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Anche in Italia un numero significativo di ricercatori sceglie di pubblicare le proprie ricerche su riviste che millantano standard accademici, ma che invece pubblicano qualsiasi cosa. Sprecando così risorse economiche e intellettuali. I suggerimenti per risolvere il problema, in un articolo scritto da Mauro Sylos Labini, docente di Politica economica al dipartimento di Scienze politiche dell'Università di Pisa, Manuel Bagues, professore associato all'Università Aalto di Helsinki, e Natalia Zinovyeva, ricercatrice alla Università Aalto di Helsinki. L'articolo originale è stato pubblicato su www.lavoce.info.

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La scienza non è immune alla corruzione. Da qualche anno, accanto alle frodi classiche (fabbricazione, falsificazione e plagio), la credibilità della comunicazione scientifica deve affrontare una nuova minaccia: le riviste che millantano standard accademici, ma che, invece, pubblicano qualsiasi articolo a pagamento. Jeffrey Beall, bibliotecario dell’università del Colorado, le ha battezzate riviste “predatorie” e dal 2010 redige una lista che, non senza problemi e controversie, prova a catalogarle. John Bohannon ne ha testato l’affidabilità in un esperimento i cui risultati sono stati pubblicati su Science: ha inviato un articolo chiaramente artefatto a un centinaio di riviste della lista. Solo il 16 per cento l’ha rifiutato, mentre l’84 per cento l’ha accettato senza alcuna revisione.

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Un nostro lavoro mostra che l’Italia non è immune al problema. Incrociando i curricula di 46mila ricercatori che hanno partecipato all’abilitazione scientifica nazionale con le riviste della lista di Beall, abbiamo identificato circa 6mila articoli ivi pubblicati nel periodo 2002-2012, lo 0,3 per cento del totale. L’economia e il management sembrano essere i settori dove il problema è più grave: nel 2012, più del 5 per cento degli articoli è stato pubblicato su una rivista della lista (figura 1). Complessivamente, circa il 5 per cento dei ricercatori del campione ha almeno una pubblicazione predatoria e, a parità di altre condizioni, la percentuale è più alta fra i più giovani e fra chi lavora nelle università meridionali.

Perché si pubblica su una rivista predatoria
Per comprendere meglio le motivazioni dei ricercatori e misurare la qualità delle riviste identificate, abbiamo somministrato un questionario via email a un campione di circa mille ricercatori e professori che vi hanno pubblicato. Il tasso di risposta è stato inaspettatamente alto (54 per cento). I risultati indicano che almeno il 36 per cento delle riviste identificate non svolge peer review e altre hanno falsificato il loro impact factor, contrattato aggressivamente sul prezzo, pubblicato articoli senza il consenso degli autori. Per alcune riviste, invece, abbiamo ottenuto commenti coerenti con una buona attività editoriale. In molti casi, si trattava di numeri speciali curati da editor esterni alla rivista.

La bassa qualità media delle riviste esaminate è confermata da dati bibliometrici: solo il 38 per cento ha pubblicato negli ultimi cinque anni almeno cinque articoli con cinque citazioni e più di un terzo degli articoli del campione non ha alcuna citazione su Google Scholar. A conferma dell’eterogeneità dei commenti ricevuti, qualche articolo ha invece avuto un buon impatto ed è citato su riviste come Science e The Lancet.

Ci siamo anche chiesti cosa spinga i colleghi a pubblicare, spesso a pagamento, su riviste dal dubbio valore scientifico.

Una prima spiegazione, come suggerisce uno dei commenti ricevuti, è l’inesperienza: “Avevo poca esperienza con riviste straniere. Successivamente sono stato criticato da un collega per quella pubblicazione, oggi non lo rifarei anche perché l’articolo in questione ha avuto poca visibilità ma a me è costato fatica”.

