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Le
fabbriche del credere
Lo scorso
26 maggio Andrea Camilleri ha ricevuto dall’Università di
Pisa la laurea specialistica honoris causa in Sistemi e progetti di
comunicazione, il nuovo corso che è la naturale continuazione
della laurea di primo livello interfacoltà in Comunicazione pubblica,sociale
e d’impresa e che nasce dalla collaborazione tra le facoltà di
Economia, Lettere e filosofia, Lingue e letterature straniere e Scienze
politiche. Visibilmente emozionato, lo scrittore siciliano ha sviluppato
nella sua Lectio Magistralis una riflessione acuta e critica sull’attuale
sistema della comunicazione e sul mondo dei mass media che, secondo l’autore,
si sono trasformati da fabbriche di consenso in fabbriche del credere. Athenet
propone ai suoi lettori il testo integrale della lezione di Camilleri.
Sono
perfettamente cosciente che le mie parole non saranno all’altezza
della severità e della nobiltà di quest’Aula. E sono
altrettanto convinto che quello che dirò è un argomento
già ampiamente dibattuto tra gli studiosi della materia. Ma io
sono solo un narratore, un romanziere, e credo che il migliore omaggio
che io possa fare a questa Istituzione che mi sta indebitamente onorando è quello
di non camuffarmi, di non nascondermi dietro una falsa apparenza, ma di
mettervi al corrente, con semplicità, a modo mio, di una inquietante
considerazione.
Se apro
un’ Enciclopedia e vado a consultare la voce Comunicazione, trovo
scritto ad apertura:
Tutta la fenomenologia dell’ambiente relazionale
e sociale può essere vista come comunicazione. In altri termini
tutto ciò che arriva agli organi sensoriali di un organismo può essere
considerato come un dato informativo che l’organismo riceve ed elabora.
Ma questa concezione così ampia ci può permettere di fare
ben pochi progressi nello studio dei processi di comunicazione.
Questo
sta a significare, in altri termini, che vivere è sostanzialmente
comunicare. Non comunicare può quindi dirsi non vivere?
Parafrasando Shakespeare si potrebbe dire che tutto il mondo (che dico
il mondo? L’Universo!) è comunicazione, volontaria o involontaria.
Colto da una leggera vertigine all’idea delle infinite implicazioni
di ciò che ho appena letto, metto da parte l’Enciclopedia
e prendo tra le mani un più modesto Dizionario. Qui, alla voce
relativa, si trovano scritte alcune definizioni più rassicuranti
nel senso che in qualche modo restringono il campo.
Comunicazione:“1) il comunicare, ciò che si comunica; 2)
Contatto che permette di comunicare; 3) Insieme di strutture, impianti,
mezzi che stabiliscono un collegamento; 4) Trasmissioni di informazioni
mediante messaggi da un emittente a un ricevente; 5) Comunicazione giudiziaria;
6) Comunione eucaristica”. Ma
anche così ristretto, palettato, il campo rimane vastissimo e al
tempo stesso alquanto vago e sfuggente (considerate che si va dalla più elementare
comunicazione, “ieri è stata una bella giornata”, alla comunicazione
giudiziaria che oggi come oggi è cosa complessa assai e infine
alla comunicazione con Dio, che è cosa di una complessità totale,
assoluta).
Prenderò allora
in considerazione esclusivamente il punto primo: davvero la comunicazione è solamente
ciò che si comunica? Non manca qualcosa di fondamentale in questa
prima definizione? Consentitemi un esempio storico, un po’ brutale,
per niente accademico, ma significativo. Il XX congresso del PCUS, il
primo dopo la morte di Stalin, si aprì a Mosca il 16 febbraio
1956. Erano presenti migliaia di delegati di tutto il mondo. La delegazione
italiana, capeggiata da Togliatti, era composta da Scoccimarro, Bufalini
e dal napoletano Cacciapuoti. Sottolineo la napolitanità di Cacciapuoti
a ragion veduta. All’apertura, dopo gli inni e i saluti di rito, un
sovietico che sedeva al tavolo della presidenza si alzò per fare
una comunicazione, consistente nell’interminabile elenco dei compagni
deceduti dall’ultimo congresso con relativo elogio individuale. Il
penultimo fu un giapponese. “E infine - concluse - è morto
il compagno Josif Vissarionovic Stalin”. E si risedette, senza aggiungere
parola. Il silenzio che calò improvviso tra le migliaia di delegati
sorpresi, interdetti, perplessi venne rotto dall’immediato commento
del napoletano Cacciapuoti, un commento che non posso riferire in quest’aula,
ma mi limito a dire che è fatto di una sola parola di cinque lettere
che comincia con “c” e finisce con “o”. Cacciapuoti
era stato il primo a capire il senso e il significato di quella comunicazione.
