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Un
sogno per fermare l’aids in Africa
L’Università e la Comunità di Sant’Egidio
insieme con DREAM
L’aids
abita soprattutto in Mozambico. 30 dei 40 milioni di persone già colpite
dal virus Hiv/aids vive oggi, infatti, nell’Africa sub-sahariana.
Eppure l’aids si può fermare. In Africa il programma DREAM
della Comunità di Sant’Egidio ha raggiunto fin’ora
risultati straordinari. Da circa un anno anche l’Università di
Pisa è impegnata attivamente in questo progetto, con medici specializzandi
e studenti della facoltà di Medicina che partecipano in prima
persona alle missioni della Comunità. Quello che riportiamo qui
non è solo il reportage della prima missione in Mozambico degli
studenti dell’Ateneo pisano, ma soprattutto una storia d’amore
e di coraggio.
Il
15 Gennaio 2005 siamo arrivati a Maputo, capitale del Mozambico, per sostenere
in modo concreto il programma DREAM di lotta all’aids che la Comunità di
Sant’Egidio ha avviato in alcuni Paesi dell’Africa sub-Sahariana.
Eravamo in cinque: tre medici specializzandi e due studenti del corso
di laurea in Scienze infermieristiche. Siamo andati con entusiasmo per
concretizzare un lavoro lungo, iniziato con il viaggio in Mozambico del
professor Generoso Bevilacqua e del dottor Mauro Lazzeri, che ha portato
l’Università, grazie anche all’aiuto dei professori
Roberto Barsotti e Brunello Ghelarducci, a sostenere un programma ambizioso
che intende offrire l’eccellenza delle cure a tanti pazienti africani
malati di aids.
L’impatto con il terzo mondo è stato molto forte, ci ha messi
tutti a dura prova. Vedere la povertà estrema, il degrado, i mercati
sopra le discariche, i bambini che giocano nelle fogne a cielo aperto, la
gente che vive per strada senza niente è stato sconvolgente.
La pandemia del virus HIV, responsabile del nuovo e più grave dramma
africano, quello dell’aids, non accenna a indebolirsi. Minaccia ormai
centinaia di milioni di persone in tutto il continente, corrodendo il suo
precario sistema economico, scolastico e sanitario.
In Africa l’aids costituisce un problema drammatico sia dal punto
di vista socio-sanitario che economico perché colpisce moltissimi
individui soprattutto giovani e bambini. La speranza di vita in Africa sta
scendendo rapidamente in tanti paesi. In Mozambico la prevalenza della malattia è di
circa il 13% fino a raggiungere percentuali più alte in alcune realtà,
come il 40% nella città di Beira. A questo si aggiunge il problema
della malnutrizione essendo la maggior parte della popolazione minacciata
dalla povertà e dall’insicurezza alimentare.
Il programma DREAM (Drugs Resource Enhancement against aids and Malnutrition)
nasce per la lotta alla malnutrizione e all’infezione da HIV e significa
per migliaia di malati del continente la possibilità di curarsi con
standard occidentali e vivere bene e a lungo e per tanti bambini la possibilità di
nascere sani.
Il primo contatto con questa realtà lo abbiamo vissuto visitando
l’ospedale di Machava, il principale centro per la cura della tubercolosi
nella capitale. L’edificio è una struttura fatiscente, con
crepe nei muri, pavimenti allagati e l’acqua che gocciola dal soffitto
per le tubature rotte. I servizi igienici sono in condizioni pessime, i
pazienti fanno i propri bisogni dove possono, l’odore d’urina
arriva nei corridoi. I letti sono insufficienti per il numero dei pazienti,
molti dei quali sono costretti a distendersi su stuoie direttamente sul
pavimento, in evidenti condizioni di disagio. Ci sono pochissimi infermieri
ad assistere i pazienti, pochi farmaci per curarli mentre i medici, escluso
poche ore la mattina, sono raramente presenti in corsia. Sembra che in Mozambico
ci siano circa 500 medici per 20 milioni d’abitanti. Cosa incredibile
se si pensa all’alta incidenza di malattie infettive e alla malnutrizione
che affliggono questo paese, soprattutto se paragonato con i paesi europei
dove c’è un medico ogni 500 abitanti e dove, come dice un medico
spagnolo che abbiamo conosciuto qui in Mozambico, si “fanno le terapie
per i tutan kamen”.
Anche l’Ospedale Centrale di Maputo è in una condizione poco
migliore rispetto a quello di Machava. Un giovane medico mozambicano, che
per un periodo di qualche mese ha frequentato un laboratorio di microbiologia
dell’Università di Pisa, ci ha guidato tra le vecchie infrastrutture
e per i corridoi deserti, dove ci ha colpito l’assenza completa di
personale sanitario. Abbiamo visitato il reparto di Oncologia che purtroppo
ospita soprattutto bambini. In Mozambico è impossibile praticare
la radioterapia, ci sono scarsissimi mezzi per diagnosticare precocemente
i tumori e pochissimi per curarli.
