni – aggiunge Federica Gorrasi, psicologa del Servizio d’Ascolto d’Ateneo - L’iniziativa affronta questo tema attraverso proiezioni di film che mostrano, sotto diverse prospettive, la fatica di riuscire ad affermare, senza condizionamenti, le proprie inclinazioni e aspirazioni e al contempo la soddisfazione di raggiungere i traguardi a lungo sognati”. Visti gli argomenti trattati, quest’anno sono stati invitati anche gli studenti delle scuole superiori di Pisa, che potranno contribuire e arricchire il dibattito che seguirà ciascuna proiezione.

Alla presentazione della rassegna erano presenti anche Maria Tognini, coordinatrice di settore della Direzione Didattica e servizi agli studenti, gli altri psicologi del Servizio di Ascolto e Consulenza di Ateneo Stefano Meini, Olivia Bernini – i tirocinanti del corso di laurea Magistrale in Psicologia clinica e della salute coinvolti nell’iniziativa, lo studente del corso di laurea in Storia e forme delle arti visive, dello spettacolo e dei nuovi media Antonio Maria Zenzaro.

Il ciclo proseguirà il 22 marzo con il film “L’attimo fuggente” di Peter Weir e il 3 maggio con “Will Hunting. Genio ribelle” di Gus Van Sant. Tutte le proiezioni si terranno nell'Aula Magna del Polo Fibonacci, dalle 14.30 alle 18.30.

Nella foto: da sinistra Stefano Meini, Olivia Bernini, Rosalba Tognetti, Maria Tognini, Federica Gorrasi, Antonio Maria Zenzaro 

Ne hanno parlato:
Nazione Pisa
Repubblica Firenze 
Controcampus.it 
PisaInformaFlash.it

Come omaggio a Umberto Eco - il grande semiologo, filosofo e scrittore, scomparso negli scorsi giorni - riproponiamo la lezione che il professore piemontese tenne all'Università di Pisa il 16 settembre del 2004, in occasione dell’inaugurazione della nuova sede del dipartimento di "Ingegneria dell’informazione: elettronica, informatica, telecomunicazioni” e che fu poi publicata su "Athenet. La rivista dell'Università di Pisa".
Partendo dalla constatazione dell’enorme impatto che le nuove tecnologie hanno avuto sul nostro modo di comunicare e di vivere, il professor Umberto Eco sviluppò una riflessione dal titolo "La cultura è anche capacità di filtrare le informazioni", critica e spesso ironica sulle potenzialità e sui pericoli insiti nell’eccesso di informazioni che caratterizza la società contemporanea.

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eco2Vorrei iniziare questo intervento partendo dal duplice significato della nozione di informazione, che a volte viene utilizzata seguendo il senso comune e a volte in senso tecnico. In quest’ultimo caso ci rifacciamo alla teoria matematica dell’informazione, secondo cui essa è una proprietà statistica della fonte e definisce (per esempio) tutto quello che potrebbe essere elaborato con la combinazione delle 26 lettere dell’alfabeto. L’informazione, quindi, deriva da una misura di probabilità all’interno di un sistema equiprobabile. Una volta che tra tutte le possibilità consentite dall’alfabeto viene elaborata una frase specifica, entriamo nell’altro significato di informazione e ci occupiamo di quello che chiamiamo messaggio, cioè un significato che può essere trasmesso e comunicato. È chiaro che oggi parleremo di informazione in quest’ultimo senso, come trasmissione di dati di qualche interesse collettivo, anche se più tardi ci tornerà utile ricordare l’altro significato.

All’interno di questo significato di senso comune, un’altra distinzione che dobbiamo fare è quella tra messaggio e canale. Per discutere della situazione attuale dell’informazione dobbiamo considerare due fattori: l’organizzazione dei canali rispetto al passato e il numero - non la qualità o il contenuto, che in questa sede non interessano - dei messaggi trasmissibili.

Per quanto riguarda i canali, da almeno due secoli e cioè dall’invenzione del telegrafo, stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione e oggi sappiamo bene che in pochi secondi possiamo trasmettere un messaggio a Sidney e ricevere risposta. Mi pare però che questa constatazione entusiastica debba indurre ogni tanto anche a qualche riflessione o ironica o pessimistica. Una volta nella rubrica “La Bustina di Minerva” su "L’espresso" ho citato la teoria (ovviamente inventata, ma non del tutto improbabile) di un certo Backwards che, come suggerisce lo stesso cognome, era interessato al fenomeno del ritorno al passato. Secondo questo signore, la comunicazione pesante era entrata in crisi verso la fine degli anni Settanta con l’invenzione del telecomando. Con questo strumento, lo spettatore poteva anche azzerare l’audio, seguire solo il video e, attraverso lo zapping, crearsi una propria sequenza visiva. L’introduzione del videoregistratore ha permesso poi di liberarsi dalla linearità dell’evento in diretta. A questo punto lo spettatore poteva guardare una videocassetta senza audio e accompagnare le immagini con il suono di una pianola: praticamente era tornato al cinema muto. Il passo successivo è stato dettato dall’eliminazione del movimento delle immagini: rispetto a uno strumento molto più arretrato come la televisione, internet, soprattutto all’inizio, dava immagini fisse, monocolore e a bassa definizione. Con la posta elettronica si è quindi arrivati alla sola comunicazione alfabetica, in pratica tornando allo stadio dei Fenici. Potremmo andare oltre e parlare di una sorta di scatola, poco ingombrante, che emette suoni con la rotazione di una manopola: voi direte che è la radio. No, è semplicemente l’iPod, uno dei più diffusi e avanzati oggetti tecnologici di oggi. Ma c’è di più: fino a poco tempo fa le trasmissioni viaggiavano via etere, con tutti i disturbi e le difficoltà che ne conseguivano. Le piattaforme digitali e Internet utilizzano invece la trasmissione via cavo telefonico e questo fatto sancisce la curiosa vittoria di Meucci su Marconi.