Ma anche valutazioni che enfatizzano la quantità e non la qualità delle pubblicazioni rischiano di spingere le prede fra le braccia dei predatori: “Partecipai a una conferenza di quell’organizzazione e mi fu offerto di pubblicare velocemente il paper in una rivista (...). Avevo bisogno della pubblicazione per l’abilitazione e accettai di pubblicare nella rivista che mi proponevano. Mi sono pentita di quella scelta”.
Un altro autore si chiede come sia possibile che le pubblicazioni su queste riviste vengano considerate nella valutazione: “Tutte le riviste della casa editrice sono solo spazzatura e non capisco come possano essere considerate ai fini Vqr (valutazione qualità della ricerca)”.

Il motivo principale è che quasi un quarto delle riviste identificate è indicizzato in Scopus, una delle principali banche dati di settore, spesso utilizzata come segno di qualità. Mentre secondo i nostri risultati in almeno un terzo dei casi anche le riviste che compaiono nella lista e sono indicizzate hanno comportamenti predatori.

Il nostro studio mostra che anche in Italia un numero significativo di ricercatori pubblica articoli su riviste con nessun valore accademico sprecando risorse economiche e intellettuali. È arrivato il momento di affrontare il problema. Un primo passo è quello di sensibilizzare i giovani ricercatori a scegliere con maggiore attenzione le riviste sulle quali pubblicare. Un secondo potrebbe essere quello di migliorare ancora la qualità della valutazione. Il nostro lavoro mostra che liste come Scopus o la stessa lista di Beall sono informative, ma imperfette. Più in generale, l’uso di liste predeterminate dovrebbe essere accompagnato dalla peer review. Forse il lato selvaggio della scienza può ancora essere sconfitto.

Manuel F. Bagues, Mauro Sylos Labini e Natalia Zinovyeva

Sono il futuro della diagnostica clinica: parliamo di una nuova generazione di biosensori in silicio poroso nanostrutturato ultrasensibili e potenzialmente validi per lo screening “point-of-care” e a basso costo di marker tumorali o cardiaci. L’innovativa tecnologia è stata sviluppata dal gruppo di ricerca del professore Giuseppe Barillaro del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa in collaborazione con l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa nell’ambito del progetto Sens4Bio (Ultra-Sensitive Flow-Through Optofluidic MicroResonators for Biosensing Applications) finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.. I risultati della ricerca sono stati pubblicati su due riviste internazionali dell’American Chemical Society: ACS AnalyticalChemistry e ACS Sensors.

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“Lo scenario entro cui si collocano queste ricerche – spiega Giuseppe Barillaro - è quello dei “Lab-on-Chip” cioè dei laboratori di analisi miniaturizzati realizzati su un chip delle dimensioni di pochi cm quadrati che, entro la prima metà del XXI secolo, permetteranno di effettuare la maggior parte delle analisi chimiche e biologiche, attualmente svolte in laboratori specializzati con costi elevati, con sistemi portatili ed a basso costo”.

Il cuore dei Lab-on-Chip sono proprio i biosensori, dispositivi miniaturizzati capaci di riconoscere, per esempio, una specifica molecola di interesse clinico e diagnostico correlata a un stato patologico o ad una alterazione funzionale dell’organismo. In particolare, i biosensori ottici in silicio poroso nanostrutturato hanno potenzialmente un bassissimo costo se prodotti su larga scala, meno di un centesimo di euro per pezzo, ma di contro sono poco sensibili se adoperati in modalità label-free, cioè senza l’uso di molecole fluorescenti. Ovviare a questo inconveniente era uno degli obiettivi del progetto e per questo i ricercatori, fra cui Stefano Mariani che si è occupato della preparazione e caratterizzazione dei biosensori e Lucanos Marsilio Strambini che si è occupato dell’elaborazione dei segnali, hanno sviluppato una nuova tecnica di lettura (IAW, Interferogram Average over Wavelength Reflectance Spectroscopy) che permette di migliorare di 10mila volte le prestazioni dei biosensori.

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“Non è difficile intravedere in un prossimo futuro l’utilizzo di questi biosensori in Lab-on-Chip per fare analisi sul campo mediante utilizzo di uno smartphone – concludono Stefano Mariani e Lucanos Strambini - visto che la tecnica di lettura ottica sviluppata coniuga un aumento della sensibilità con riduzione della potenza di calcolo richiesta”.

