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Né troppo, né troppo poco, la formula migliore per gestire il sonno degli equipaggi durante le regate è alternare due ore di sonno e due di veglia; addirittura, per ogni ora di sonno in più che si aggiunge, il piazzamento medio peggiora di 16 posizioni. E’ questo quanto emerge dal progetto “151 e una notte”, coordinato da Ugo Faraguna professore di Fisiologia Umana dell’Università di Pisa, che insieme al suo gruppo, ha analizzato la gestione del sonno degli equipaggi dell’appuntamento velico “151 Miglia-Trofeo Cetilar”.

 

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“Le regate sono un laboratorio ideale per studiare il sonno e i suoi ritmi in situazione di stress – spiega Ugo Faraguna – per analogia i risultati che otteniamo possono essere applicati in molte altre situazioni, anche per migliorare la performance lavorativa in ambienti professionali a ciclo continuo come fabbriche e ospedali”.

La ricerca ha analizzato il sonno di 165 equipaggi, in media otto velisti per imbarcazione, che hanno partecipato al “151 Miglia-Trofeo Cetilar”. La regata, giunta alla decima edizione, si è svolta dal 29 maggio al 1 giugno 2019 dai porti di Pisa e Livorno sino alla Marina di Punta Ala (GR) ed ha previsto una notta intera di navigazione.

“Una competizione che dura più giorni di navigazione continua, notte e dì – ha detto Ugo Faraguna - mette a dura prova l’attenzione, la lucidità e la capacità di lavorare in stretta sinergia con gli altri membri dell’equipaggio; per questo motivo un’accurata valutazione della qualità del sonno risulta intuitivamente essenziale per comprendere quali possono essere le strategie vincenti che impattano positivamente sulla performance”.
I ricercatori dell’Università di Pisa hanno quindi sottoposto i membri degli equipaggi a un questionario per stabile, anche sulla base poi del risultato della gara, quale delle strategie messe in atto – i turni di sonno veglia andavano da 2 a 4 ore – fosse la migliore. Per questioni statistiche sono state invece scartate le situazioni estreme, cioè gli equipaggi che sono rimasti sempre svegli e quelli con i turni di una sola ora, troppo poco per entrare nelle fasi profonde del sonno.

“I turni di due ore sono risultati la strategia vincente – ha concluso Faraguna – chi ha dormito di più ha fatto peggio in classifica. I turni di quattro ore sono risultati infatti associati ad un piazzamento peggiore. Possiamo speculare che questo sia legato al concetto di inerzia del sonno: più si dorme, più tempo ci vuole per essere operativi al risveglio. Questa prima esperienza ci impone di continuare ad indagare. Il prossimo anno ci piacerebbe studiare i tempi di reazione durante tutta la regata, a chi vorrà aderire all’evoluzione di “151 e una notte, seconda edizione.”

La ricerca dell’Università di Pisa è stata promossa dallo Yacht Club Repubblica Marinara di Pisa. Il “151 Miglia-Trofeo Cetilar” è un evento organizzato da un vasto comitato formato da: YC Repubblica Marinara di Pisa, YC Punta Ala e YC Livorno, con la collaborazione del Porto di Pisa, del Marina di Punta Ala, dei partner PharmaNutra S.p.A. con il brand Cetilar®, Rigoni di Asiago, North Sails e TAG Heuer, e di Devitalia Telecomunicazioni. Questa regata d’altura richiama l’attenzione di armatori italiani e internazionali sulle province di Pisa, Livorno e Grosseto, essendo infatti una tappa del Campionato Italiano Offshore della FIV, del Mediterranean Maxi Offshore Challenge, il circuito di regate riservato ai Maxi Yachts, e del Trofeo Arcipelago Toscano.