A parte questi scherzi, vi propongo una riflessione di natura storica: è proprio vero che nel passato la trasmissione delle informazioni era così lenta? Vi faccio un esempio: nel 1614 appaiono i libelli dei Rosacroce, promessa di una grande palingenesi del genere umano, che nella prima edizione escono in tedesco e nella seconda in latino. Ebbene, tra 1614 e 1616 si diffondono tra i maggiori dotti d’Europa centinaia di pamphlet di risposta e di discussione e nel solo 1616 escono tre opere fondamentali. Uno degli autori di questi testi, Robert Fludd, ha scritto circa 10-15 mila pagine e le ha illustrate con incisioni molto accurate che doveva necessariamente seguire di persona. Tra il 1614 e il 1624 Fludd scrive diversi volumi: lui vive in Inghilterra, i libri vengono pubblicati parte in Germania e parte in Olanda. Come poteva funzionare in tempi così rapidi il lavoro di correzione di bozze e di controllo sulle incisioni, quando oggi per realizzare un volume illustrato in modo serio, inviando le immagini via e-mail, servono almeno due anni? La verità è che nel passato, anche quando il canale era costituito dal messaggero a cavallo, le informazioni circolavano con molta maggiore rapidità di quanto noi sospettiamo.

eco1Per quanto riguarda il numero dei messaggi è del tutto evidente che tende a crescere in forma esponenziale. Questo flusso ininterrotto ci aiuta? Voi sapete che ormai lo specialista di una disciplina non è in grado di seguire quello che viene prodotto nel suo settore e che addirittura, così mi dicono alcuni amici, un matematico spesso non è nemmeno in grado di capire quello che viene prodotto negli altri settori della sua materia. La soluzione degli abstract rinvia al problema di chi filtra l’informazione, selezionando la possibilità di ognuno di accedere all’intero materiale, mentre con Internet abbiamo l’impressione di avere tutto a portata di mouse, senza alcun filtro e con la possibilità di ricevere una risposta immediata. In questo caso, il problema è di come ci si deve comportare di fronte a un’abbondanza di informazione. L’esempio che cito in questi casi è quello delle bibliografie. Quando preparavo la tesi, formare una bibliografia voleva dire passare molti giorni in biblioteca, cercare e segnare a penna i volumi che si trovavano e alla fine di un grosso lavoro aver messo insieme cento titoli. Oggi, con Internet, io schiaccio un bottone e trovo 10.000 titoli di bibliografia. Qual è il problema? Primo, che se li faccio vedere al professore, gli viene un infarto perché tutti quei titoli non li conosceva nemmeno lui e per questo si incrina il nostro rapporto di fiducia. Secondo, che io non solo non posso leggere i 10.000 libri, ma nemmeno i 10.000 titoli della bibliografia: avere un numero tanto elevato di titoli equivale perciò a non averne alcuno. Proprio per questa abbondanza bibliografica, molti libri recenti tendono a citare solo titoli pubblicati negli ultimi anni. Passi per la fisica nucleare, ma per la storia della filosofia questo provoca effetti paradossali: ho letto un libro in cui si sviluppava un certo ragionamento e si rimandava alla nota a piè di pagina. “Pare che di questo argomento si fosse occupato a fondo Kant. Cfr. Brown 1991”. Pensate, l’autore aveva in bibliografia solo Brown, perché considerava Kant troppo antico.

Il problema non è solo legato all’abbondanza delle informazioni, ma anche alla possibilità di selezionare la loro attendibilità. Una volta ho fatto un esperimento su un tema di cui, pur non essendo uno specialista, presumo di sapere alcune cose: ho digitato la parola “Graal” in un motore di ricerca e ho analizzato i primi 70 siti segnalati. Sessantotto di questi erano puro ciarpame, materiale neonazista o pubblicitario; uno era credibile, ma conteneva una semplice descrizione da enciclopedia del tipo Garzantina; uno conteneva un piccolo saggio preciso, ma privo di particolare interesse. Mi chiedo come possa fare un giovane studente a decidere quale tra questi siti abbia notizie utili. La stessa cosa è successa quando ho cercato notizie sull’olocausto, cercando la parola “holocaust”. Immediatamente ho individuato alcuni siti di chiara ispirazione nazista e negazionista ma, se sullo sfondo non c’è una svastica, se certe posizioni sono ben camuffate, diventa molto difficile per una persona normale capire e scegliere.