Foto, da sinistra Giuseppe Barillaro, Stefano Mariani e Lucanos Marsilio Strambini

Si intitola Demal te niew ed è un webdoc che racconta le storie di tre migranti senegalesi che, dopo un periodo in Italia, sono tornati nel loro Paese di origine e lì hanno avviato un’attività lavorativa. Il lavoro, pubblicato sul sito dell’Espresso mediapartner dell’iniziativa, è stato realizzato con il contributo di un team del KDD Lab di Università di Pisa e Isti Cnr, con il supporto dell’Infrastruttura di ricerca SoBigData che ha eseguito un lavoro di analisi e visualizzazione di dati utilizzati con lo scopo di contestualizzare le storie dei tre protagonisti del documentario nel quadro più ampio delle migrazioni attuali. In particolare ci hanno lavorato Viola Bachini, che si è occupata delle interviste e della ricerca giornalistica, Daniele Fadda e Salvatore Rinzivillo che hanno curato la parte scientifica di ricerca sui dati.

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Nato da un’idea di due italiane - Silvia Lami e Marcella Pasotti - che lavorano come cooperanti internazionali in Senegal, e diretto da Roberto Malfagia de La Jetee, il webdoc è stato realizzato da un team multidisciplinare grazie al supporto dello European Journalism Centre, partendo da una ricerca etnografica condotta su decine di migranti di ritorno. «“Demal te niew” (che significa “Va’ e torna” in lingua wolof) parla di migrazioni di ritorno attraverso le storie di Karou, Ndary e Mouhammed, che dopo aver trascorso diversi anni in Italia hanno deciso di scommettere su un futuro in Senegal, il Paese in cui sono nati - spiega Viola Bachini - Il webdoc interattivo racconta la vita quotidiana, le difficoltà e i successi di questi tre piccoli imprenditori attraverso testi, foto, interviste e dati. Il documentario è interattivo perché gli utenti possono scegliere tra i diversi percorsi narrativi proposti, i dati presentati e le foto scattate in Senegal».

fadda bachiniPer inquadrare meglio le storie dei tre protagonisti, il team del KDD Lab ha eseguito un lavoro di analisi e visualizzazione dati. «Abbiamo utilizzato dati provenienti da fonti istituzionali, come l’Istat, per raccontare meglio il fenomeno delle migrazioni tra Italia e Senegal - racconta Daniele Fadda, information designer al KDD (nella foto a destra con Viola Bachini) - Inoltre, abbiamo fatto un’analisi sui volumi del traffico telefonico da e verso il Senegal, scoprendo qualcosa di più sui flussi migratori delle persone». I dati sulle chiamate internazionali senegalesi del 2013 sono stati messi a disposizione dalla compagnia telefonica Orange. All’analisi ha lavorato anche Ruben Bassani, ex studente del master in Big Data dell’Università di Pisa ed esperto di migrazioni di ritorno.

Il web doc è stato selezionato per partecipare all’Ethnographic Film Festival di Amsterdam a inizio dicembre. Sempre a dicembre, l'OIM, Organizzazione Internazionale Migrazioni, lo ha presentato a Dakar in anteprima per l’Africa. Nelle prossime settimane sarà tradotto anche in spagnolo per il sito del quotidiano El Pais e sarà presentato in diversi eventi sulle migrazioni da Trento a Londra. Il dietro le quinte delle interviste girate in Senegal la scorsa estate si trova invece sulla rivista Micron.

Il webdoc è disponibile a questo link. Le foto sono di Sylvain Cherkoui - Cosmos.


I protagonisti del documentario:

Ndary
, 37 anni, è socio di una gelateria italiana a Saly, località turistica sull’Oceano Atlantico. Lavorava come addetto alla segnaletica stradale a Pescara.

