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La cultura è anche capacità di filtrare le informazioni

La riflessione sulle nuove tecnologie che Umberto Eco tenne all'Università di Pisa nel 2004

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Come omaggio a Umberto Eco - il grande semiologo, filosofo e scrittore, scomparso negli scorsi giorni - riproponiamo la lezione che il professore piemontese tenne all'Università di Pisa il 16 settembre del 2004, in occasione dell’inaugurazione della nuova sede del dipartimento di "Ingegneria dell’informazione: elettronica, informatica, telecomunicazioni” e che fu poi publicata su "Athenet. La rivista dell'Università di Pisa".
Partendo dalla constatazione dell’enorme impatto che le nuove tecnologie hanno avuto sul nostro modo di comunicare e di vivere, il professor Umberto Eco sviluppò una riflessione dal titolo "La cultura è anche capacità di filtrare le informazioni", critica e spesso ironica sulle potenzialità e sui pericoli insiti nell’eccesso di informazioni che caratterizza la società contemporanea.

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eco2Vorrei iniziare questo intervento partendo dal duplice significato della nozione di informazione, che a volte viene utilizzata seguendo il senso comune e a volte in senso tecnico. In quest’ultimo caso ci rifacciamo alla teoria matematica dell’informazione, secondo cui essa è una proprietà statistica della fonte e definisce (per esempio) tutto quello che potrebbe essere elaborato con la combinazione delle 26 lettere dell’alfabeto. L’informazione, quindi, deriva da una misura di probabilità all’interno di un sistema equiprobabile. Una volta che tra tutte le possibilità consentite dall’alfabeto viene elaborata una frase specifica, entriamo nell’altro significato di informazione e ci occupiamo di quello che chiamiamo messaggio, cioè un significato che può essere trasmesso e comunicato. È chiaro che oggi parleremo di informazione in quest’ultimo senso, come trasmissione di dati di qualche interesse collettivo, anche se più tardi ci tornerà utile ricordare l’altro significato.

All’interno di questo significato di senso comune, un’altra distinzione che dobbiamo fare è quella tra messaggio e canale. Per discutere della situazione attuale dell’informazione dobbiamo considerare due fattori: l’organizzazione dei canali rispetto al passato e il numero - non la qualità o il contenuto, che in questa sede non interessano - dei messaggi trasmissibili.

Per quanto riguarda i canali, da almeno due secoli e cioè dall’invenzione del telegrafo, stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione e oggi sappiamo bene che in pochi secondi possiamo trasmettere un messaggio a Sidney e ricevere risposta. Mi pare però che questa constatazione entusiastica debba indurre ogni tanto anche a qualche riflessione o ironica o pessimistica. Una volta nella rubrica “La Bustina di Minerva” su "L’espresso" ho citato la teoria (ovviamente inventata, ma non del tutto improbabile) di un certo Backwards che, come suggerisce lo stesso cognome, era interessato al fenomeno del ritorno al passato. Secondo questo signore, la comunicazione pesante era entrata in crisi verso la fine degli anni Settanta con l’invenzione del telecomando. Con questo strumento, lo spettatore poteva anche azzerare l’audio, seguire solo il video e, attraverso lo zapping, crearsi una propria sequenza visiva. L’introduzione del videoregistratore ha permesso poi di liberarsi dalla linearità dell’evento in diretta. A questo punto lo spettatore poteva guardare una videocassetta senza audio e accompagnare le immagini con il suono di una pianola: praticamente era tornato al cinema muto. Il passo successivo è stato dettato dall’eliminazione del movimento delle immagini: rispetto a uno strumento molto più arretrato come la televisione, internet, soprattutto all’inizio, dava immagini fisse, monocolore e a bassa definizione. Con la posta elettronica si è quindi arrivati alla sola comunicazione alfabetica, in pratica tornando allo stadio dei Fenici. Potremmo andare oltre e parlare di una sorta di scatola, poco ingombrante, che emette suoni con la rotazione di una manopola: voi direte che è la radio. No, è semplicemente l’iPod, uno dei più diffusi e avanzati oggetti tecnologici di oggi. Ma c’è di più: fino a poco tempo fa le trasmissioni viaggiavano via etere, con tutti i disturbi e le difficoltà che ne conseguivano. Le piattaforme digitali e Internet utilizzano invece la trasmissione via cavo telefonico e questo fatto sancisce la curiosa vittoria di Meucci su Marconi.

