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Si è conclusa da pochi giorni la missione in Sud Sudan di Valentina Mangano e Marco Prato, del gruppo di ricerca di parassitologia umana dell’Università di Pisa, nell’ambito del progetto “Potenziamento della risposta alla malaria in Sud Sudan attraverso il miglioramento di accesso, utilizzo e qualità dei servizi preventivi, diagnostici, curativi e loro integrazione sui tre livelli del sistema sanitario dello Stato di Amadi” coordinato da Medici con l’Africa CUAMM in collaborazione con il Ministero della Salute del Sud Sudan, e finanziato dall’Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo nel quadro del Technical Support Spending al Fondo Globale per la lotta all’AIDS, alla tubercolosi e alla malaria.

Il progetto ha come obiettivo il miglioramento di qualità e accesso ai servizi di prevenzione, diagnosi e cura della malaria nello stato di Western Equatoria, dove CUAMM supporta il Ministero della Salute Sud Sudanese e le autorità locali nel fornire e gestire servizi sanitari di base ed emergenza, dal livello comunitario ai centri di salute periferici e fino agli ospedali. In particolare, la componente di ricerca operativa condotta dall’Università di Pisa mira al miglioramento della diagnosi di malaria.

Nel corso della missione è stato avviato uno studio epidemiologico che durerà fino a giugno 2022 e riguarderà i bambini al di sotto di cinque anni di età e le donne in gravidanza, i gruppi di popolazione maggiormente a rischio di contrarre e sviluppare forme gravi della malattia. Allo stesso tempo sono stati svolti corsi di formazione che hanno interessato il personale di laboratorio e dei servizi ambulatoriali di area materna e infantile dei centri di salute periferici di Mundri, Lakamadi e Mvolo e dell’Ospedale di Lui. Si è inoltre fornito supporto alla distribuzione e messa in uso di equipaggiamenti e materiali necessari al rafforzamento dei laboratori per consentire, oltre alla diagnosi rapida tramite test antigenici già in uso, anche la diagnosi emoscopica, che permette di identificare la specie e lo stadio del parassita e di quantificare la densità parassitaria, informazioni fondamentali per il corretto trattamento dei casi clinici.

Lo studio permetterà di conoscere la prevalenza della malaria nei due gruppi di popolazione sopra menzionati in diverse aree dello stato e in periodi dell’anno a diversa intensità della trasmissione. La raccolta di campioni di sangue su carta da filtro (Dried Blood Spot) consentirà l’analisi del genoma di Plasmodium falciparum, il parassita che causa il maggior numero di casi di malaria, attraverso metodi di Next Generation Sequencing, in collaborazione con il Wellcome Sanger Institute e il progetto SpotMalaria del Malaria Genomic Epidemiology Network. Da questa analisi sarà possibile rilevare l’eventuale delezione del gene codificante la Histidine Rich Protein, che causa risultati falsi negativi dei test antigenici, nonché la presenza di mutazioni che causano la resistenza del parassita ai principali farmaci antimalarici, come sulfadoxina e pirimetamina utilizzati per la prevenzione della malaria durante la gravidanza (Intermittent Preventive Treament in pregnancy, IPTp), e artemisinina, utilizzato in combinazione con altri farmaci (Arthemisinin Combination Therapies, ACT) per il trattamento della malaria semplice e come monoterapia per la malaria grave. Le informazioni ottenute verranno condivise con il Ministero della Salute del Sud Sudan, che ne potrà tenere conto per un eventuale adeguamento delle strategie del Piano Nazionale di Controllo della Malaria, e contribuiranno alla sorveglianza globale di queste biological threats al controllo e all’eliminazione della malaria, che nel 2020 ha causato 241 milioni di malati e 627000 decessi.

scavo chiesaIl Comune di Pisa ha concesso un contributo straordinario di 10mila euro per cofinanziare due scavi archeologici realizzati dal Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa sul territorio comunale: il primo relativo al giardino di San Sisto, il secondo relativo all’area Scheibler (via Caruso).

«La collaborazione con l’Università di Pisa, a cui tengo in modo viscerale – dichiara l’assessore alla cultura Pierpaolo Magnani - prosegue con un altro gesto concreto, che mi risulta non abbia precedenti, e cioè l’erogazione di 10mila euro di contributi per consentire di proseguire gli scavi di San Sisto e dell’area Scheibler. Due siti che ho visitato la scorsa estate e che consentiranno di portare alla luce importantissimi reperti ed informazioni sulla storia della nostra città».