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Karou, 35 anni, dopo 15 a Bergamo sta per avviare una produzione di tubi in plastica riciclata a Thiès. Con lui si sono trasferiti la moglie e i sei figli.

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Mouhammed, 40 anni, lavora a Dakar nel commercio di abiti usati con soci italiani e senegalesi. Faceva il venditore ambulante a Como e Napoli.

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sport variAl via all’Università di Pisa la prima edizione del master “Preparatore fisico-istruttore, allenatore in sport di situazione: scherma, arti marziali, lotta e pugilato” che qualifica alla professione di allenatore "tecnico sportivo". L’obiettivo del corso è di formare professionisti in grado di seguire gli atleti a livello motivazionale e fisico e di definire strategie di gara ed innovative tecniche di gioco. Attivato dal dipartimento di Medicina e clinica sperimentale dell’Ateneo pisano, il corso fornirà nozioni di anatomia, fisiologia, biochimica, medicina, psicologia e pedagogia.

“Si tratta di un master unico nel panorama nazionale – spiega il direttore, professore Ferdinando Franzoni – voluto fortemente dall’Ateneo, dal CONI regionale toscano e dal Comune di Livorno per promuovere gli sport di situazione che negli ultimi anni hanno dato grandi soddisfazioni allo sport italiano nelle competizioni olimpiche, ma per i quali c’è il bisogno di una formazione tecnico-professionale anche di livello universitario”.

Tra i docenti figurano medagliati olimpici nelle discipline oggetto del master stesso, nonché professionisti dei settori tecnico-sportivi del CONI. Per presentare domanda di iscrizione c’è tempo sino al 10 febbraio, mentre le lezioni cominceranno il 24 febbraio. Il costo del master è di 2.500 e sono previste borse di studio. I posti disponibili sono da un minimo di 8 a un massimo di 25. Per informazioni: tel. 050 2211842, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

È considerato uno dei più grandi predatori mai esistiti sulla faccia della Terra, con esemplari che potevano superare anche i sedici metri di lunghezza e si ritiene che le sue enormi fauci potessero mordere con una forza dieci volte maggiore di quella dell’odierno squalo bianco. È il Carcharocles megalodon, un gigantesco squalo estinto che ha ispirato celeberrimi mostri marini del mondo del cinema, come il terrificante protagonista de “Lo Squalo” di Steven Spielberg, diventando una vera e propria icona pop.

Questo terribile killer del passato è stato identificato dai paleontologi grazie ai suoi resti fossili (principalmente denti e vertebre dalle dimensioni strabilianti ritrovati all’interno di sedimenti marini depositatisi tra 20 e 3 milioni di anni fa circa), ed è ormai ben noto al grande pubblico come uno spietato cacciatore delle balene degli antichi mari. Tuttavia, al netto delle speculazioni, fino ad ora le testimonianze fossili non offrivano molti dati oggettivi circa le abitudini alimentari di questo animale dalla fama leggendaria. Ma una recente ricerca coordinata dai paleontologi dell’Università di Pisa potrebbe gettare un po' di luce su questi aspetti enigmatici della storia naturale del “Megalodon”.

Figura 1. Ricostruzione artistica di un adulto di Carcharocles megalodon che preda una Piscobalaena nana. Illustrazione di Alberto Gennari.

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Da oltre dieci anni l’Università di Pisa, in collaborazione con quelle di Camerino e Milano-Bicocca e con diverse istituzioni peruviane ed europee, conduce ricerche nel deserto costiero del Perù meridionale: una delle aree più ricche al mondo di fossili di cetacei, squali, uccelli e rettili marini. Gli scheletri di questi vertebrati affiorano dalla sabbia del deserto eccezionalmente conservati e spesso ancora perfettamente articolati. I sedimenti che li racchiudono si sono depositati nel corso di milioni di anni su un antico fondale marino, poi emerso a seguito degli intensi movimenti della crosta terrestre che interessano il versante occidentale della catena Andina. “Uno dei nostri obiettivi - afferma Giovanni Bianucci, professore di paleontologia presso il dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Pisa e coordinatore delle ricerche in Perù - è quello di ricostruire, grazie allo studio dei fossili, l’intera fauna che visse in questi mari. Tuttavia non vogliamo limitarci a dare un nome agli animali ma, sopratutto, capire come interagivano tra loro, di cosa si nutrivano e come si sono evoluti nel corso dei milioni di anni”.