A parte questi scherzi, vi propongo una riflessione di natura storica: è proprio vero che nel passato la trasmissione delle informazioni era così lenta? Vi faccio un esempio: nel 1614 appaiono i libelli dei Rosacroce, promessa di una grande palingenesi del genere umano, che nella prima edizione escono in tedesco e nella seconda in latino. Ebbene, tra 1614 e 1616 si diffondono tra i maggiori dotti d’Europa centinaia di pamphlet di risposta e di discussione e nel solo 1616 escono tre opere fondamentali. Uno degli autori di questi testi, Robert Fludd, ha scritto circa 10-15 mila pagine e le ha illustrate con incisioni molto accurate che doveva necessariamente seguire di persona. Tra il 1614 e il 1624 Fludd scrive diversi volumi: lui vive in Inghilterra, i libri vengono pubblicati parte in Germania e parte in Olanda. Come poteva funzionare in tempi così rapidi il lavoro di correzione di bozze e di controllo sulle incisioni, quando oggi per realizzare un volume illustrato in modo serio, inviando le immagini via e-mail, servono almeno due anni? La verità è che nel passato, anche quando il canale era costituito dal messaggero a cavallo, le informazioni circolavano con molta maggiore rapidità di quanto noi sospettiamo.

eco1Per quanto riguarda il numero dei messaggi è del tutto evidente che tende a crescere in forma esponenziale. Questo flusso ininterrotto ci aiuta? Voi sapete che ormai lo specialista di una disciplina non è in grado di seguire quello che viene prodotto nel suo settore e che addirittura, così mi dicono alcuni amici, un matematico spesso non è nemmeno in grado di capire quello che viene prodotto negli altri settori della sua materia. La soluzione degli abstract rinvia al problema di chi filtra l’informazione, selezionando la possibilità di ognuno di accedere all’intero materiale, mentre con Internet abbiamo l’impressione di avere tutto a portata di mouse, senza alcun filtro e con la possibilità di ricevere una risposta immediata. In questo caso, il problema è di come ci si deve comportare di fronte a un’abbondanza di informazione. L’esempio che cito in questi casi è quello delle bibliografie. Quando preparavo la tesi, formare una bibliografia voleva dire passare molti giorni in biblioteca, cercare e segnare a penna i volumi che si trovavano e alla fine di un grosso lavoro aver messo insieme cento titoli. Oggi, con Internet, io schiaccio un bottone e trovo 10.000 titoli di bibliografia. Qual è il problema? Primo, che se li faccio vedere al professore, gli viene un infarto perché tutti quei titoli non li conosceva nemmeno lui e per questo si incrina il nostro rapporto di fiducia. Secondo, che io non solo non posso leggere i 10.000 libri, ma nemmeno i 10.000 titoli della bibliografia: avere un numero tanto elevato di titoli equivale perciò a non averne alcuno. Proprio per questa abbondanza bibliografica, molti libri recenti tendono a citare solo titoli pubblicati negli ultimi anni. Passi per la fisica nucleare, ma per la storia della filosofia questo provoca effetti paradossali: ho letto un libro in cui si sviluppava un certo ragionamento e si rimandava alla nota a piè di pagina. “Pare che di questo argomento si fosse occupato a fondo Kant. Cfr. Brown 1991”. Pensate, l’autore aveva in bibliografia solo Brown, perché considerava Kant troppo antico.

Il problema non è solo legato all’abbondanza delle informazioni, ma anche alla possibilità di selezionare la loro attendibilità. Una volta ho fatto un esperimento su un tema di cui, pur non essendo uno specialista, presumo di sapere alcune cose: ho digitato la parola “Graal” in un motore di ricerca e ho analizzato i primi 70 siti segnalati. Sessantotto di questi erano puro ciarpame, materiale neonazista o pubblicitario; uno era credibile, ma conteneva una semplice descrizione da enciclopedia del tipo Garzantina; uno conteneva un piccolo saggio preciso, ma privo di particolare interesse. Mi chiedo come possa fare un giovane studente a decidere quale tra questi siti abbia notizie utili. La stessa cosa è successa quando ho cercato notizie sull’olocausto, cercando la parola “holocaust”. Immediatamente ho individuato alcuni siti di chiara ispirazione nazista e negazionista ma, se sullo sfondo non c’è una svastica, se certe posizioni sono ben camuffate, diventa molto difficile per una persona normale capire e scegliere.