Se andiamo a guardar bene, ad allarmarlo non era stata la mancanza di una
pur minima parola d’elogio funebre, poteva darsi che
la vera e propria commemorazione fosse stata demandata ad altri di più elevato
livello (e infatti poco dopo di Stalin parlò Krusciov, nuovo segretario
del partito, e si trattò di una damnatio memoriae), ma
era stata l’inversione dell’usuale e rigida gerarchia per cui
il nome di Stalin dal primo posto era passato all’ultimo.
Allora
la definizione del dizionario che la comunicazione è ciò che
si comunica andrebbe integrata così: “cio che si comunica e
come lo si comunica”. Ma, attenzione, da tutto questo ne consegue
che se il codice nella comunicazione è il fattore indispensabile
alla produzione e alla interpretazione del messaggio, nel caso preso in
esame mi pare, e forse posso sbagliarmi, che vennero usati tanto un codice
quanto un subcodice: il codice era l’elenco puro e semplice dei compagni
deceduti, il subcodice consisteva nell’ordine dei nomi che componevano
l’elenco.
Solo che il subcodice, ai fini della comunicazione, risultava di gran lunga più importante
del codice stesso.
In
altri termini, quella comunicazione fingendo di obbedire alla regola che “il
codice deve essere un sistema convenzionale esplicito per poter permettere
il processo di codificazione e di decodificazione”, metteva in pratica
un codice implicito destinato ad allertare i più ricettivi tra
i presenti.
Da
quel congresso non sono ancora trascorsi cinquanta anni. Se Hobsbawn ha
potuto definire il secolo scorso come il secolo breve è certamente
perché la
somma degli avvenimenti sociopolitici ed economici, le due grandi guerre,
lo sviluppo dell’aviazione, la
bomba atomica e l’energia nucleare, il progresso tecnologico hanno
fatto assumere soprattutto negli ultimi cinquanta anni al nostro mondo una
massa così spaventosamente pesante
da farlo apparire persino di breve circonferenza, come avviene con le stelle
implose.
E
naturalmente, per quanto riguarda lo specifico della mia considerazione,
mi basterà richiamare la vostra attenzione sul dominio assoluto rapidamente
acquistato dalla televisione prima (e con la quale è nato il fenomeno
detto “comunicazione di massa”) e da internet negli anni più recenti.
Ma proprio questo dominio assoluto rappresenta, almeno ai miei occhi e lietissimo
se qualcuno dimostrerà il mio errore, un forte rischio per l’intelligenza
dell’uomo
stesso. Intelligenza dal latino intelligere, capire.
Nei
primi tempi della televisione, tutto ciò che essa ci mostrava era,
e voleva essere, un presente continuo fatto vedere nella sua immediata
verità. Non sapevamo allora, primitivi spettatori, che anche all’immagine
doveva essere applicato il principio d’indeterminazione, quello
che, secondo i padri fondatori della quantistica, suona pressappoco così:
ogni fenomeno fisico si modifica per il fatto stesso di essere osservato.
E
non sto minimamente parlando della manipolazione dell’immagine:
sono ancora fermo al fatto che lo sguardo dello spettatore è totalmente
guidato e condizionato dallo sguardo di colui che sta riprendendo l’immagine
e cioè dal posizionamento della telecamera, dalla disposizione
delle luci, dall’ordinamento dell’inquadratura, dal movimento
all’interno di essa. Tutte cose che concorrono quindi alla creazione
di un’immagine non immediata ma accortamente mediata e certamente
finalizzata a suscitare una precisa reazione nello spettatore.