 

Dal 1960, i ghiacciai del nostro Pianeta hanno perso più di 9.000 gigatonnellate di ghiaccio, l’equivalente di uno strato spesso 20 centimetri esteso quanto la Spagna, e la previsione è che scompariranno quasi del tutto entro il 2300, con un conseguente e drammatico innalzamento del livello del mare in tutto il globo. E’ questo l’allarmante scenario che emerge da una lettera appello pubblicata a dicembre sulla rivista Nature e firmata da 38 scienziati di tutto il mondo fra cui, unico Italiano, il professor Carlo Baroni, geologo dell’Università di Pisa.

 

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Careser Glacier (Ortles-Cevedale, Alpi Retiche) il 25 luglio 2003 (a sinistra) e l'11 agosto 2019 (a destra); foto di Luca Carturan (Università di Padova)



“Il tasso attuale di fusione dei ghiacciai provocato dal cambiamento climatico atto è senza precedenti – spiega Carlo Baroni - moltissime catene montuose perderanno la maggior parte dei loro ghiacciai entro questo secolo, la fusione attuale è già responsabile dell’innalzamento del livello del mare di quasi 3 centimetri”.

 La lettera pubblicata su Nature è stata redatta lo scorso agosto a Zurigo durante il meeting del World Glacier Monitoring Service al quale il professor Baroni ha partecipato in qualità di rappresentante del Comitato Glaciologico Italiano (CGI). Il documento è stato quindi inviato a Patricia Espinosa, segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, per favorire il monitoraggio e le ricerche sui ghiacciai quali sensibili sentinelle del clima.

“Vorrei sottolineare – ha concluso Baroni – che la lettera riprende in parte anche gli argomenti della "Carta dell'Adamello" sottoscritta dal nostro Ateneo e firmata la scorsa estate dai Rettori di numerose Università italiane, dal Club Alpino Italiano (CAI) e dal CGI, che impegna le istituzioni aderenti a promuovere la formazione e la ricerca sul cambiamento climatico in atto, a testimonianza del grande impegno degli scienziati su questo tema”.


I ricercatori sono tornati ad “annusare” le “ultratracce” dell’Antico Egitto. Dopo la campagna di indagini preliminari svolta a luglio di quest’anno, la Tomba di Kha e Merit del Museo Egizio di Torino è stata protagonista di una nuova serie di analisi. La ricerca, appena conclusa, ha riguardato trenta nuovi reperti di circa 3500 anni fa appartenenti al corredo funerario rinvenuto integro nel 1906 che rappresenta uno dei principali tesori della collezione egittologica torinese.


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Da sinistra, le professoresse dell’Università di Pisa Ilaria Degano ed Erika Ribechini al Museo Egizio (Foto di Nicola Dell'Aquila e Federico Taverni - Museo Egizio)

Nel quadro di un progetto di ricerca finanziato dalla regione Toscana e con il supporto dell’azienda SRA, un team di chimici dell’Università di Pisa, in collaborazione con gli archeologi e i curatori del Museo, ha analizzato in modo del tutto non invasivo, senza prelevare alcun campione, il contenuto di trenta ampolle, vasi e anfore. Ad essere “annusati” grazie a questa tecnologia sono i composti volatili rilasciati nell’aria in concentrazioni estremamente basse (ultratracce) dai residui organici presenti nei contenitori al fine di identificarne la natura. I risultati promettenti della prima campagna diagnostica, in corso di pubblicazione, hanno convinto ricercatori e staff del Museo Egizio a estendere lo studio a una più ampia gamma di contenitori che fanno parte della collezione, nonché alcune mummie di prossima esposizione in una sala dedicata.


Anche questa volta l’esame è stato eseguito con uno spettrometro di massa SIFT-MS (Selected Ion Flow Tube-Mass Spectrometry) trasportabile, un macchinario che solitamente è impiegato in ambito medico per quantificare i metaboliti del respiro e che solo recentemente ha dimostrato la sua utilità anche nel campo dei beni culturali per eseguire indagini preservando l’integrità dei reperti. I risultati saranno integrati da analisi effettuate in laboratorio mediante tecniche basate su cromatografia e spettrometria di massa.