È per questi motivi che io chiedo che venga insegnata la tecnica della decimazione. Ricevo quotidianamente decine e decine di libri che non potrò mai leggere e per questo ho elaborato delle tecniche di decimazione. Alcune si basano semplicemente su criteri statistici: se un libro è banale, ritroverò le stesse idee nel decimo volume pubblicato su quel dato argomento; se un libro è geniale, ugualmente troverò le stesse idee, diventate patrimonio comune, nel decimo libro sull’argomento. Allora, ho deciso di leggere un libro ogni dieci pubblicati su un certo tema. Altri criteri sono più sofisticati e si basano sull’esame dell’indice, della bibliografia e così via. Il mio consiglio al ministro Moratti è che queste tecniche vanno insegnate fin dalle scuole elementari e che occorre aggiungere la “D” di decimazione alle tre “I” di internet, inglese e impresa. Una volta il Centro cattolico cinematografico compilava una lista dei film per tutti, di quelli solo per adulti e di quelli sconsigliati. Il buon cattolico si fidava di questa indicazione e si comportava di conseguenza. Oggi non è possibile ipotizzare un tipo di lavoro simile per tutti i siti che si occupano delle diverse discipline, perché i contenuti cambiano in continuazione e non è quindi possibile analizzarli in modo sistematico e aggiornato.

Questo problema ci introduce a un’altra questione, quella del filtro, collegata con la tecnica della decimazione. A questo proposito, ho scritto un saggio sull’Ars oblivionalis, cioè l’arte dell’oblio, in cui ho analizzato le tecniche elaborate nel corso della storia - da Simonide ad almeno tutto il XIX secolo – per memorizzare il maggior numero possibile di informazioni, una tecnica fondamentale per studiosi che, a differenza di noi, non disponevano di registratore, computer e internet. Filippo Gesualdo, un autore vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo, nella sua Plutosofia ci ricorda che, accanto alle tecniche per ricordare, esistono anche quelle per dimenticare. Escludendo le martellate sulla testa e il ricorso all’etilismo, questo autore insegnava una tecnica analoga a quella usata per ricordare, con cui bisognava immaginare un palazzo immenso con colonnati, statue e altri elementi a cui associare, magari per l’identica lettera alfabetica iniziale, un concetto o una regola. Gesualdo affermava quindi che per dimenticare bisogna immaginare questo palazzo e noi stessi mentre lanciamo fuori dalla finestra un oggetto dietro l’altro. La tecnica suggerita da Gesualdo mi ha fatto sempre sorridere, perché è un’altra tecnica per ricordare meglio ciò che si vuole dimenticare, come succede all’innamorato abbandonato che, per cercare di dimenticare la persona amata, la pensa di continuo e rinfocola così il proprio amore.

In realtà esiste un’Ars oblivionalis e si chiama cultura, intesa come memoria storica, come insieme di sapere condiviso su cui si regge il gruppo e la società umani. La cultura non è solo un accumulo di dati, è anche il risultato del loro filtraggio. La cultura è anche capacità di buttar via ciò che non è utile o necessario. La storia della cultura e della civiltà è fatta di tonnellate di informazioni che sono state seppellite. Talvolta abbiamo giudicato questo processo un danno e ci sono voluti secoli per riprendere il percorso interrotto: i greci non sapevano quasi più niente della matematica egiziana e ugualmente il Medioevo ha dimenticato tutta la scienza greca. In un certo senso, però, questo è servito alle diverse culture per ringiovanirsi partendo da zero, per poi recuperare gradualmente il perduto. Altre informazioni sono andate perdute. Non sappiamo più a cosa servivano le statue dell’Isola di Pasqua, e moltissime delle tragedie descritte da Aristotele nella Poetica non ci sono pervenute.

Questo discorso non vale solo per le culture, ma anche per la nostra vita. Jorge Luis Borges ha scritto una bellissima novella, intitolata Funes el memorioso, su un personaggio che ricorda tutto, ogni foglia che ha visto su ogni albero, ogni parola che ha udito nel corso della sua vita, ogni refolo di vento che ha avvertito, ogni sapore che ha assaporato, ogni lettera che ha letto. Eppure Funes è un completo idiota, un uomo bloccato dalla sua incapacità di selezionare e di buttare via. Il nostro inconscio funziona perché butta via. Poi, se c’è qualche inghippo, si spendono un sacco di soldi dallo psicanalista per recuperare quel poco che serviva e che per sbaglio abbiamo buttato via. Ma tutto il resto per fortuna è stato eliminato e la nostra anima è esattamente il prodotto della continuità di questa memoria selezionata: se avessimo l’anima di Funes saremmo persone senz’anima. Il World Wide Web è Funes el memorioso, anche se ogni tanto si rinnova e butta via qualcosa. La nuova biblioteca di Alessandria d’Egitto ha iniziato a raccogliere su cassette tutto ciò che appare su internet, comprese le informazioni che successivamente vengono eliminate. Questa raccolta al massimo della sua potenzialità sarà peggio di internet, perché avrà tutti i contenuti che ha oggi internet insieme a quelli che sono stati filtrati con il tempo.

Le questioni che ho cercato di porre, quindi, riguardano l’attendibilità dei siti, un problema fondamentale a fini educativi, e più in generale il dominio e il controllo delle informazioni che passano su internet.

Voi mi direte che internet è un grande fenomeno democratico, che permette di ricevere tutti i tipi di informazione e di scegliere in modo libero, e io ho presente l’impatto che internet ha avuto sulla società cinese, specie quella giovanile, una realtà in cui non c’è più una dittatura economica, ma certamente una politico-ideologica. Mi sembra, però, di poter fare per internet un discorso simile a quello fatto più volte a proposito della televisione: per le immense parti del mondo meno sviluppate, l’abbondanza di informazioni è certamente motore di sviluppo democratico, ma non è così per i paesi più sviluppati. Tale abbondanza, infatti, è un fattore molto democratico quando arriva in una dittatura, ma può avere risvolti dittatoriali quando è presente in un sistema democratico.