In questo tipo di studi, non sono sempre i reperti fossili più completi e spettacolari a fornire i dati più interessanti e inaspettati, ed è infatti su alcune ossa frammentarie, risalenti a circa 7 milioni di anni fa, che i ricercatori pisani e i loro colleghi hanno scoperto le lunghe incisioni lasciate dal morso di un grande squalo.

“L’approfondita analisi e lo studio di queste tracce - spiega Alberto Collareta, dottorando presso il dipartimento di Scienze della Terra di Pisa e responsabile dello studio pubblicato nella rivista internazionale “Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology” - hanno permesso di identificare sia gli animali 'morsicati' che il responsabile del morso. I primi sono rappresentati da foche e cetacei (fra cui la Piscobalaena nana, una balena di piccola taglia appartenente alla famiglia oggi estinta dei Cetotheriidae), mentre il loro predatore è ragionevolmente identificabile in Carcharocles megalodon, i cui denti sono gli unici che, per forma e dimensioni, possono aver prodotto le tracce osservate.

Questo è un risultato di per sé importante, perché per la prima volta possiamo dare un nome specifico a uno degli 'ingredienti' della dieta del Megalodon; ma è anche intressante il fatto che la Piscobalaena nana fosse un mammifero marino di dimensioni relativamente piccole (presumibilmente non superava i 4-5 metri di lunghezza) perché contraddice la credenza secondo cui il Megalodon si nutriva esclusivamente di grandi balene.

Figura 2. Ossa fossili rinvenute nel deserto del Perù appartenenti a una piccola balena (in alto) e a una foca (in basso) con segni di morsi lasciati dallo squalo gigante Carcharocles megalodon.

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Se facciamo un parallelo con le abitudini alimentari dello squalo bianco, considerato un analogo moderno e 'miniaturizzato' del Carcharocles megalodon, possiamo ragionevolmente ipotizzare che questo gigantesco squalo estinto avesse una dieta ampia e diversificata che, pur comprendendo pesci e molluschi era comunque incentrata sui mammiferi marini di media taglia (foche e cetacei). Al contrario, l'ipotesi secondo cui C. megalodon era un attivo predatore di grandi balene non appare adeguatamente supportata dai dati attualistici. È anche possibile ipotizzare che l’estinzione delle balene di piccole dimensioni, fra cui i Cetotheriidae, intorno ai 3 milioni di anni fa (cioè alla fine del Pliocene) abbia privato questo grande predatore delle sue prede predilette, favorendone l’estinzione”.

“Il nostro studio - conclude Bianucci - non solo contribuisce a conoscere la biologia del più grande squalo mai esistito, ma anche a chiarire le dinamiche evolutive che hanno portato ai grandi cambiamenti nella fauna marina, spesso legati al rompersi di delicati equilibri tra prede e predatori, fino alla messa in posto della fauna attuale”.

Parte da Pisa UBORA, il progetto di ricerca coordinato dall’Ateneo pisano e finanziato dall’Unione Europea con un milione di euro che punta alla creazione di una piattaforma virtuale tra Europa e Africa, dove i bioingegneri dei due continenti potranno condividere know-how e risorse. Il 16 e 17 gennaio l’Università di Pisa ha ospitato la riunione di lancio del progetto con i rappresentanti di tutti gli enti coinvolti, la Kenyatta University (Kenya), il Royal Institute of Technology (Svezia), la University of Tartu (Estonia), il Technical University of Madrid (Spagna), l’Uganda Industrial Research Institute (Uganda) e l’azienda estone AgileWorks.