Ricercatori Unipi a lavoro al Museo Egizio, in primo piano a destra Jacopo La Nasa (Foto di Nicola Dell'Aquila e Federico Taverni - Museo Egizio)

“Grazie ai promettenti risultati ottenuti durante la prima fase di indagine, che saranno a breve pubblicati su una rivista scientifica internazionale e successivamente presentati al pubblico, abbiamo deciso di effettuare una seconda campagna di misure. L’entusiasmo dello staff del Museo - spiega Ilaria Degano dell’Università di Pisa – e la disponibilità di SRA, che ci ha permesso di impiegare nuovamente la strumentazione, ci ha permesso di ampliare il numero di campioni analizzati tramite questa metodica innovativa”.

L’indagine ha coinvolto il dottor Jacopo La Nasa, la studentessa Camilla Guerrini e le professoresse Francesca Modugno, Erika Ribechini, Ilaria Degano e Maria Perla Colombini dell’Università di Pisa, il dottor Andrea Carretta della SRA Instruments e Valentina Turina, Federica Facchetti, Enrico Ferraris del Museo Egizio di Torino. L’iniziativa rientra nel progetto MOMUS - Spettrometria di Massa SIFT portatile e identificazione di Materiali Organici in ambiente Museale, realizzato con il sostegno della Regione Toscana e di SRA Instruments, cha inoltre ha messo a disposizione lo spettrometro di massa e la sua esperienza nella gestione dell’esperimento.




carducci.jpgGli studenti universitari che hanno una più bassa alfabetizzazione sanitaria funzionale hanno anche una minore percezione dei rischi ambientali per la salute. La notizia, che per la prima volta associa queste due variabili, arriva da una indagine coordinata dalla professoressa Annalaura Carducci (foto) dell’Università di Pisa. La ricerca, svolta dal gruppo di lavoro “salute e ambiente” della Società Italiana di Igiene, è stata pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment.

Fra novembre 2017 e gennaio 2018, i ricercatori hanno intervistato 4778 studenti dei corsi di laurea scientifico-sanitari e umanistico-sociali tra i 18 e i 25 anni (65% donne e 35% uomini) provenienti da 15 atenei italiani (Pisa, Catania, Chieti, Sassari, Messina, Bari, Modena, Brescia, Torino, Padova, Milano, Napoli, Lecce, Camerino, Firenze). Parallelamente, nello stesso periodo e nelle stesse aree geografiche, i ricercatori hanno anche monitorato quanto pubblicato in tema di ambiente su Twitter e sui quotidiani on line.

“La nostra ricerca evidenzia una criticità della cosiddetta generazione Friday for Future – dice la professoressa Annalaura Carducci - il 44% degli studenti intervistati non è infatti riuscito a riconoscere almeno 9 su 12 parole, sebbene difficili, correlate alla salute, il che è preoccupante considerato che a rispondere è una parte di popolazione di elevato livello culturale. Alla scarsa consapevolezza corrisponde poi una minore percezione dei rischi ambientali, anche quelli legati all’inquinamento, e una minore fiducia nelle istituzioni, sia come fonti di informazione sia come soggetti attivi per la tutela del territorio”.

Dalle risposte ai questionari è emerso che per quanto riguarda i temi ambientali Internet e i social network sono le fonti di informazioni primarie consultate dal 77.7% degli studenti. In generale poi non sono risultate particolari differenze fra gli studenti di materia scientifiche e umanistiche mentre nelle donne è emersa comunque una maggiore sensibilità ambientale e fiducia nelle istituzioni.

“I risultati del nostro studio confermano l’importanza dell’alfabetizzazione sanitaria per creare cittadini più consapevoli – conclude Carducci - assistiamo oggi al dilagare di informazioni distorte se non addirittura false che il cittadino fa fatica a valutare, in questo senso l’alfabetizzazione sanitaria dovrebbe rientrare a pieno titolo nei programmi scolastici, per consentire una migliore comprensione delle relazioni fra ambiente e salute, un tema su cui la sensibilità sta crescendo proprio nella popolazione più giovane e che dovrebbe essere accompagnata da conoscenze scientificamente corrette”.