Ricordo che ai primissimi tempi della televisione in Italia mi capitò un
fatto che mi turbò e che ancora continua a mettermi in un certo
disagio. Allora c’era un solo canale televisivo ed erano da poco
entrate in uso apparecchiature che permettevano la registrazione dei programmi.
Ogni domenica mattina veniva celebrata in diretta, dalla cappella degli
studi di via Teulada, la santa messa per tutti coloro che non potevano
uscire da casa per recarsi in chiesa. Un giovedì pomeriggio, passando
davanti alla porta a vetri della cappella, vidi un prete che officiava
la messa e due telecamere che lo riprendevano. M’informai con un
tecnico.
“Stiamo registrando la messa che manderemo in onda domenica mattina”,
mi rispose. La domenica seguente mi misi davanti al televisore: ebbene,
quando cominciò il rito, nessun cartello avvertì i fedeli
che il miracolo della transustanziazione veniva trasmesso in differita.
Sono scarso assai in problemi teologici, ma sento oscuramente che l’episodio
appena raccontato entra in qualche modo nel discorso che vado facendo.
Sono bastati pochi decenni perché in tutto il mondo le emittenti
televisive si moltiplicassero e alle televisioni di stato si affiancassero
un’infinità di televisioni private. Internet inoltre, interagendo
con le tv, ha reso il campo della comunicazione e dell’informazione
praticamente senza limiti. Questo vertiginoso allargamento della comunicazione è stato
salutato da tutti come il segno di una finalmente raggiunta libertà d’informazione.
Ma questo tipo di libertà coincide con la possibilità d’approssimarsi
a una verità potabilmente limpida e priva di germi? Ho detto e
sottolineo: questo tipo di libertà. Mi spiego meglio. Si tratta
di una libertà relativa o, nei casi peggiori, solamente apparente.
I costi di un’emittente televisiva a medio raggio, una volta che
sia uscita vittoriosa dalla guerra delle concessioni delle frequenze,
sono di gran lunga superiori a quelli di un quotidiano che ricopra la
stessa porzione di territorio. Da qui l’inevitabilità di
forti gruppi economici, dotati di precisi interessi, che vengono a proporsi
come editori televisivi. Con una differenza sostanziale: che a un quotidiano
basta il mantenersi dentro i confini di un certo profilo politico- economico
definito, direi quasi pattuito, già fin dal primo numero e che
gli ha fatto subito acquistare i “suoi” fedeli lettori per
avere anche una buona autonomia di manovra al suo interno; mentre a una
rete televisiva, che si rivolge a un pubblico non di lettori ma di spettatori,
a un pubblico che deve solo vedere e sentire, che non ha la possibilità di
rivedere e risentire, un pubblico munito della tentazione del telecomando
e pronto perciò allo zapping, è necessario che tutti, ma
proprio tutti, i programmi del palinsesto, anche e soprattutto quelli
d’informazione
e di commento all’informazione, siano costantemente portatori impliciti
delle finalità che i proprietari della rete si propongono. Questo,
in altri termini, viene a significare che ogni rete deve per forza configurarsi
come una fabbrica del consenso, consenso sia ai prodotti commerciali pubblicizzati
sia alle idee politiche altrettanto pubblicizzate e commercializzate,
cercando in tutti i modi d’evitare che gli ascoltatori-compratori-potenziali
elettori cambino canale, rischio felicemente inesistente nel nostro paese
dato che l’85% delle emittenti pubbliche e private è sotto
il controllo più o meno dichiarato della stessa persona e quindi
cambiare canale significa sostanzialmente riascoltare la medesima notizia
detta con parole diverse ma con identico intento glorificatorio.