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Obiettivi e finalità del lavoro sono stati illustrati in un incontro con la stampa da Arti Ahluwalia, docente del Centro di ricerca “E. Piaggio” dell’Università di Pisa e coordinatrice del progetto, dal delegato all’Internazionalizzazione dell’Università di Pisa, Francesco Marcelloni e dal consigliere dell’ambasciata del Kenya in Italia, June Chepchirchir Ruto. «UBORA, che in lingua Swahili vuol dire “eccellenza”, dovrà portare allo sviluppo di soluzioni innovative nell’ingegneria biomedica, con un miglioramento significativo nella formazione in questo campo e nuovi stimoli per l’economia dei paesi coinvolti – ha spiegato la professoressa Ahluwalia - Grazie allo sviluppo di una piattaforma virtuale tra Europa e Africa, potremo condividere nuove soluzioni, basate su tecnologie open source, puntando a una distribuzione più equilibrata di benessere e risorse».

«Da tempo l’Università di Pisa è impegnata nella costruzione di solidi partenariati con diverse università del continente Africano – ha aggiunto il professor Marcelloni – Il nostro Ateneo, grazie alla professoressa Arti Ahluwalia, è stato infatti tra i promotori del Consorzio ABEC, “African Biomedical Engineering Consortium”, il cui scopo è il miglioramento della salute in Africa tramite la formazione di ingegneri biomedici e l'innovazione nelle tecnologie sanitarie. Il progetto UBORA segue esattamente questa filosofia».

Nei due anni del progetto, i partner si occuperanno della progettazione e dell’implementazione di dispositivi medicali basati su tecnologie open source in grado di dare risposte adeguate alle sfide nel campo della salute, con grande attenzione per la specificità del contesto e per i bisogni dei diversi paesi. Le università europee e africane coinvolte, con i loro centri di ricerca tecnologici, combineranno la filosofia dell’open design con le norme di sicurezza basate sulle linee guida europee. Grande spazio sarà dato inoltre alle attività di formazione: seguendo l’esperienza iniziata già da alcuni anni, saranno organizzati corsi e Summer School in cui i bioingegneri di entrambi i continenti potranno imparare a progettare dispositivi medici, efficienti, efficaci, sicuri e progettati per rispondere alle diverse caratteristiche del contesto africano ed europeo.

Come prima iniziativa promossa nell’ambito di UBORA c’è stata la competizione per il design del logo del progetto aperto agli studenti appartenenti alle 4 università partecipanti. Durante le giornate di lancio del progetto è stato premiato il logo creato da Pehr Wessmark, del Royal Institute of Technology (Svezia).

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Ne hanno parlato:
Tirreno Pisa
Nazione Pisa 
PisaInformaFlash.it
Greenreport.it
gonews.it 
Pisanamente.it 
PisaToday.it

Buono e nutriente, il latte di asina amiatina è un sostituto ideale per i bambini allergici al latte vaccino. E’ questo quanto emerge dalle ricerche condotte al dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa dove da alcuni anni si studiano le proprietà nutraceutiche di questo alimento e la filiera produttiva legata agli asini Amiatini, una razza autoctona allevata sul territorio Toscano. E proprio su questo tema è in corso il progetto “L.A.B.A.Pro.V.” finanziato dalla Regione Toscana al quale partecipano, oltre all’Ateneo pisano, l’Azienda Ospedaliero Universitaria A. Meyer di Firenze come capofila, l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana ‘M. Aleandri’ e il Complesso Agricolo Forestale Regionale Bandite di Scarlino dove sono attualmente allevati circa 150 asini amiatini.