Insieme alla professoressa Annalaura Carducci, responsabile dell’Osservatorio della Comunicazione Sanitaria del Dipartimento di Biologia, il gruppo dell’Università di Pisa che ha realizzato lo studio comprende Andrea Calamusa, Ileana Federigi, Giacomo Palomba e Marco Verani. Hanno inoltre partecipato all’indagine molti studiosi dei 15 atenei coinvolti nell’indagine e di particolare importanza è risultata la collaborazione con le professoresse Margherita Ferrante e Maria Fiore dell’Università di Catania per la complessa elaborazione dei dati.
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L’ultima campagna archeologica dell’Università di Pisa a Luni nel 2019 ha portato alla luce un tempio della seconda metà del I secolo d.C. nel quartiere di Porta Marina. L’edificio si affaccia proprio sul cardo maximus, la strada principale della città con andamento nord-sud, e sorge su quella che sinora si pensava fosse “soltanto” una domus.

“Lo spazio privato di una domus diventò dunque un’area sacra per gli abitanti del quartiere e, probabilmente, anche per coloro che lavoravano nel vicino porto, dal quale l’edificio doveva essere visibile”, spiega la professoressa Simonetta Menchelli dell’Ateneo pisano, che coordina gli scavi.

 

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L’alto podio su cui venne costruito il tempio è andato completamente perduto ma, considerando le fondazioni dei vani di servizio al di sotto della cella e del pronao, gli archeologi sono riusciti a ricostruire la pianta dell’edificio a cella unica quadrangolare che appare simile a quella di altri templi dell'epoca nella stessa Luni, come ad esempio quello cosiddetto di Diana, o ad Ostia.

“Nella prossima campagna nel 2020, l’obiettivo sarà di portare in luce i resti della scalinata di accesso al tempio, al quale si arrivava appunto dal cardo maximus”, aggiunge la professoressa Menchelli.
Ma non finiscono qui le novità emerse dagli scavi dell’Università di Pisa che hanno riguardato la parte di Luni più vicina al porto, dove negli anni scorsi gli archeologi hanno individuato due domus del II secolo a.C., che nei secoli hanno subito numerose ristrutturazioni, rifacimenti e cambi d’uso.

Nella domus meridionale gli scavi hanno infatti messo in luce parte di un vasto peristilio pavimentato con un conglomerato cementizio marmoreo, nelle cui vicinanze doveva esserci una fontana, e/o delle volte o delle pareti decorate con conchiglie, come si deduce dai numerosi molluschi marini bivalvi ritrovati incastonati nella malta.

“Erano decorazioni comuni nelle domus di prestigio a partire dal I secolo a.C. - dice Simonetta Menchelli - per arricchire le case con elementi naturali connessi con l’ambiente acquatico, ma anche con funzione simbolica, essendo le conchiglie considerate simbolo di prosperità e fecondità”.
Per quanto riguarda la seconda domus più a settentrione, la struttura fu occupata da un impianto per il lavaggio di pellami e tessuti e su questo, alla fine VI secolo d.C., fu costruita una casa, di cui sono stati scavati due ambienti, uno con un focolare al centro, ed un cortile esterno. L’area continuò quindi ad essere occupata sino alla fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo d.C. e i suoi abitanti dovevano avere un elevato tenore di vita, come rivelano le anfore ritrovate che contengono derrate alimentari provenienti da tutto il Mediterraneo (Campania, Tunisia/Algeria, Grecia, Turchia e area siro-palestinese).

Le campagne di scavo a Luni dell’Ateneo pisano sono svolte in regime di concessione da parte della Soprintendenza Archeologica Liguria e in sinergia con il Museo Archeologico Nazionale di Luni ed il Comune di Luni. Partecipano gli studenti dell’Università di Pisa, dell’Istituto Parentucelli Arzelà di Sarzana e del Liceo Costa di La Spezia, coordinati sul campo dal dottore Paolo Sangriso, con i dottori Alberto Cafaro, Stefano Genovesi, Rocco Marcheschi, Silvia Marini, e con la collaborazione del dottore Domingo Belcari.