Come totalità di contenuti disponibili in modo disordinato, non filtrato e non organizzato, internet permette a ciascuno di costruirsi una propria enciclopedia, intesa come sistema attraverso il quale una cultura filtra, conserva ed elimina le informazioni. In teoria, quindi, si può arrivare all’esistenza di sei miliardi di enciclopedie differenti: è questa un’acquisizione democratica? Credo di no, perché la funzione di un’enciclopedia è proprio quella di stabilire cosa va conservato e cosa va buttato via, in modo che ogni confronto possa avvenire sulla base di un linguaggio comune. Affermando che Tolomeo aveva torto e Galileo ragione, l’enciclopedia esclude quei letterati folli che ancor oggi scrivono volumi per dimostrare che la terra è quadrata. Filtrando queste posizioni, l’enciclopedia crea una piattaforma di linguaggio comune e solo sulla base di questa piattaforma si possono contestare le teorie ancora prevalenti. Se non ci fosse stata la teoria tolemaica, Copernico non avrebbe potuto sviluppare il suo sistema, cercando di contestarla, ed essendo capito da coloro ai quali si rivolgeva. È proprio attraverso la conservazione anche delle opinioni erronee, ma diventate patrimonio comune, che l’enciclopedia può crescere e i paradigmi possono essere rovesciati. Per rovesciare un paradigma, infatti, è necessario che ci sia un paradigma da rovesciare. Quindi le nuove idee possono essere costruite solo partendo da un’enciclopedia il più possibile condivisa, mentre con sei miliardi di enciclopedie, una diversa dall’altra, ogni comunicazione sarebbe impossibile.

A questo punto riprendo la nozione tecnica di informazione cui ho fatto cenno all’inizio, cioè come proprietà statistica che definisce tutto quello che potrebbe essere elaborato con la combinazione delle 26 lettere dell’alfabeto. In questo senso le vertigini non sono date dall’abbondanza dei messaggi prodotti, cioè dal Web, ma dalle possibilità consentite dal sistema. Nel XVII secolo gli intellettuali iniziarono a chiedersi quante dictiones, cioè quante parole, potevano essere costruite con le lettere dell’alfabeto, senza utilizzare ripetizioni. Nel 1622 Pierre Gouldin aveva calcolato tutte le parole che si potevano comporre con 23 lettere, indipendentemente dal fatto che fossero dotate di senso e pronunciabili: aveva contato più di settantamila miliardi di miliardi di parole, per scrivere le quali sarebbero occorsi più di un milione di miliardi di miliardi di lettere. Immaginando di scrivere queste parole su registri di mille pagine, ne occorrevano 257 milioni di miliardi; questi registri avrebbero potuto occupare più di 8 miliardi di biblioteche, ciascuna capace di ospitare 32 milioni di volumi. Calcolando la superficie disponibile sull’intero pianeta, si potevano costruire solo 7 miliardi di queste biblioteche. Marin Mersenne aveva poi calcolato non solo le parole, ma anche i canti, cioè le melodie sull’estensione di 3 ottave con l’utilizzo di 22 suoni. Ebbene, per annotare tutti i canti che si possono generare con tutte le combinazioni sarebbero occorse più risme di carta di quante ne sarebbero servite, secondo i calcoli del tempo, per colmare la distanza tra Terra e cielo. Inoltre, volendo scrivere tutti questi canti con un ritmo di 1.000 al giorno, sarebbero serviti 22 miliardi e 600 milioni di anni. Questa notizia dovrebbe dare molta speranza ai musicisti e convincerli che non c’è bisogno di copiare le canzoni!

Le vertigini che vengono di fronte a queste cifre relative alla nozione tecnica di informazione possono fare effetto anche se consideriamo il senso comune del termine informazione. Per esempio esiste un motore di ricerca tedesco, all’indirizzo www.bahn.de, che contiene tutti i dati sulle connessioni ferroviarie europee. Mi sono appassionato a questo programma e l’ho utilizzato in modo “disinteressato”, cercando di verificare quante dictiones si potevano produrre. Ho cominciato a chiedere come andare da Francoforte a Battipaglia e la soluzione è stata piuttosto soddisfacente perché, a seconda delle coincidenze, occorrevano dalle 18 alle 20 ore. Poi ho provato a chiedere il percorso tra Londra e Grosseto via Napoli: il primo itinerario richiedeva 29 ore ed era banale; il secondo calcolava 34 ore di percorrenza perché incappavo in uno spostamento tra due stazioni parigine; il terzo impiegava 26 ore, ma mi faceva passare da Bardonecchia, Alessandria, Novi Ligure, Viareggio, transitare da Grosseto all’una di notte, senza fermarmi, arrivare a Napoli Campi Flegrei e poi risalire per Roma Ostiense e tornare a Grosseto dopo altre nove ore di tragitto. Allora ho tentato con Battipaglia-Roscoff, via Madrid: poco più di 64 ore, passando da Milano Chambery, Perpignan, Barcelona, Parigi e Morlaix. Il secondo tentativo, molto chagalliano, è stato Battipaglia-San Pietroburgo-Vitebsk, via Madrid: Battipaglia-Parigi e Parigi-Madrid sono ovvie, ma da lì si parte per Bruxelles, Mosca, San Pietroburgo e Vitebsk, impiegando in tutto 110 ore e 34 minuti. Ho quindi provato con il percorso Madrid-Roma via Varsavia, attraversando una serie di villaggi dal sapore yiddish. La verità è che per fare tutti questi spostamenti ci sono dei percorsi preferenziali, scelti o sulla base di criteri di rapidità e di economicità o secondo la decisione di visitare quanti più posti possibili. Ma se non adotto almeno uno di questi o di altri criteri, come posso scegliere il percorso? Certo non posso affidarmi al sistema, che mi elenca tutte le opzioni possibili. Per reagire alle vertigini provocate dal sistema, dunque, io ho la sola possibilità di elaborare dei criteri di selezione.