Ma questa
che ho chiamato finalità implicita verrebbe ad esercitare la sua
capacità d’incidenza,
ove si limitasse a un unico codice di comunicazione, soloe sempre su un
medesimo gruppo di spettatori, quello che si può definire lo zoccolo
duro. Un nucleo comunque limitato e sensibile a una comunicazione più emotiva
che logica. Una emittente televisiva privata o pubblica ha però la
necessità assoluta
d’ampliare il proprio bacino d’ascolto, ne va della sua stessa
sopravvivenza per la maggior parte alimentata dall’affluenza degli
spot pubblicitari. Da ciò il ricorso non solo a codici diversi,ma
a sottocodici molteplici anche nella comunicazione di una stessa notizia.
I più evidenti di questi sottocodici sono presenti fin dalla copertina
del telegiornale, che è una specie di riassunto delle notizie più importanti
che saranno date. La nostra notizia, che chiameremo A, è presente
in copertina? Se sì, che posto occupa nell’indice? Se non
compare in copertina, a che punto del telegiornale verrà detta?
Quanto tempo le verrà dedicato? Qual è la notizia che la
precede? Qual è la notizia che la segue? La notizia A viene commentata?
Come? Da chi? Si userà per essa il cosiddetto “panino”,
che significa collocare la notizia A tra due commenti orientati in senso
opposto rispetto al contenuto della notizia? E poi: una notizia televisiva
può essere semplicemente detta dal giornalista senza l’aiuto
dell’immagine,
facendone automaticamente una notizia di serie B.Per ciò che riguarda
il parlato, se è vero che, come ha scritto Umberto Eco, “il
linguaggio si avvale di rimandi infra e intertestuali e che molto del
contenuto trasmesso da un testo è ‘non detto’, presupposto
o alluso”, questo non fa che portare acqua al mulino di quello che
sto dicendo.
Quale tono, timbro di voce usa il giornalista nel dare la notizia A? Che
ritmo adopera? Le pause che fa sono per rispetto alla punteggiatura o
rimandano, alludendo, a un sottodiscorso B?
Abbiamo avuto esempi memorabili di notizie date interamente per non detto
o alluso: ricordo che il giornalista Ugo Zatterin, dovendo dare al pubblico
televisivo la notizia dell’approvazione in Parlamento della legge
Merlin, quella che aboliva le case di tolleranza, parlò per tre
minuti senza mai usare parole che si riferivano a prostitute, prostituzione,
case chiuse, parole tutte rigorosamente bandite dalla tv di allora. Adoperò un
codice che venne decifrato solo da un quarto degli ascoltatori, il rimanente
intuì che qualcosa da quel giorno in poi era vietato in Italia,
ma sul momento non seppe cosa, lo seppe quando andò a bussare a
una porta sbarrata.
Fin qui non credo di aver detto nulla di nuovo. Ognuno di quelli che mi
stanno ascoltando sa benissimo che negli ultimi anni il corso delle cose
che prima, per dirla con Merleau-Ponty, era “passabilmente sinuoso”,
si è fatto totalmente, indecifrabilmente labirintico e questo non
solo per la complessa decrittazione di ogni evento in sé, quanto
piuttosto per le molteplici e contrastanti e depistanti decrittazioni
che la comunicazione dell’informazione si affretta a offrire.
Difficile oggi incontrare un’Arianna su uno schermo televisivo.
E quando la s’incontra, sappiamo ormai che non è prudente
fidarsi del filo che ci porge.
Ma non è questo il vero problema. Il problema è, a mio parere,
l’ulteriore e pericoloso cambiamento avvenuto negli ultimi due anni
circa nella comunicazione di massa. Cambiamento evidente attraverso l’osservazione
di come le televisioni mondiali si sono comportate, e continuano a comportarsi,
di fronte a un evento che ha coinvolto decine e decine di nazioni.