«Applaudo con particolare soddisfazione la decisione dell’assessore Magnani e del Comune di concedere un contributo a due scavi urbani coordinati da docenti del nostro Dipartimento – dichiara Simone Maria Collavini, direttore del Dipartimento di Civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa. È una scelta importante innanzitutto per i nostri studenti che avranno modo di alternare attività scavo e studio in città; importante per i due colleghi, dato che un aiuto economico è indispensabile per le indagini archeologiche; ma ancora più importante come segnale dell’intenzione di avviare una collaborazione e sinergia sempre più strette tra il mio dipartimento e l’amministrazione comunale. Fra i nostri compiti istituzionali, del resto, oltre alla formazione dei giovani e alla ricerca rientra la cosiddetta Terza Missione, ossia la diffusione delle conoscenze prodotte nell’Università nella società civile, a partire ovviamente dalla città in cui lavoriamo e viviamo. Spero che questo finanziamento e le iniziative comuni che ne scaturiranno diano lo spinto a progetti a più lungo respiro che connettano sempre più strettamente Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere e comunità cittadina».

Scavi nel Giardino di San Sisto. Nei mesi scorsi si è svolta una campagna di scavo archeologico nel giardino di San Sisto, che è stato messo a disposizione dall’Arcidiocesi di Pisa. Le indagini hanno consentito di riportare alla luce una complessa sequenza stratigrafica che si estende dall’età romana fino ad oggi, oltre a reperti databili a partire dall’VIII secolo a.C. In particolare, per l’età compresa tra il XII e il XV secolo, sono emersi i muri perimetrali del chiostro della canonica di S. Sisto, con l’area cimiteriale inserita sotto i loggiati. L’area sembra avere una fase di abbandono tra la fine del X e l’XI secolo, periodo che corrisponde a quello in cui la Corte altomedievale viene ricordata come vecchia, cioè ormai in abbandono, a seguito dell’allontanamento dei conti da Pisa. Tra il VII e il X secolo, dove oggi è la chiesa di San Sisto, doveva esistere un edificio che sfruttava i perimetrali di una struttura di età tardorepubblicana e che era affiancato, verso est, dalla chiesa di San Pietro. A sud, invece, sembra che vi fosse un’area aperta. Il complesso che si viene a delineare potrebbe corrispondere alla corte regia altomedievale ricordata dalle fonti scritte, cioè lo spazio dove era incardinato il potere pubblico della città tra età longobarda e carolingia. La struttura realizzata in età tardo repubblicana era caratterizzata da pareti affrescate, rivestimenti in marmo, pavimenti in cementizio con inserti marmorei e mosaici (testimoniati da numerose tessere). Le nuove indagini, che verranno realizzate nel 2022, consentiranno di riportare alla luce nella sua estensione l’edificio e di verificare l’effettiva conservazione di pavimenti mosaicati.

La ricchezza delle restituzioni archeologiche dei mesi scorsi, si misura anche nel numero di reperti raccolti: si tratta di oltre 200 casse di ceramiche, metalli, vetri, manufatti lapidei, in osso e monete, oltre ai resti umani rinvenuti nelle tombe. Tutto questo materiale sarà studiato nei laboratori invernali organizzati dalla cattedra di Archeologia cristiana e medievale dell’Università di Pisa e sarà oggetto di analisi archeometriche per datarlo in modo assoluto, studiarne i processi di produzione e individuarne le aree di provenienza. Anche i resti degli inumati saranno oggetto di particolari studi per ricostruirne la dieta alimentare, le paleopatologie, il sesso, l’età di morte, le attività condotte in vita, i luoghi di nascita e quindi gli eventuali fenomeni di immigrazione in città.

Scavo archeologico presso l’area Scheibler. Le ricerche attualmente in corso presso l’Area Scheibler fanno parte del Pisa Progetto Suburbio, volto a indagare quella “cintura” esterna al centro urbano, dove si intrecciano strade, orti e proprietà fondiarie legate alla produzione agricola, necropoli, santuari, edifici per spettacoli, come l’anfiteatro, attività artigianali e discariche. Realtà che riflettono, come in uno specchio, le alterne fortune di Pisa, porta commerciale dell’Etruria settentrionale, posta tra i meandri dell’Arno e dello scomparso fiume Auser. L’Area Scheibler, che in età romana era parte del quartiere suburbano occidentale della città, costituisce un settore di notevole interesse archeologico.