Ancora una volta la questione fondamentale riguarda il filtraggio, non nel senso di censura esterna o politica, ma come senso della responsabilità personale, come filtro del singolo per non soccombere di fronte alla sterminata mole di informazioni della nostra società. Ma su questo piano io, come moltissimi altri, navighiamo verso il futuro con tante legittime preoccupazioni e con poche soluzioni da suggerire.

Umberto Eco

Il 19 febbraio 2016 il Centro Interdipartimentale di Ricerca NUTRAFOOD – Nutraceutica e Alimentazione per la Salute dell’Università di Pisa organizza il convegno “La carne che mangiamo: quale, come, quando e perché”. L'obiettivo è promuovere un dibattito sulle evidenze scientifiche che hanno portato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, attraverso l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), a classificare la carne rossa come probabile cancerogeno e la carne trasformata come cancerogena per gli esseri umani.
Il professor Marcello Mele, docente del dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e agro-ambientali e del Centro NUTRAFOOD dell'Università di Pisa, propone una riflessione sull'argomento, mettendo in evidenza le differenze all'interno della macrocategoria "carni trasformate".   

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carneLa carne, in particolare quella denominata "rossa", da anni è al centro di molte discussioni in merito al suo valore nutrizionale e alla possibilità che il suo consumo possa contribuire in maniera significativa ad aumentare il rischio di patologie generative gravi come alcune forme di tumore. Ad alimentare questo clima di sospetto ha contribuito attivamente una recente nota del gruppo di lavoro dell’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC).

Lo IARC, infatti, ha licenziato un rapporto, allo stato non consultabile, ma riassunto in una breve nota di due pagine pubblicata sulla sezione news della rivista Lancet Oncology, nella quale 22 scienziati hanno ritenuto carcinogenico, relativamente al colon-retto, il consumo di carni rosse conservate e probabilmente carcinogenico quello di carni rosse. Pur riconoscendo l’alto valore nutrizionale delle carni, il responso del panel ha portato lo IARC a classificare le carni conservate nel gruppo 1 (sostanze carcinogeniche per gli umani) e le carni rosse in quello 2A (sostanze probabilmente carcinogeniche per gli umani).

Come membro della comunità scientifica pisana che studia gli alimenti e le loro proprietà nutrizionali e funzionali (organizzata nel centro NUTRAFOOD) non sono rimasto per nulla sorpreso da questa nota dello IARC, in quanto il gruppo di esperti giunge a delle conclusioni sulla base di evidenze scientifiche, prevalentemente originate da studi epidemiologici, che sono note da tempo. Sorprende tuttavia che ancora una volta sia stato ignorato il concetto, più volte ribadito dagli esperti di alimenti, che la definizione di carni rosse e carni trasformate è troppo generica e non aiuta a fare chiarezza sul reale ruolo nutrizionale dei numerosi alimenti che vengono ascritti a queste due macrocategorie.

Solo a titolo di esempio, nella categoria carne trasformata/conservata trovano posto tutti gli alimenti carnei che subiscono un qualche processo di trasformazione e di conservazione. Si va, quindi, dal würstel e la mortadella al salame, alla bresaola e al prosciutto crudo, solo per fare alcuni esempi molto noti. Le caratteristiche chimiche, nutrizionali, funzionali e salutistiche di questi prodotti sono assai differenti, perché molto diversi sono le caratteristiche delle materie prime di partenza, i processi di produzione dell materia prima e di trasformazione e di conservazione utilizzati e gli eventuali additivi utilizzati. Ciononostante nessuno degli studi epidemiologici che supportano le evidenze scientifiche a sostegno della cancerogenità della carne trasformata ha mai provato a distinguere l’effetto dei singoli componenti della macrocategoria “carni trasformate”, facendo passare l’assunto che mangiare 50 g di prosciutto crudo toscano, di Parma o di San Daniele (per citare alcune delle eccellenze DOP italiane) sia esattamente la stessa cosa che mangiare una pari quantità di würstel, dal punto di vista del rischio di tumore al colon retto.

Il concetto di variabilità degli alimenti e di rapporto fra sistemi di produzione del cibo e qualità del cibo sono, in buona sostanza, poco o nulla considerati negli studi epidemiologici ed è convinzione degli esperti del centro NUTRAFOOD che questo aspetto debba essere affrontato in maniera multidisciplinare, nell’interesse di una comunicazione chiara e utile al consumatore per effettuare scelte consapevoli.

Dello stesso avviso è anche l’Associazione Scientifica per le Scienze e le Produzioni Animali (ASPA) che ha recentemente promosso, con il contributo dell’ASSALZOOO, la realizzazione del libro “Alimenti di origine animale e salute”, curato dal professor Giuseppe Pulina dell’Università di Sassari oltre che dal sottoscritto, proprio per meglio comunicare il reale ruolo degli alimenti di origine animale per la salute umana, con l’intento di fare chiarezza sugli aspetti legati alla grande diversità chimica, nutrizionale e funzionale che esiste tra gli alimenti di origine animale, compresa la cosiddetta carne rossa e trasformata.