È per questi motivi che io chiedo che venga insegnata la tecnica della decimazione. Ricevo quotidianamente decine e decine di libri che non potrò mai leggere e per questo ho elaborato delle tecniche di decimazione. Alcune si basano semplicemente su criteri statistici: se un libro è banale, ritroverò le stesse idee nel decimo volume pubblicato su quel dato argomento; se un libro è geniale, ugualmente troverò le stesse idee, diventate patrimonio comune, nel decimo libro sull’argomento. Allora, ho deciso di leggere un libro ogni dieci pubblicati su un certo tema. Altri criteri sono più sofisticati e si basano sull’esame dell’indice, della bibliografia e così via. Il mio consiglio al ministro Moratti è che queste tecniche vanno insegnate fin dalle scuole elementari e che occorre aggiungere la “D” di decimazione alle tre “I” di internet, inglese e impresa. Una volta il Centro cattolico cinematografico compilava una lista dei film per tutti, di quelli solo per adulti e di quelli sconsigliati. Il buon cattolico si fidava di questa indicazione e si comportava di conseguenza. Oggi non è possibile ipotizzare un tipo di lavoro simile per tutti i siti che si occupano delle diverse discipline, perché i contenuti cambiano in continuazione e non è quindi possibile analizzarli in modo sistematico e aggiornato.

Questo problema ci introduce a un’altra questione, quella del filtro, collegata con la tecnica della decimazione. A questo proposito, ho scritto un saggio sull’Ars oblivionalis, cioè l’arte dell’oblio, in cui ho analizzato le tecniche elaborate nel corso della storia - da Simonide ad almeno tutto il XIX secolo – per memorizzare il maggior numero possibile di informazioni, una tecnica fondamentale per studiosi che, a differenza di noi, non disponevano di registratore, computer e internet. Filippo Gesualdo, un autore vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo, nella sua Plutosofia ci ricorda che, accanto alle tecniche per ricordare, esistono anche quelle per dimenticare. Escludendo le martellate sulla testa e il ricorso all’etilismo, questo autore insegnava una tecnica analoga a quella usata per ricordare, con cui bisognava immaginare un palazzo immenso con colonnati, statue e altri elementi a cui associare, magari per l’identica lettera alfabetica iniziale, un concetto o una regola. Gesualdo affermava quindi che per dimenticare bisogna immaginare questo palazzo e noi stessi mentre lanciamo fuori dalla finestra un oggetto dietro l’altro. La tecnica suggerita da Gesualdo mi ha fatto sempre sorridere, perché è un’altra tecnica per ricordare meglio ciò che si vuole dimenticare, come succede all’innamorato abbandonato che, per cercare di dimenticare la persona amata, la pensa di continuo e rinfocola così il proprio amore.

In realtà esiste un’Ars oblivionalis e si chiama cultura, intesa come memoria storica, come insieme di sapere condiviso su cui si regge il gruppo e la società umani. La cultura non è solo un accumulo di dati, è anche il risultato del loro filtraggio. La cultura è anche capacità di buttar via ciò che non è utile o necessario. La storia della cultura e della civiltà è fatta di tonnellate di informazioni che sono state seppellite. Talvolta abbiamo giudicato questo processo un danno e ci sono voluti secoli per riprendere il percorso interrotto: i greci non sapevano quasi più niente della matematica egiziana e ugualmente il Medioevo ha dimenticato tutta la scienza greca. In un certo senso, però, questo è servito alle diverse culture per ringiovanirsi partendo da zero, per poi recuperare gradualmente il perduto. Altre informazioni sono andate perdute. Non sappiamo più a cosa servivano le statue dell’Isola di Pasqua, e moltissime delle tragedie descritte da Aristotele nella Poetica non ci sono pervenute.