Il progetto DREAM nasce concretamente dall’ospedale centrale di Maputo.
Qui è stato creato un laboratorio di biologia molecolare in grado
di determinare la conta dei linfociti CD4 positivi e la carica virale, che
sono parametri fondamentali per il monitoraggio del paziente che assume
farmaci antiretrovirali. Il passo successivo è stato quello di aprire
ambulatori dove seguire i pazienti con l’infezione da HIV e intraprendere
la terapia antiretrovirale consapevoli di poter effettuare un corretto follow-up
del paziente in terapia.
Il primo centro del progetto DREAM che abbiamo visitato si trova nel giardino
dell’ospedale di Machava; la prima cosa che colpisce all’arrivo
sono i cartelli “nao se paga” per sottolineare che le prestazioni
sono gratuite, cosa non trascurabile in un paese dove le persone spesso
non hanno i soldi a sufficienza per pagarsi lo “chapa”, il mezzo
pubblico che li conduce al centro. Il personale presente nel centro si è dimostrato
accogliente fin dall’inizio. Abbiamo trovato, tra gli altri, Ana Maria
chiamata affettuosamente “la Gladiatora” che lavora qui come
attivista, e gira mostrando una sua foto di quando, prima di iniziare il
trattamento, pesava 27 Kg. Come lei adesso ci sono molte altre persone che
hanno ripreso a vivere con la terapia antiretrovirale e che ora lavorano
come attivisti presso i vari centri DREAM. L’attivista è una
figura fondamentale perché media il rapporto tra il personale sanitario
e i malati facendo capire a questi ultimi l’importanza dell’aderenza
alla terapia anche perché vive in prima persona la malattia. Le attiviste
si occupano anche di tutti gli aspetti del programma DREAM connessi all’alimentazione.
Periodicamente frequentano dei corsi di formazione il cui obiettivo principale è quello
di fornire le competenze necessarie a educare i pazienti che vengono ai
centri DREAM, a una corretta alimentazione, al fine di prevenire la malnutrizione
nell’adulto e nel bambino.
Oltre ad Ana Maria abbiamo conosciuto altre attiviste, che lo scorso anno
hanno fondato l’associazione “Mulheres para o DREAM” ovvero “Donne
per un Sogno”. L’associazione è nata dalle prime donne
affette da aids che, ritrovate le forze per vivere e sperare, grazie alla
terapia antiretrovirale fornita gratuitamente nei centri della Comunità di
Sant’Egidio, hanno deciso di utilizzarle per aiutare altri a sperare,
cioè a rivolgersi anch’essi, con fiducia, alla terapia. Ma
quasi subito anche alcuni uomini si sono uniti a queste donne coraggiose,
tanto che, nel corso di una recente assemblea dell’associazione, c’è stato
chi ha proposto di cambiarne il nome in “Humanidade para o DREAM”.
Il loro scopo è quello di diffondre un messaggio semplice ma decisivo: “L’aids
si può curare”. Come fa R. che ha contratto la malattia in
prigionia: “Ho cominciato a parlare a molti e ho percorso anche molti
chilometri a piedi, per raggiungere i distretti più lontani, per
comunicare che dall’aids si può guarire. Nelle varie scuole
e centri di salute in cui ho parlato ho incontrato più di 15.000
persone, negli ultimi due mesi, e durante questo viaggio ho partecipato
anche a molti funerali. Il mio obiettivo è educare, cambiare la mentalità di
questo paese. Io non sono solo un’attivista, ma un paziente modello,
e sono un esempio per tanti”. C’è chi, parlando, si è commosso
ricordando una storia di sofferenze e d’abbandono, che ha trovato
improvvisamente una svolta positiva quando è avvenuto l’incontro
con la Comunità di Sant’Egidio. Rappresentano un elemento importante
di DREAM, gli attivisti con la loro tenacia. Portano sul corpo i segni dell’efficacia
della terapia: “Pesavo 26 kg, ora ne peso 58”, ha detto G. con
un sorriso. È tale il suo cambiamento, che qualcuno, in famiglia,
non vuole più credere che sia veramente malata di aids. È una
ulteriore vittoria di DREAM sull’aids, da non sottovalutare: il superamento
del timore dello stigma sociale. Non negano più di avere una malattia
che prima della terapia significava la condanna a una doppia morte, sia
sociale che fisica, ma diventano i più tenaci e convincenti alleati
del programma di lotta all’aids della Comunità. Accettando
di condividere con gli altri la loro esperienza, realizzano infatti un contagio
al “contrario”, una propagazione di speranza e di fiducia nella
cura.