Con il convegno “La carne che mangiamo quale, come, quando e perché”, il Centro Interdipartimentale di Ricerca NUTRAFOOD – Nutraceutica e Alimentazione per la Salute dell’Università di Pisa vuole contribuire a promuovere un dibattito in merito alla qualità e alla quantità di carni che finiscono sulle nostre tavole, i rischi per la salute che possono derivare dagli eccessi o dalla mancanza di carne, i benefici che provengono da un consumo adeguato e, infine, in quali momenti della vita è particolarmente importante il consumo di carne.

Marcello Mele

Luca Pandolfi (sx) e Michele Marroni al lavoro nel settore a SE della città di Kahunj nel bordo meridionale della depressione desertica di Hamun-e Jaz Murian (provincia di Kerman)Si è conclusa la missione scientifica nel Belucistan iraniano dei professori Michele Marroni e Luca Pandolfi, docenti del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa. I due geologi, assieme al professor Emilio Saccani dell’Università di Ferrara, hanno condotto dal 31 gennaio al 14 febbraio ricerche sulla catena del Makran nella parte centrale del Belucistan, la regione al confine tra il Pakistan e l’Iran.

«L’obiettivo era cercare i resti dei grandi oceani che dal Giurassico al Cretaceo Superiore, tra 160 e 80 milioni di anni fa, erano localizzati ai margini meridionali della placca euroasiatica – spiega il professor Marroni – Questi oceani sono stati successivamente chiusi tramite la subduzione di litosfera oceanica, scomparendo definitivamente e dando luogo alla nascita della catena del Makran. Resti della litosfera oceanica si sono però preservati come rocce metamorfiche e deformate all’interno della catena e proprio questi resti hanno costituito l’obiettivo dei ricercatori pisani. Dallo studio di queste rocce, tramite le analisi di terreno e di laboratorio, sarà possibile ricostruire la storia di questi oceani e quindi conoscere la paleogeografia di questa area, che è tra le meno studiate al mondo».

I depositi eocenici deformati del settore esterno della catena del Makran sovrastano delle palme da dattero, prodotto tipico della provinicia di KermanIl Belucistan è una vasta zona desertica dove si alternano montagne alte fino a 2000 metri a deserti di sabbia. La missione si è svolta dunque in zone difficili sia dal punto di vista dell’accessibilità, che da quello della logistica ed è stata possibile solo grazie all’utilizzo di guide locali e di fuoristrada. Nonostante le difficoltà, è stato possibile raccogliere importanti dati di terreno e numerosi campioni di rocce in aree geologicamente significative.

La missione, che è stata effettuata assieme ai colleghi iraniani Morteza Delavari e Ashgar Dolati, nasce dal recente accordo siglato dal dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa con la Faculty of Geology della Kharazmi University di Teheran e si inquadra nel programma “Darius”, un vasto programma di ricerca finanziato da un pool di compagnie petrolifere che coinvolge numerosi ricercatori sia europei e che mediorientali.

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La missione in Belucistan segna l’inizio di una importante collaborazione scientifica tra i due atenei che si inquadra nella progressiva apertura dell’Iran ai rapporti con i paesi della comunità europea, sulla scia della recente visita di Hassan Rouhani, Presidente della Repubblica Iraniana. É prevista la prosecuzione delle ricerche mediante una ulteriore campagna di terreno in Belucistan programmata verso la fine del 2016.

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Nelle foto:
- in alto, Luca Pandolfi (a sinistra) e Michele Marroni al lavoro nel settore a SE della città di Kahunj nel bordo meridionale della depressione desertica di Hamun-e Jaz Murian (provincia di Kerman)
- al centro i depositi eocenici deformati del settore esterno della catena del Makran sovrastano delle palme da dattero, prodotto tipico della provinicia di Kerman
- in basso una visione, da sud verso nord, della parte interna della catena montuosa del Makran fotografata dal settore più rilevato della catena (circa 2000m) 150 km a sud della città di Kahunj.

Ne hanno parlato:
InToscana.it
Greenreport
QuiNewsPisa
Controcampus

 

IFFUno studio su un paziente affetto da Insonnia Fatale Familiare (FFI) ha evidenziato per la prima volta nell’uomo il ruolo chiave del talamo nell’attivare le fasi di sonno profondo. La ricerca, coordinata dal professore Angelo Gemignani dell’Università di Pisa, è stata condotta in collaborazione con l’equipe del professore Pietro Cortelli dell’Università di Bologna e con ricercatori e i contrattisti dell’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr di Pisa e della Scuola Superiore Sant’Anna.

L’Insonnia Fatale Familiare (FFI) è una rara patologia ereditaria legata ad un accumulo abnorme di proteina prionica nei nuclei anteriore e medio-dorsale del talamo che conduce ad una lesione talamica selettiva. La malattia si manifesta con insonnia gravissima che conduce a morte entro uno/due anni circa dalla diagnosi. Nel caso specifico, il paziente affetto da FFI, un italiano la cui storia è stata recentemente raccontata in un lungo reportage della BBC, presentava una drammatica riduzione delle oscillazioni lente del sonno e dei fusi del sonno. L’assenza di fusi nella fase di attività neuronale dell’oscillazione lenta esprime un’alterazione delle funzioni mnesiche del sonno mentre alterazioni della fase di silenzio elettrico e sinaptico compromettono sia il mantenimento del sonno che l’assenza di coscienza.