Questo discorso non vale solo per le culture, ma anche per la nostra vita. Jorge Luis Borges ha scritto una bellissima novella, intitolata Funes el memorioso, su un personaggio che ricorda tutto, ogni foglia che ha visto su ogni albero, ogni parola che ha udito nel corso della sua vita, ogni refolo di vento che ha avvertito, ogni sapore che ha assaporato, ogni lettera che ha letto. Eppure Funes è un completo idiota, un uomo bloccato dalla sua incapacità di selezionare e di buttare via. Il nostro inconscio funziona perché butta via. Poi, se c’è qualche inghippo, si spendono un sacco di soldi dallo psicanalista per recuperare quel poco che serviva e che per sbaglio abbiamo buttato via. Ma tutto il resto per fortuna è stato eliminato e la nostra anima è esattamente il prodotto della continuità di questa memoria selezionata: se avessimo l’anima di Funes saremmo persone senz’anima. Il World Wide Web è Funes el memorioso, anche se ogni tanto si rinnova e butta via qualcosa. La nuova biblioteca di Alessandria d’Egitto ha iniziato a raccogliere su cassette tutto ciò che appare su internet, comprese le informazioni che successivamente vengono eliminate. Questa raccolta al massimo della sua potenzialità sarà peggio di internet, perché avrà tutti i contenuti che ha oggi internet insieme a quelli che sono stati filtrati con il tempo.

Le questioni che ho cercato di porre, quindi, riguardano l’attendibilità dei siti, un problema fondamentale a fini educativi, e più in generale il dominio e il controllo delle informazioni che passano su internet.

Voi mi direte che internet è un grande fenomeno democratico, che permette di ricevere tutti i tipi di informazione e di scegliere in modo libero, e io ho presente l’impatto che internet ha avuto sulla società cinese, specie quella giovanile, una realtà in cui non c’è più una dittatura economica, ma certamente una politico-ideologica. Mi sembra, però, di poter fare per internet un discorso simile a quello fatto più volte a proposito della televisione: per le immense parti del mondo meno sviluppate, l’abbondanza di informazioni è certamente motore di sviluppo democratico, ma non è così per i paesi più sviluppati. Tale abbondanza, infatti, è un fattore molto democratico quando arriva in una dittatura, ma può avere risvolti dittatoriali quando è presente in un sistema democratico.

Come totalità di contenuti disponibili in modo disordinato, non filtrato e non organizzato, internet permette a ciascuno di costruirsi una propria enciclopedia, intesa come sistema attraverso il quale una cultura filtra, conserva ed elimina le informazioni. In teoria, quindi, si può arrivare all’esistenza di sei miliardi di enciclopedie differenti: è questa un’acquisizione democratica? Credo di no, perché la funzione di un’enciclopedia è proprio quella di stabilire cosa va conservato e cosa va buttato via, in modo che ogni confronto possa avvenire sulla base di un linguaggio comune. Affermando che Tolomeo aveva torto e Galileo ragione, l’enciclopedia esclude quei letterati folli che ancor oggi scrivono volumi per dimostrare che la terra è quadrata. Filtrando queste posizioni, l’enciclopedia crea una piattaforma di linguaggio comune e solo sulla base di questa piattaforma si possono contestare le teorie ancora prevalenti. Se non ci fosse stata la teoria tolemaica, Copernico non avrebbe potuto sviluppare il suo sistema, cercando di contestarla, ed essendo capito da coloro ai quali si rivolgeva. È proprio attraverso la conservazione anche delle opinioni erronee, ma diventate patrimonio comune, che l’enciclopedia può crescere e i paradigmi possono essere rovesciati. Per rovesciare un paradigma, infatti, è necessario che ci sia un paradigma da rovesciare. Quindi le nuove idee possono essere costruite solo partendo da un’enciclopedia il più possibile condivisa, mentre con sei miliardi di enciclopedie, una diversa dall’altra, ogni comunicazione sarebbe impossibile.