Alle attività sul campo prende parte il professore Stephen Carmody (Troy University, Alabama, USA) per la classificazione dei materiali paleobotanici che ha recuperato mediante la flottazione degli strati archeologici. Tale studio offrirà dati significativi sull’ambiente naturale lunense, e sulla relativa interazione antropica.

Al progetto partecipano inoltre il professore Adriano Ribolini (DST, UniPi), per le indagini Ground Penetrating Radar volte ad individuare gli edifici sepolti nel settore meridionale della città, per definirne la pianta ed indirizzare i futuri scavi, il professore Vincenzo Palleschi (CNR, Pisa) per la modellazione delle strutture in 3D, ed il dottor Younes Naime (DCFS, UniPi) per lo studio dei reperti archeozoologici.

I risultati della campagna archeologica sono stati presentati in un Open day lo scorso ottobre, che ha visto la partecipazione di oltre 350 visitatori.

 

Fig. 1. L’area di scavo vista da est
Fig. 2. Alcuni dei molluschi inseriti nelle murature
Fig. 3. In primo piano i resti del tempio visti da sud
Fig. 4. L’open day in corso a Luni (12 ottobre 2019)

Una ricerca internazionale coordinata dall’Università di Pisa ha documentato l’effetto delle attività umane sull’ambiente alpino già dall’Età del Ferro, circa 2800 anni fa. Eleonora Regattieri e Giovanni Zanchetta, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano, insieme al loro team hanno analizzato una colata stalagmitica proveniente della Grotta di Rio Martino nelle Alpi occidentali in Piemonte. Questo eccezionale “archivio naturale” ha consentito infatti di studiare l’impatto antropico sull’ambiente alpino negli ultimi 9000 anni. I risultati della ricerca, appena pubblicati sulla rivista Scientific Reports, hanno così collegato l’instaurarsi dell’attività della transumanza stagionale, uno dei tratti della futura economia della zona, con una maggiore vulnerabilità del suolo rispetto alle precipitazioni e alle variazioni climatiche.

 

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Eleonora Regattieri Giovanni Zanchetta nella Grotta di Rio Martino


“Nella regione alpina - spiega Eleonora Regattieri - l’inizio dell’Età del Ferro coincide con lo sviluppo delle tecniche casearie. La possibilità di conservare e trasportare il latte prodotto in estate coincide con l’inizio dell’utilizzo permanente dei siti di alta quota e lo sviluppo della moderna economia alpina, tutte attività che impattano sull’ambiente e soprattutto sul suolo”.

Come emerge dal confronto fra le analisi geologiche e i dati archeologici, nel periodo compreso tra 9800 e i 2800 anni fa, quando la pressione antropica nei siti di alta quota era scarsa, l’erosione del suolo appare legata soprattutto a contrazioni naturali della vegetazione, legate a momenti di riduzione delle precipitazioni. A partire dall’ Età del Ferro, 2800 anni fa, i dati geochimici evidenziano invece un drastico cambiamento nella risposta del suolo, che determina una maggiore erosione in risposta al brusco aumento delle precipitazioni.

“Il record di Rio Martino – spiega Giovanni Zanchetta - suggerisce un profondo e precoce impatto delle attività umane sui naturali processi della cosiddetta ‘Zona Critica’, che nelle Alpi come altrove, è quella “pelle” che riveste il nostro pianeta, dalle acque sotterranee sino all’apice della vegetazione, e che tramite una rete di complesse interazioni tra le diverse componenti biotiche ed abiotiche, determina la disponibilità di risorse che rendono possibile la vita sulla Terra”.

Lo studio delle proprietà geochimiche e magnetiche della concrezione della grotta di Rio Martino ha infatti consentito agli scienziati di collegare le informazioni locali sul suolo e sulla vegetazione ai parametri climatici che agiscono su scala regionale, compreso il regime idrologico.