“Il latte bovino è largamente utilizzato come sostituto del latte materno, ma dal 2 al 7,5% dei neonati è allergico alle proteine del latte vaccino – spiega la professoressa Mina Martini dell’Università di Pisa - un problema non del tutto risolto dai latti industriali che spesso non incontrano il gusto dei bambini per il loro sapore poco gradevole, senza considerare che alcuni di questi prodotti non sono totalmente esenti dal rischio di sensibilizzazione allergica”.

asini amiamtini


Ecco quindi che il latte di asina si presenta come un’alternativa naturale ideale, sia per l’ottima palatabilità, cioè il sapore gradevole, sia perché è ben tollerato dai soggetti allergici al latte vaccino al contrario altri latti alimentari come quello di capra, ovino o bufalino. Dal punto di vista nutrizionale, il latte di asina ha poi un contenuto proteico medio (1,60%) simile a quello del latte umano, caratterizzato dalla bassa quantità di caseine, soprattutto quelle di tipo alfaS ritenute le più allergizzanti. Come il latte materno presenta un alto contenuto di lattosio (7%) che stimola l'assorbimento del calcio con effetti favorevoli sulla mineralizzazione ossea, mentre la presenza elevata di lisozima e lattoferrina favoriscono la riduzione delle infezioni intestinali inibendo l’azione di alcuni batteri.

“C’è infine sottolineare che la possibilità di utilizzare il latte proveniente da un’unica razza, quella amiatina – conclude Mina Martini - garantisce una maggiore costanza nella qualità del prodotto utilizzato e la possibilità, tramite la selezione genetica, di un continuo miglioramento qualitativo”.

Le asine amiantine allevate nel Complesso Agricolo Forestale Regionale Bandite di Scarlino vengono munte giornalmente con un’apposita macchina mungitrice ed il latte raggiunge direttamente, tramite il lattodotto, la sala di trasformazione e conservazione dove viene pastorizzato, imbottigliato e mantenuto a temperatura di refrigerazione. Il Complesso agricolo che ha conseguito l’autorizzazione CE, garantisce la certificazione del processo produttivo nel rispetto dei requisiti igienico sanitari richiesti a livello comunitario ed è pertanto idonea alla vendita in Europa.

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Foto: esemplari di asini amiantini con studenti del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa (foto di Duccio Panzani)

Ne hanno parlato:
SkyTG24
Repubblica.it
Corriere.it
Panorama.it
InToscana.it
Ansa Salute&Benessere
Ansa Terra&Gusto
Agipress
Il Tirreno Grosseto
La Voce di Rovigo
La Nuova del Sud

Dalle bucce di arancia oli essenziali e pectina impiegabili nell’industria cosmetica, profumiera e alimentare. I ricercatori del Thermolab del dipartimento di Chimica e Chimica industriale dell’Università di Pisa e dell’Istituto INO CNR di Pisa hanno messo a punto un innovativo processo estrattivo che permette di ottenere dalle biomasse di scarto prodotti di elevato interesse commerciale. La ricerca è stata selezionata come cover article dell’ultimo numero del 2016 della rivista “Green Chemistry”.

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Lo studio, svolto nell’ambito di un progetto FIRB 2012, riguarda in particolare la valorizzazione di biomasse mediante l’azione congiunta di microonde e ultrasuoni: i processi estrattivi dalle bucce di arancia sono stati infatti attivati con microonde emesse da un’antenna a dipolo coassiale posta all’interno della stessa biomassa. Sono state provate diverse configurazioni, tra cui un’estrazione a microonde senza solvente e una idrodistillazione che prevedeva l’applicazione simultanea di microonde e ultrasuoni. Entrambi i metodi danno buoni risultati in termini di rese e permettono un elevato risparmio energetico rispetto ai metodi di idrodistillazione convenzionali. L’approccio più promettente è sicuramente quello senza solvente che, sfruttando l’acqua naturalmente presente nella buccia di arancia, permette anche un risparmio idrico rispetto ai metodi convenzionali.

Nel complesso la ricerca offre nuovi spunti per la valorizzazione di rifiuti alimentari mediante processi molto vantaggiosi dal punto di vista tecnologico, energetico ed economico.

Gli autori dello studio sono Celia Duce, Josè González-Rivera, Alessio Spepi e Maria Rosaria Tinè, del dipartimento di Chimica e Chimica industriale dell’Università di Pisa; Iginio Longo dell’Istituto Nazionale di Ottica (INO), CNR di Pisa; Carlo Ferrari e Alessandra Piras del dipartimento di Chimica e Geologia dell’Università di Cagliari; Danilo Falconieri dell’Istituto Tecnico Industriale Statale “Michele Giua” di Cagliari.