A questo punto riprendo la nozione tecnica di informazione cui ho fatto cenno all’inizio, cioè come proprietà statistica che definisce tutto quello che potrebbe essere elaborato con la combinazione delle 26 lettere dell’alfabeto. In questo senso le vertigini non sono date dall’abbondanza dei messaggi prodotti, cioè dal Web, ma dalle possibilità consentite dal sistema. Nel XVII secolo gli intellettuali iniziarono a chiedersi quante dictiones, cioè quante parole, potevano essere costruite con le lettere dell’alfabeto, senza utilizzare ripetizioni. Nel 1622 Pierre Gouldin aveva calcolato tutte le parole che si potevano comporre con 23 lettere, indipendentemente dal fatto che fossero dotate di senso e pronunciabili: aveva contato più di settantamila miliardi di miliardi di parole, per scrivere le quali sarebbero occorsi più di un milione di miliardi di miliardi di lettere. Immaginando di scrivere queste parole su registri di mille pagine, ne occorrevano 257 milioni di miliardi; questi registri avrebbero potuto occupare più di 8 miliardi di biblioteche, ciascuna capace di ospitare 32 milioni di volumi. Calcolando la superficie disponibile sull’intero pianeta, si potevano costruire solo 7 miliardi di queste biblioteche. Marin Mersenne aveva poi calcolato non solo le parole, ma anche i canti, cioè le melodie sull’estensione di 3 ottave con l’utilizzo di 22 suoni. Ebbene, per annotare tutti i canti che si possono generare con tutte le combinazioni sarebbero occorse più risme di carta di quante ne sarebbero servite, secondo i calcoli del tempo, per colmare la distanza tra Terra e cielo. Inoltre, volendo scrivere tutti questi canti con un ritmo di 1.000 al giorno, sarebbero serviti 22 miliardi e 600 milioni di anni. Questa notizia dovrebbe dare molta speranza ai musicisti e convincerli che non c’è bisogno di copiare le canzoni!

Le vertigini che vengono di fronte a queste cifre relative alla nozione tecnica di informazione possono fare effetto anche se consideriamo il senso comune del termine informazione. Per esempio esiste un motore di ricerca tedesco, all’indirizzo www.bahn.de, che contiene tutti i dati sulle connessioni ferroviarie europee. Mi sono appassionato a questo programma e l’ho utilizzato in modo “disinteressato”, cercando di verificare quante dictiones si potevano produrre. Ho cominciato a chiedere come andare da Francoforte a Battipaglia e la soluzione è stata piuttosto soddisfacente perché, a seconda delle coincidenze, occorrevano dalle 18 alle 20 ore. Poi ho provato a chiedere il percorso tra Londra e Grosseto via Napoli: il primo itinerario richiedeva 29 ore ed era banale; il secondo calcolava 34 ore di percorrenza perché incappavo in uno spostamento tra due stazioni parigine; il terzo impiegava 26 ore, ma mi faceva passare da Bardonecchia, Alessandria, Novi Ligure, Viareggio, transitare da Grosseto all’una di notte, senza fermarmi, arrivare a Napoli Campi Flegrei e poi risalire per Roma Ostiense e tornare a Grosseto dopo altre nove ore di tragitto. Allora ho tentato con Battipaglia-Roscoff, via Madrid: poco più di 64 ore, passando da Milano Chambery, Perpignan, Barcelona, Parigi e Morlaix. Il secondo tentativo, molto chagalliano, è stato Battipaglia-San Pietroburgo-Vitebsk, via Madrid: Battipaglia-Parigi e Parigi-Madrid sono ovvie, ma da lì si parte per Bruxelles, Mosca, San Pietroburgo e Vitebsk, impiegando in tutto 110 ore e 34 minuti. Ho quindi provato con il percorso Madrid-Roma via Varsavia, attraversando una serie di villaggi dal sapore yiddish. La verità è che per fare tutti questi spostamenti ci sono dei percorsi preferenziali, scelti o sulla base di criteri di rapidità e di economicità o secondo la decisione di visitare quanti più posti possibili. Ma se non adotto almeno uno di questi o di altri criteri, come posso scegliere il percorso? Certo non posso affidarmi al sistema, che mi elenca tutte le opzioni possibili. Per reagire alle vertigini provocate dal sistema, dunque, io ho la sola possibilità di elaborare dei criteri di selezione.

Ancora una volta la questione fondamentale riguarda il filtraggio, non nel senso di censura esterna o politica, ma come senso della responsabilità personale, come filtro del singolo per non soccombere di fronte alla sterminata mole di informazioni della nostra società. Ma su questo piano io, come moltissimi altri, navighiamo verso il futuro con tante legittime preoccupazioni e con poche soluzioni da suggerire.

Umberto Eco

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  • 22 febbraio 2016

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