“Sono anni che ci occupiamo di psicofisiologia del sonno – ha spiegato Angelo Gemignani – e il caso di questo paziente ha consentito di verificare un’ipotesi formulata nel modello animale e di capire meccanismi generali relativi al sonno che potranno permettere di creare nuove strategie terapeutiche sia nell’ambito della sofferenza psicologica che nel campo delle patologie neurodegenerative”.

SalvettiDalla gravità alterata, fino a 20 volte maggiore rispetto a quella terrestre, e dall’impiego di un nanomateriale smart, arriveranno indicazioni per contrastare la produzione di radicali liberi, sostanze che contribuiscono all’invecchiamento cellulare. Nell’ambito della settima edizione della campagna “Spin your thesis!”, il gruppo di ricercatori “PlanOx”, è stato selezionato dell’Agenzia Spaziale Europea, con altri tre gruppi europei, per condurre gli esperimenti in gravità alterata all’interno della “Large diameter centrifuge”, “centrifuga”, dal diametro di otto metri, posizionata nel “Centro Europeo di Ricerca Spaziale e Tecnologica”, a Noordwijk, nei Paesi Bassi.

Il team di ricerca PlanOx, coordinato da Gianni Ciofani, professore associato del Politecnico di Torino e ricercatore presso il centro di Micro-BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna e Istituto Italiano di Tecnologia (CMBR - IIT), è frutto della collaborazione con Alessandra Salvetti, professoressa associata del dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell’Università di Pisa (la prima a destra nella foto).

Il nome del gruppo, PlanOx, fa riferimento a quello delle planarie, vermi che presentano un corpo piatto e allungato, dalle dimensioni di pochi millimetri. Le planarie sono caratterizzate da una straordinaria capacità rigenerativa e possono essere considerate immortali grazie alla presenza di cellule staminali che continuamente sostituiscono le celle perse dal corpo dell’animale.

large diameter centrifugeDa anni il gruppo di ricerca di Alessandra Salvetti utilizza questi animali come sistema modello per lo studio in vivo della biologia delle cellule staminali e, grazie alla collaborazione con Gianni Ciofani e Giada Genchi dell’IIT-Sant’Anna, esperti di “smart material “ nanotecnologici, questi animali serviranno anche per capire come sia possibile contrastare gli effetti della forza di gravità superiore a quella terrestre sulla produzione di radicali liberi utilizzando le nanoparticelle di ceria, nanoparticelle ceramiche, biocompatibili, dall'eccezionale capacità antiossidante ed autorigenerante che sono in grado di contrastare l'insorgenza di radicali liberi.

Alterazioni della forza di gravità aumentano infatti la produzione di radicali liberi nelle cellule e contribuiscono all’invecchiamento cellulare. Questo meccanismo sembra essere implicato, ad esempio, nella degenerazione muscolare e ossea cui vanno incontro gli astronauti durante periodi di esposizione a gravità alterata. I risultati che il gruppo PlanOx otterrà potranno dimostrarsi utili non soltanto per trattare le problematiche legate all'esposizione a regimi di gravità alterata, ma anche, in futuro, per il trattamento di malattie degenerative causate dall'aumento incontrollato di radicali liberi.

Gli esperimenti in Olanda sono già stati fissati per settembre 2016, mentre una parte rilevante dello studio avverrà in Italia: le analisi sui campioni da utilizzare sulla “Large Diameter Centrifuge” saranno condotte presso il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Pisa e il Centro di Micro-BioRobotica dell’IIT di Pontedera.

lab CLI 2Sono stati inaugurati il 15 febbraio i nuovi spazi del Centro Linguistico dell’Università di Pisa, cinque laboratori a Palazzo Curini (in via Santa Maria 89), di cui tre interamente costruiti ex novo e due rinnovati, che mettono a disposizione degli studenti in totale 138 postazioni per studiare le lingue. Aggiunte alle preesistenti 30 presso la sede del CLi in via Santa Maria 36, sono 168 le postazioni complessive in ambienti attrezzati per proiezioni, videoconferenze, ascolto e produzione, sia in forma guidata che in autoapprendimento, che possono essere utilizzate dagli studenti. All’inaugurazione erano presenti anche il prorettore vicario Nicoletta De Francesco, che ha portato i saluti del rettore, e il professor Sandro Paci, prorettore all’edilizia, che ha illustrato gli interventi di recupero di Palazzo Curini.

lab CLI 1«I laboratori sono un servizio necessario per gli studenti che devono sostenere esami di lingua straniera e nella prospettiva dell’internazionalizzazione, ma non solo – ha dichiarato Marcella Bertuccelli, direttore del CLi – Nell’anno accademico 2014-15 sono passati dai nostri laboratori linguistici 5187 studenti iscritti ai corsi di laurea nei quali è prevista l’acquisizione dell’idoneità in una lingua straniera, e 5096 studenti che hanno frequentato corsi CLi (di tutte le lingue europee oltre a cinese, giapponese e arabo), per un totale di oltre 11.000 presenze, che rendono il nostro Centro un’eccellenza dell’Ateneo».