L’area attualmente in corso di indagine comprende un segmento di quello che doveva essere un antico alveo del fiume. Le indagini archeologiche consentiranno di ricostruire, lungo le sue rive, un paesaggio dinamico e movimentato, nel quale, a partire dalla tarda età repubblicana, si sussegue la costruzione di strutture dedicate alla regimentazione del fiume, come un grande muro costruito lungo la sponda Sud all’inizio del I secolo a.C., e di infrastrutture funzionali ai commerci che lungo l’Auser si svolgevano: una strada che, correndo lungo la riva del fiume, poteva essere impiegata per l’alaggio delle imbarcazioni e un grande edificio con pilastri dell’inizio del I secolo d.C., destinato al rimessaggio delle imbarcazioni e allo stoccaggio delle merci in transito.

Dopo una fase di crisi tra III e V sec. d.C., l’area viene nuovamente occupata in età bizantino-longobarda: una comunità seppellisce i propri defunti a poca distanza dalla sponda Nord, mentre a Sud, strutture in materiale deperibile costruite sulle rovine degli edifici di età romana. Con la nascita del ducato longobardo di Lucca i traffici lungo l’Auser vivono una fase di nuova vitalità, della quale sono testimonianza, presso l’Area Scheibler, anfore e ceramiche provenienti dall’Africa e dal Mediterraneo orientale.

Le Sale studio dell'ateneo rimangono chiuse durante le feste natalizie secondo il seguente calendario:

  • SALA STUDIO POLO PIAGGE 23 dicembre-4 gennaio.
  • SALA STUDIO PACINOTTI: 23 dicembre - 4 gennaio
  • SALA STUDIO BIENNIO: 23 dicembre - 7 gennaio
  • SALA STUDIO PORTA NUOVA: 23 dicembre- 4 gennaio
  • SALA STUDIO POLO E. VITALE (ETRURIA): 23 dicembre - 4 gennaio
  • SALA STUDIO POLO FIBONACCI: 23 dicembre-7 gennaio
  • SALA STUDIO PALAZZO RICCI: 23 dicembre-7 gennaio

Si è conclusa da pochi giorni la missione in Sud Sudan di Valentina Mangano e Marco Prato, del gruppo di ricerca di parassitologia umana dell’Università di Pisa, nell’ambito del progetto “Potenziamento della risposta alla malaria in Sud Sudan attraverso il miglioramento di accesso, utilizzo e qualità dei servizi preventivi/diagnostici/curativi e loro integrazione sui tre livelli del sistema sanitario dello Stato di Amadi” coordinato da Medici con l’Africa CUAMM in collaborazione con il Ministero della Salute del Sud Sudan, e finanziato dall’ Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo nel quadro del Technical Support Spending al Fondo Globale per la lotta all’AIDS, alla tubercolosi e alla malaria.

Il progetto ha come obiettivo il miglioramento di qualità e accesso ai servizi di prevenzione, diagnosi e cura della malaria nello stato di Western Equatoria, dove CUAMM supporta il Ministero della Salute Sud Sudanese e le autorità locali nel fornire e gestire servizi sanitari di base ed emergenza, dal livello comunitario ai centri di salute periferici e fino agli ospedali. In particolare, la componente di ricerca operativa condotta dall’Università di Pisa mira al miglioramento della diagnosi di malaria.

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Nel corso della missione è stato avviato uno studio epidemiologico che durerà fino a giugno 2022 e riguarderà i bambini al di sotto di cinque anni di età e le donne in gravidanza, i gruppi di popolazione maggiormente a rischio di contrarre e sviluppare forme gravi della malattia. Allo stesso tempo sono stati svolti corsi di formazione che hanno interessato il personale di laboratorio e dei servizi ambulatoriali di area materna e infantile dei centri di salute periferici di Mundri, Lakamadi e Mvolo e dell’Ospedale di Lui. Si è inoltre fornito supporto alla distribuzione e messa in uso di equipaggiamenti e materiali necessari al rafforzamento dei laboratori per consentire, oltre alla diagnosi rapida tramite test antigenici già in uso, anche la diagnosi emoscopica, che permette di identificare la specie e lo stadio del parassita e di quantificare la densità parassitaria, informazioni fondamentali per il corretto trattamento dei casi clinici.