“Ti ricordi di me? Forse non mi riconosci. Un anno fa stavo molto
male, ero magrissima e quasi non riuscivo a camminare da sola. Ora lo vedi
come sto bene? Questo non è un sogno, è possibile anche per
te”. Sono più o meno queste le parole con cui, in dialetto
changane, Honoria si rivolge alle donne che vengono ogni mattina al Centro
DREAM.
Onoria è una delle prime pazienti di DREAM. Le sue condizioni sono
molto cambiate dopo un anno di terapia. I farmaci antiretrovirali le hanno
restituito la salute e la voglia di vivere. Oggi non sta soltanto meglio,
ma può anche fare qualcosa per gli altri. Anzi, può fare molto,
perché può insegnare a tante altre donne a intraprendere con
fiducia la sua stessa strada. Per questo, da qualche giorno, ha iniziato
un nuovo lavoro: è attivista nel centro di Machava. Il suo ruolo è quello
di accogliere le donne che vengono per i test e per la terapia, spiegare
loro quanto sia importante seguire con scrupolo le prescrizioni dei medici,
fornire i chiarimenti di cui hanno bisogno. Il suo sorriso è la dimostrazione
migliore dell’efficacia della terapia e le donne la ascoltano con
interesse e con speranza.
Insieme a Honoria, un’altra donna ha iniziato lo stesso lavoro nel
centro di Matola. Presto, a queste prime attiviste se ne aggiungeranno altre.
Nei giorni successivi, dopo aver iniziato a partecipare all’attività ambulatoriale
ci siamo accorti che i pazienti erano piacevolmente stupiti dal fatto che
in ambulatorio oltre all’infermiera trovassero un medico che li visitasse.
Altro importante centro è quello di Matola nato allo scopo di evitare
la trasmissione verticale, cioè la trasmissione materno-fetale, dell’infezione.
Secondo i dati statistici, in assenza di un’adeguata terapia, su 1000
bambini nati da madri sieropositive, 400 sono destinati a nascere affetti
da HIV. Invece, tra i nati da madri in cura con il programma DREAM, si stima
che siano solo 45 quelli che hanno contratto l’infezione nel primo
anno di vita. In questo centro che è stato creato all’interno
di un reparto di maternità, recuperato e ristrutturato sempre dalla
Comunità di Sant’Egidio, viene effettuato il test a tutte le
donne gravide che lo richiedono e quelle che risultano sieropositive vengono
poi persuase a effettuare il trattamento. Sembra una cosa da niente, invece
la triterapia antiretrovirale effettuata in gravidanza e la Nevirapina somministrata
al neonato, più altri accorgimenti come l’allattamento artificiale,
hanno impedito nei paesi industrializzati la nascita di altri bambini con
la malattia. Tutto ciò è possibile anche a Matola, in Africa,
dove attualmente sono seguite circa 600 donne gravide sieropositive. È bello
lavorare a Matola perché quasi tutti i bambini che arrivano per le
visite ogni mattina sono sani senza la malattia che invece colpisce la madre.
Un giorno vediamo Johanino piangere in braccio alla sua mamma come tanti
altri bambini appena venuti alla luce, ma intorno a lui c’è gran
festa. Infatti Johanino è il bambino numero 1000 nato da una madre
sieropositiva in cura con il programma DREAM e, come quelli che lo hanno
preceduto, ha una ottima probabilità di essere sano e destinato ad
una vita in buona salute. Johanino ha anche un’altra ottima ragione
per smettere di piangere e godersi la vita: sua mamma vivrà e lo
accudirà nei prossimi anni. La terapia infatti ha fatto bene anche
a lei, tanto bene che nella fase di interruzione dei farmaci il suo sistema
immunitario è rimasto forte e quasi integro. La buona fama del centro
e del trattamento si è sparsa a Matola e ora anche qualche marito
si è deciso a farsi avanti per sottoporsi al test. Insomma è molto
probabile che Johanino non resterà orfano di padre o di madre. Il
progetto DREAM non si occupa solo di aids: infatti con frequenza bimensile
viene creato un ambulatorio medico in un “canisso”, una capanna
fatta di canne, nello sperduto villaggio di Goba, situato al confine tra
Mozambico e Swaziland, dove si svolgono visite mediche per gli abitanti
del paese che aspettano pazientemente il loro turno sotto la supervisione
del capo villaggio. Questa è l’unica occasione per queste persone
di accedere con tranquillità ai servizi sanitari per patologie ambulatoriali.