lab CLI 3A queste presenze si devono sommare gli studenti internazionali Erasmus, i partecipanti ai progetti curati dall’Ufficio internazionale dell’Università di Pisa, gli studenti di corsi per certificazioni internazionali, gli studenti e dottorandi della Scuola Normale e della Scuola Sant’Anna in convenzione con l’Ateneo pisano per gli insegnamenti linguistici, gli insegnanti di scuola primaria e secondaria all'interno di progetti regionali e ministeriali di formazione linguistica come il CLIL. «Se a questi si aggiungono le sedute di autoapprendimento, si raggiungono numeri considerevoli che impegnano i laboratori linguistici tutti i giorni e per diverse ore al giorno – conclude la professoressa Bertuccelli – Le richieste sono in costante aumento e il nostro auspicio è che il Centro possa continuare a crescere sul lato dell’utenza, ma anche nei numeri del suo personale tecnico, indispensabile e fondamentale per assistere ogni giorno i ragazzi nelle attività dei laboratori».

sbadigli empatia Le donne sono più empatiche degli uomini e a dimostrarlo è la contagiosità degli sbadigli che per il sesso femminile è maggiore. E’ questo il risultato di una ricerca condotta da un gruppo di etologi dell’Università di Pisa che è stata appena pubblicata sulla “Royal Society Open Science”, la rivista della Royal Society britannica. Ivan Norscia, Elisa Demuru ed Elisabetta Palagi del Museo di Storia Naturale dell’Ateneo pisano hanno osservato per cinque anni, dal 2010 al 2015, un campione composto da 48 uomini e 56 donne durante le loro usuali attività quotidiane. La ricerca non solo ha confermato che parenti e amici si contagiano più frequentemente rispetto alle persone che si conoscono appena, ma ha anche rivelato per la prima volta che le donne rispondono più frequentemente degli uomini agli sbadigli altrui.

Com’è noto la contagiosità degli sbadigli è un fenomeno che ha basi empatiche e infatti l’empatia si basa sulla capacità di recepire e fare proprie le espressioni facciali altrui attraverso un meccanismo che a livello neuronale è mediato dai neuroni a specchio che ci rendono sensibili alle emozioni degli altri.

“Con il nostro studio abbiamo dimostrato anche a livello etologico la maggiore capacità empatica delle donne – ha spiegato Elisabetta Palagi – una capacità già radicata profondamente nella natura materna e confermata da numerose evidenze psicologiche, cliniche e neurobiologiche”.

Ne hanno parlato:
Repubblica.it
Ansa Toscana
Ansa Salute&Benessere
Tirreno.it
InToscana.it
Focus.it
Panorama.it
PisaInformaFlash.it
Controradio.it
AgenziaImpress.it
CorriereFiorentino.it
Tiscali.itLa Nazione Pisa

 

isaacsLa professoressa Ann Katherine Isaacs, delegata del rettore dell’Università di Pisa per i Programmi europei, è stata nominata dal MIUR rappresentante per l’Italia del gruppo di lavoro della Commissione Europea “ET 2020 Working group on the Modernisation of Higher Education” per il biennio 2016-2018. Il comitato internazionale opererà nell’ambito del Quadro strategico sulla cooperazione europea nell’istruzione e nella formazione, Education and Training 2020 (ET 2020), e favorirà lo scambio di buone pratiche, l’apprendimento reciproco, la raccolta e la diffusione di informazioni tra i partner europei.

Il progetto dell’Unione Europea per la modernizzazione dell'insegnamento superiore fissa cinque priorità principali: aumentare il numero dei laureati, migliorare la qualità e la pertinenza dell'insegnamento e dell'apprendimento, promuovere la mobilità degli studenti e del personale universitario, rafforzare il "triangolo della conoscenza" tra istruzione, ricerca e innovazione e creare meccanismi efficaci di governance e finanziamento per l'istruzione superiore. I gruppi di lavoro Et 2020 lavoreranno per definire strumenti comuni e linee guida per il raggiungimento di questi obiettivi.

evodiamond premiazione categoria scuola Proclamati i vincitori del “EvoDiAMoND Graphics”, il concorso di idee lanciato dall’Università di Pisa che ha premiato l’incontro fra arti visive e scienza per comunicare al meglio il fenomeno dell'evoluzione biologica. La classe 4a B del Liceo artistico “Russoli” di Pisa (foto premiazione) si è aggiudicata il primo premio nella categoria scuole grazie ad una gif animata, mentre un gruppo di giovani ricercatori, Francesco Lami, Andrea Pecci, Valentina Peona e Marco Ricci, è risultato primo nella categoria open con una vignetta. Ai vincitori è stato assegnato un premio in denaro offerto dall'Associazione Antropologica Italiana, oltre a ingressi omaggio offerti dal Museo delle Scienze di Trento (MUSE).
La premiazione è avvenuta venerdì 12 gennaio al Polo Fibonacci dell’Università di Pisa nell'ambito della giornata EvoDiAMoND (Different Approaches and Models for a New Didactics of Evolution). L'evento, che ha visto la partecipazione di insegnanti, studenti e giovani ricercatori, ha costituito un momento di aggiornamento e discussione sui diversi aspetti dell'evoluzione biologica e sulle strategie per una sua corretta comunicazione.
L'iniziativa è stata organizzata dal Dipartimento di Biologia e dalla Scuola di Dottorato in Biologia dell'Università di Pisa con il sostegnodella Società Europea di Biologia Evoluzionistica (ESEB), della Società Italiana di Antropologia (AAI), del Museo delle Scienze di Trento (MUSE) e con la collaborazione dell'Unione degli Atei e degli Agnostici e Razionalisti (UAAR Pisa), de La Nuova Limonaia, della Società Italiana di Biologia Evoluzionistica (SIBE) e B:Kind - cowork in science.

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