Lo studio permetterà di conoscere la prevalenza della malaria nei due gruppi di popolazione sopra menzionati in diverse aree dello stato e in periodi dell’anno a diversa intensità della trasmissione. La raccolta di campioni di sangue su carta da filtro (Dried Blood Spot) consentirà l’analisi del genoma di Plasmodium falciparum, il parassita che causa il maggior numero di casi di malaria, attraverso metodi di Next Generation Sequencing, in collaborazione con il Wellcome Sanger Institute e il progetto SpotMalaria del Malaria Genomic Epidemiology Network. Da questa analisi sarà possibile rilevare l’eventuale delezione del gene codificante la Histidine Rich Protein, che causa risultati falsi negativi dei test antigenici, nonché la presenza di mutazioni che causano la resistenza del parassita ai principali farmaci antimalarici, come sulfadoxina e pirimetamina utilizzati per la prevenzione della malaria durante la gravidanza (Intermittent Preventive Treament in pregnancy, IPTp), e artemisinina, utilizzato in combinazione con altri farmaci (Arthemisinin Combination Therapies, ACT) per il trattamento della malaria semplice e come monoterapia per la malaria grave. Le informazioni ottenute verranno condivise con il Ministero della Salute del Sud Sudan, che ne potrà tenere conto per un eventuale adeguamento delle strategie del Piano Nazionale di Controllo della Malaria, e contribuiranno alla sorveglianza globale di queste biological threats al controllo e all’eliminazione della malaria, che nel 2020 ha causato 241 milioni di malati e 627000 decessi.

In una vasca dell’Acquario di Livorno è stata installata una rete costituita da una bioplastica in grado di degradarsi in acqua salata, che verrà usata per realizzare impianti di riforestazione della Posidonia oceanica, una pianta essenziale per l’ossigenazione dell’ecosistema marino. Il risultato deriva da una collaborazione tra A.S.A. SpA (Azienda Servizi Ambientali SpA), il Dipartimento di Ingegneria civile e industriale dell’Università di Pisa (DICI), Francesco Cinelli, già docente di Ecologia Marina e Scienza Subacquea all’Università di Pisa, BioISPRA, l’Acquario di Livorno e l’azienda tessile Coatyarn Srl.

“I supporti proposti per la riforestazione dei fondali - spiega Maurizia Seggiani, docente di Fondamenti chimici delle tecnologie al DICI - hanno un grande impatto ambientale, perché costituiti da reti di ferro rivestite con monofilamenti di polipropilene che causano la dispersione in mare di microplastiche e la morte delle specie marine che vi rimangono intrappolate. Il nostro gruppo di ricerca ha individuato e testato una bioplastica, il PBSA (polibutilene succinato-co-adipato), usato in diverse applicazioni in sostituzione di plastiche tradizionali ma mai fino ad ora per applicazioni di restauro marino. Dal PBSA è stata ricavata una rete con proprietà meccaniche adeguate a contenere le talee di piccole piante di Posidonia, e in grado di biodegradarsi in un paio d’anni, il tempo necessario alla pianta per mettere radici”.

La rete per la messa a terra delle piante è stata realizzata grazie alla collaborazione con Coatyarn Srl, azienda leader nel settore tessile specializzata nella produzione di filati rivestiti ad alto contenuto tecnologico, e il primo prototipo è stato posato all’acquario di Livorno assieme ad alcune talee di Posidonia per verificarne l’efficacia nel trattenere le piantine al suolo per il tempo necessario al loro radicamento.

Il prossimo passo, previsto nella primavera 2022, sarà un test in mare aperto, in prossimità dell’Isola D’Elba, dove le praterie di Posidonia sono minacciate dagli impianti di dissalazione del mare a osmosi inversa, che rilasciano acqua ipersalina mal tollerata dalla pianta, rendendo necessarie operazioni di trapianto.

“Le potenzialità di impiego delle reti in bioplastica sono molto ampie - conclude Maurizia Seggiani - per esempio nell’itticoltura, o nei cosiddetti “orti marini. Inoltre, le reti possono anche essere usate sulla terraferma, per esempio per consolidare frane e scarpate con un materiale in grado di biodegradarsi in quell'ambiente una volta che ha svolto la sua funzione”.

 

In una vasca dell’Acquario di Livorno è stata installata una rete costituita da una bioplastica in grado di degradarsi in acqua salata, e che verrà usata per realizzare impianti di riforestazione della Posidonia oceanica, una pianta essenziale per l’ossigenazione dell’ecosistema marino.

Il risultato deriva da una collaborazione tra A.S.A. SpA (Azienda Servizi Ambientali SpA), il Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Pisa (DICI), Francesco Cinelli, già docente di Ecologia Marina e Scienza Subacquea all’Università di Pisa, BioISPRA, l’Acquario di Livorno e l’azienda tessile Coatyarn Srl.