Nella foto in basso, da sinistra verso destra: Iginio Longo, Josè González-Rivera, Alessio Spepi, Maria Rosaria Tinè, Celia Duce.

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Ne hanno parlato: 
Panorama.it
Toscana24 
InToscana.it
Nazione Pisa 
QuiNewsPisa.it 
gonews.it
PisaInformaFlash.it

giustizia-statua.jpgSono circa cento gli iscritti alla sesta edizione del corso di alta formazione in “Giustizia costituzionale e tutela giurisdizionale dei diritti” che si terrà a Pisa dal 16 gennaio al 3 febbraio 2017. Il corso, organizzato dal dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa con il coordinamento scientifico del professor Roberto Romboli durerà tre settimane, con lezioni tenute in lingua italiana e spagnola da docenti italiani, spagnoli e latinoamericani.

I partecipanti provengono dall’Italia e, in larghissima misura, da Paesi stranieri, soprattutto dell’America Latina. In particolare, gli iscritti provengono da: Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Messico, Perù, Repubblica Dominicana.

Oltre ai numerosi seminari su tematiche che vanno dai modelli di giustizia costituzionale, alla tutela sovranazionale dei diritti fondamentali, il corso prevede lo studio di casi pratici connessi all’attualità costituzionale, attraverso l’analisi di sentenze che hanno inciso nel campo della protezione dei diritti umani. All’interno del corso sono anche state programmate alcune conferenze tenute da ospiti illustri, tra cui Luigi Ferrajoli, Riccardo Guastini, Luis López Guerra e Gaetano Silvestri.

Tra i 102 scienziati che pochi giorni fa hanno ricevuto dal presidente uscente Barack Obama il PECASE, il massimo riconoscimento che il governo degli Stati Uniti offre a giovani e promettenti professionisti nel settore della ricerca scientifica, ci sono anche tre i italiani, Guglielmo Scovazzi, Marco Pavone e Anna Grassellino, quest’ultima laureata all’Università di Pisa nel 2005 in Ingegneria Elettronica, oggi ricercatrice al Fermilab.

 Anna Grassellino

Il “Presidential Early Career Award for Scientists and Engineers” è la più alta onorificenza conferita dal governo degli Stati Uniti a professionisti della scienza e dell'ingegneria nelle prime fasi della loro carriera di ricerca indipendente. Il premio è stato istituito nel 1996 dal presidente Bill Clinton. “Mi congratulo con questi incredibili scienziati per il loro lavoro d’impatto – ha dichiarato il presidente Obama – Questi innovatori stanno lavorando per mantenere gli Stati Uniti all’avanguardia, e dimostrano che gli investimenti nella scienza portano ad avanzamenti che allargano la nostra conoscenza del mondo e contribuiscono alla nostra economia”.

Anna Grassellino è una ricercatrice originaria di Marsala attualmente impiegata al Fermi National Accelerator Laboratory dell’Università dell’Illinois, a Batavia. Dopo la laurea all’Università di Pisa, ha conseguito un dottorato in Fisica all’Università della Pennsylvania. Fa ricerca dal 2008, mentre dall’inizio del 2012 è al Fermilab, prima come postdoc, e attualmente come scienziata e group leader, nel settore della fisica applicata e delle tecnologie dei superconduttori.

Tra i numerosi complimenti ricevuti da Anna Grassellino, ci sono anche quelli del professor Giuseppe Anastasi, direttore del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa, che scrive: «Anna Grassellino, una dei tre giovani scienziati italiani premiati da Obama, si è laureata in Ingegneria Elettronica presso l'Università di Pisa. A nome del dipartimento di Ingegneria dell'Informazione (DII), sincere congratulazioni ad Anna per il prestigioso riconoscimento».

Ne hanno parlato:
Corriere Fiorentino
InToscana.it
Tirreno Pisa
NazionePisa.it 
PisaInformaFlash.it 
gonews.it

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