Di un dittatore, non più feroce di tanti altri che vengono oltretutto
foraggiati dai paesi democratici (e il nostro lo era già stato),
si comincia a farne, prima con le parole del Presidente degli Stati Uniti
e dei suoi più importanti ministri e quindi attraverso un subitaneo
tam tam mediatico, insistente, assordante, coinvolgente, travolgente,
ubriacante, con sventagliate continue di notizie e soprattutto immagini
volte non alla ragione ma all’emozione, con flash che attengono
più alla pubblicità che alla politica, con un martellare
d’incontri e dibattiti dove si adopera un linguaggio costantemente
sovratono, di questo dittatore se ne fa, dicevo, il nemico pubblico mondiale
numero uno, in possesso di spaventose armi di distruzione di massa, capaci
di distruggere una città europea in quarantotto ore, come asserisce
turbato il primo ministro britannico. Il ministro degli esteri statunitense
si reca all’Onu e con grafici, fotografie, fialette, dimostra inequivocabilmente
l’esistenza di quelle armi da anni, ricordiamocelo, invano cercate
dagli stessi ispettori dell’Onu. Le voci soliste che incitano alla
guerra si trasformano ben presto in coro: la guerra preventiva è ineludibile,
bisogna attaccare prima di essere attaccati. Anche i paesi che sono per
una soluzione politica e non bellica concordano pienamente sulla pericolosità e
la cieca ferocia del dittatore. La guerra è stata scatenata, è costata
decine di migliaia di morti innocenti, il dittatore è stato preso
prigioniero, la guerra è finita ma si è tramutata in un
quotidiano massacro, è stato insomma scoperchiato incautamente
un vaso di Pandora che sarà arduo richiudere.
Ma le famose armi di distruzione di massa non vengono mai ritrovate, comincia
a serpeggiare il sospetto che probabilmente non ci sono mai state. Poi
il sospetto diventa certezza. I governi che hanno promosso la guerra sono
costretti ad ammetterlo. Il ministro degli esteri statunitense, dimessosi,
ora dichiara di avere ingannato il mondo in buona fede, perché ingannato
a sua volta dai servizi segreti. Insomma, non era mai esistito il presupposto
principale per fare la guerra. Era un falso spudorato, una tragica guerra
di Pinocchio.
Ma la conoscenza dell’inganno perpetrato dai capi di stato non scalfisce
se non in minima parte, nell’opinione pubblica, il potere di coloro
che hanno anche coscientemente ingannato. Anzi, si dà il caso che
il primo responsabile, l’americano, venga rieletto a travolgente
maggioranza. E anche l’inglese, quando la guerra ormai si consolida
come un inutile carnaio, ottiene una storica terza investitura. Tutti
e due hanno mentito ai loro popoli, ma i loro popoli gli hanno rinnovato
la fiducia.
Perché? Questo è il punto. Si può azzardare un’ipotesi.
E cioè che questo è possibile perché i mezzi di comunicazione
di massa, da fabbriche di consenso, si sono tramutati, riuscendoci, in
convertitori di fede, in fabbriche del credere. Hanno saputo trasformare
una guerra evitabile in una lotta suprema tra il Bene e il Male, tutti
e due con le iniziali maiuscole.
Forse riuscirò a spiegarmi meglio citando un passo del grande fisico
Werner Heisenberg, con l’avvertenza che è estrapolato da
un saggio, “Fisica e filosofia”, dato alle stampe nel 1958:
“Non possiamo chiudere gli occhi al fatto che è difficile
per la gran maggioranza della gente farsi un giudizio ben fondato sulla
giustezza di certe dottrine o idee generali. Quindi può essere
che la parola ‘credere’ non significhi per la maggioranza
di quella gente ‘percepire la verità di qualche cosa’,
ma viene piuttosto presa nel senso di ‘assumere questo a base della
vita’. Si può facilmente intendere come questo secondo tipo
di fede sia molto più fermo e stabile che non il primo e come possa
persistere perfino contro un’esperienza diretta che la contraddica,
senza restare scossa, perciò, da alcuna sovraggiunta conoscenza.”
Permettetemi un’ultima citazione. Scrisse Stanislaw Jerzy Lec: “Quando
la menzogna ottiene il diritto di cittadinanza non per questo diventa
verità.”
Perfettamente d’accordo. Ma se la menzogna ottiene il diritto di
cittadinanza sotto forma di fede?
E questo, in parole povere e conclusive, dimostra, a parer mio, che se
non l’eclissi, ma almeno l’offuscamento della ragione non è né un’ipotesi
astratta né una remota probabilità.
Andrea
Camilleri
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