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“I supporti proposti per la riforestazione dei fondali - spiega Maurizia Seggiani, docente di Fondamenti Chimici delle Tecnologie al DICI - hanno un grande impatto ambientale, perché costituiti da reti di ferro rivestite con monofilamenti di polipropilene che causano la dispersione in mare di microplastiche e la morte delle specie marine che vi rimangono intrappolate. Il nostro gruppo di ricerca ha individuato e testato una bioplastica, il PBSA (polibutilene succinato-co-adipato), usato in diverse applicazioni in sostituzione di plastiche tradizionali ma mai fino ad ora per applicazioni di restauro marino. Dal PBSA è stata ricavata una rete con proprietà meccaniche adeguate a contenere le talee di piccole piante di Posidonia, e in grado di biodegradarsi in un paio d’anni, il tempo necessario alla pianta per mettere radici”.

La rete per la messa a terra delle piante è stata realizzata grazie alla collaborazione con Coatyarn Srl, azienda leader nel settore tessile specializzata nella produzione di filati rivestiti ad alto contenuto tecnologico, e il primo prototipo è stato posato all’acquario di Livorno assieme ad alcune talee di Posidonia per verificarne l’efficacia nel trattenere le piantine al suolo per il tempo necessario al loro radicamento.

Il prossimo passo, previsto nella primavera 2022, sarà un test in mare aperto, in prossimità dell’Isola D’Elba, dove le praterie di Posidonia sono minacciate dagli impianti di dissalazione del mare a osmosi inversa, che rilasciano acqua ipersalina mal tollerata dalla pianta, rendendo necessarie operazioni di trapianto.

“Le potenzialità di impiego delle reti in bioplastica sono molto ampie - conclude Maurizia Seggiani - per esempio nell’itticoltura, o nei cosiddetti “orti marini. Inoltre, le reti possono anche essere usate sulla terraferma, per esempio per consolidare frane e scarpate con un materiale in grado di biodegradarsi in quell'ambiente una volta che ha svolto la sua funzione”.

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Venerdì, 31 Dicembre 2021 10:02

“Oltre il ghetto. Dentro&Fuori”

La mostra “Oltre il ghetto. Dentro&Fuori” esplora la storia ebraica italiana fra la fondazione del ghetto di Venezia nel 1516 e lo scoppio della prima guerra mondiale, mettendo a fuoco in particolare il tema delle relazioni: relazioni interne alla minoranza, ma soprattutto relazioni – amichevoli e ostili - fra gli ebrei e le società cristiane in cui sono inseriti.
Curata dalla professoressa Carlotta Ferrara degli Uberti dell’Università di Pisa insieme ad Andreina Contessa, Simonetta Della Seta e Sharon Reichel, è la terza mostra voluta dal Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS) di Ferrara ed è visitabile fino al 15 maggio 2022.

 

Oltre il ghetto_Sharon Reichel Simonetta Della Seta e Carlotta Ferrara degli Uberti foto di Bruno Leggieri (2).jpg

Da sinsitra, Sharon Reichel Simonetta Della Seta e Carlotta Ferrara degli Uberti (foto di Bruno Leggieri)


Come ha mostrato una ormai lunga serie di studi italiani e internazionali, il ghetto isolò solo parzialmente gli ebrei. Articolate reti di relazione e collaborazioni lavorative furono costruite anche nell’epoca dei ghetti, mentre all’interno delle mura le comunità ebraiche si svilupparono intorno a sinagoghe nascoste per via della proibizione di segnalare all’esterno la presenza di un luogo di culto ebraico.
Il passaggio dell’emancipazione, della conquista dei pari diritti civili e politici, che nel caso italiano procedette di pari passo con il processo di unificazione nazionale, impose la necessità di ripensare i termini dell’appartenenza per ebrei ormai divenuti cittadini di un paese nuovo, da costruire.

Questo percorso è presentato al visitatore attraverso una serie di oggetti, alcuni dei quali di grandissimo pregio artistico come il quadro di Sebastiano Ricci “Ester davanti ad Assuero” - in prestito dal Quirinale - che apre la mostra. Il valore artistico non è stato però il criterio principale che ha orientato le scelte delle curatrici. Aiutati dall’allestimento architettonico curato dallo studio GTRF Giovanni Tortelli Roberto Frassoni, gli oggetti in mostra hanno soprattutto il compito di raccontare delle storie poco conosciute al di là della cerchia degli specialisti, in modo accessibile ed efficace ma allo stesso tempo fondato sugli studi più recenti.

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