È povero ma è ben organizzato il nuovo “Centro di Salute” della
Comunità di Sant’Egidio. È un po’ diverso da tutti
gli altri: è in “canisso”, come le povere case di qui,
e l’insegna è un arcobaleno colorato. Quando arriviamo, come
ogni giovedì, per la consueta visita settimanale, il capo del villaggio
ci aspetta con tanti pazienti. La costruzione è stata ben ideata:
la prima stanzetta per l’accettazione, dove si pesano e si misurano
i bambini, si rileva la temperatura e per ciascuno si prepara una scheda
sanitaria; il secondo locale per la visita medica (qualcuno intanto porta
un tavolino con tre sedie) e l’ultima stanza è la farmacia,
dove si ritirano i farmaci, si fanno le medicazioni, si ricevono indicazioni
su come assumere la terapia.
Noi abbiamo pensato alla sala d’attesa: delle belle stuoie nuove di
zecca per far riposare all’ombra la tanta gente che aspetta.
E la gente che ci aspetta è veramente tanta: ogni giovedì sono
più di cento i bambini e gli adulti che visitiamo. A Goba, sette
mesi dopo la “prima visita” della Comunità di Sant’Egidio
le novità non mancano: i bambini stanno meglio, non si vedono più tante
pance gonfie per le parassitosi, le ferite - disinfettate e curate - guariscono
e tanti piccoli incidenti della vita quotidiana non rischiano di trasformarsi
in invalidità permanenti.
Ci portano un bambino che da qualche giorno non muove più il braccio
destro. Visitandolo, ci accorgiamo che ha una frattura della clavicola.
Non è una cosa grave ma senza cure, lo sarebbe diventato! Possiamo
tranquillizzare la mamma. Lo porteremo all’ospedale per una fasciatura
adeguata e, in qualche settimana, sarà tutto a posto!
Con la gente di Goba, ormai ci sentiamo in famiglia. E la costruzione dell’ambulatorio,
per loro ha proprio questo significato: tra le altre case, il “canisso” di
Sant’Egidio, ci dice il capo del villaggio, è il segno che “qui
ormai siete di casa!”.
DREAM non si esaurisce qui: ci sono 13 centri sparsi in tutto il Mozambico
alcuni dei quali in collaborazione con altre organizzazioni non governative;
ci sono due laboratori di biologia molecolare e un terzo sta nascendo a
Nampula. Da sottolineare la prossima espansione del progetto ad altri sei
Paesi dell’Africa sub-Sahariana.
Il 7 febbraio, a Maputo, si è aperto il V Corso di Formazione Panafricano
del Programma DREAM. Partecipano al corso medici, infermieri, tecnici di
laboratorio, biologi, farmacisti, informatici e coordinatori, per un totale
di 130 persone, da 11 Paesi africani. Oltre che dal Mozambico, infatti,
i partecipanti provengono dal Kenya, dal Congo, dalla Guinea-Bissau, dall’Eritrea,
dall’Etiopia, dalla Nigeria, dalla Tanzania, dal Camerun, dall’Angola
e un folto gruppo dal Malawi. Sono loro, infatti, che sosterranno DREAM
in alcuni Paesi, in cui si va avviando il programma. Ma il corso riveste
un interesse particolare anche per altri operatori, che intendono replicare
il modello di DREAM nelle proprie strutture. Per questo, seguono il corso
alcune suore vincenziane, che avvieranno la terapia antiretrovirale nei
propri centri, e le équipe sanitarie di alcune tra le maggiori imprese
operanti in Mozambico, che intendono introdurre la terapia dell’aids
tra i dipendenti. All’inaugurazione del corso hanno portato il loro
saluto alcune autorità, tra cui i rappresentanti del Ministero della
Salute e del Consiglio Nazionale per Combattere il Sida, il rappresentante
dell’arcivescovo di Maputo, una rappresentante dell’associazione
di attiviste “Mulheres para o DREAM”. Il corso prevede, dopo
una prima fase teorica, un periodo di tirocinio nei centri DREAM in Mozambico.
Contemporaneamente al corso di formazione per il personale sanitario, si
svolge un corso per 30 attiviste dell’associazione “Mulheres
para o DREAM”, di Maputo e di Beira. Obiettivo di questo secondo corso è l’approfondimento
degli aspetti nutrizionali legati all’infezione da HIV. Le attiviste,
infatti, affiancano la terapia effettuata nei centri DREAM con un’attività domiciliare
di cura degli aspetti nutrizionali. Il loro compito consiste nell’insegnare
e controllare la nutrizione delle madri in cura e dei loro bambini, verificare
la corretta preparazione del latte, delle pappe per lo svezzamento ed eventuali
problemi clinici da segnalare tempestivamente ai medici.
Claudia
Baldo, Irene Bertolucci, Stefano Lusso, Giovanna Morelli, Francesco
Sbrana
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