Giovanni Zanchetta nella Grotta di Rio Martino



“Come sappiamo bene l’attività umana trasforma gli ambienti e l'ecologia terrestre da migliaia di anni, un processo che negli ultimo secoli si è fatto sempre più imponente, fino a cambiare la composizione dell’atmosfera e influenzare il clima stesso del nostro pianeta - conclude Giovanni Zanchetta – Quando tutto questo sia cominciato e con quanta intensità sono domande che come ricercatori ci poniamo, anche nell’ottica di prevedere e mitigare i possibili cambiamenti futuri indotti dall’attività umana”.





È una piccola lente adesiva in materiale siliconico e, se fatta aderire alla camera di uno smartphone, può funzionare come un microscopio ingrandendo fino a 100 volte. Progettata nei laboratori del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell'Università di Pisa, questa lente è il frutto di uno studio realizzato dagli scienziati pisani in collaborazione con l’Università della California S. Diego apparso su Advanced Functional Materials che introduce un deciso cambio di paradigma: i ricercatori hanno sfruttato le proprietà di cristalli fotonici in silicio nanostrutturato, che fungono da filtri ottici, per costruire un dispositivo in cui lente e filtro diventano una cosa sola.

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“Nella nostra società c’è una crescente richiesta di strumenti analitici semplici, rapidi e affidabili, per esempio per valutare rapidamente la presenza di batteri in cibi o su ferite – afferma Giuseppe Barillaro, docente di elettronica al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell'Università di Pisa – Non sempre è possibile farlo in laboratorio con un microscopio, che ha costi elevati ed è difficile da trasportare. Il nostro sistema permette di compiere la stessa operazione ovunque, e al costo di un centesimo. Questo grazie a un cambiamento radicale nel modo di pensare e progettare dispositivi ottici”.

Nei microscopi tradizionali infatti le lenti servono principalmente come elemento di raccolta della luce, che poi viene manipolata grazie a filtri ottici. Questo richiede una progettazione e una lavorazione piuttosto complesse, che si traducono in costi elevati dei dispositivi.

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“Il materiale siliconico che compone la lente - prosegue Barillaro - viene deposto in forma di goccia sul filtro ottico, che ha una particolare nanostrutturazione che ricorda le “ali di una farfalla”. Il filtro, semi-poroso, si integra con il materiale siliconico deposto sopra, e la sua struttura fa in modo che questo assuma spontaneamente forma e funzione di una lente, evitando lavorazioni complesse e semplificando tutto il dispositivo, dal momento che raccolta, filtraggio della luce e ingrandimento avvengono nel medesimo sistema ottico”.

barillaro2 lenteLa lente così ottenuta è autoadesiva, e può trasformare molto semplicemente un comune smartphone in un microscopio a fluorescenza altamente affidabile. Le applicazioni in campo medico sono estremamente rilevanti, sia per la medicina ospedaliera che per quella praticata in paesi, come quelli del sud del mondo, dove il trasporto di apparecchiature è difficile.

“D’ora in poi per le analisi di campioni biologici che necessitano di microscopia cellulare – conclude - sarà sufficiente una lente e un semplice apparecchio di lettura, come può essere uno smartphone, rendendole più facili e meno costose. Il sistema è di particolare interesse specie in quei campi in cui la velocità di analisi, e quindi di azione, diventa cruciale, come il rilevamento della presenza di batteri nelle ferite, un tipo di analisi che con i metodi tradizionali richiede circa 24 ore, con conseguenti ritardi nel trattamento, che si traducono in tempi e costi maggiori. Con il nostro sistema, applicando allo smartphone una lente apposita, è possibile determinare la presenza di batteri direttamente sul posto”.

Thousands of years ago in Mesopotamia letters written on tablets to exchange information of every nature were sent in clay ‘envelopes’. Three large portions of these envelopes, part of a discovery which is exceptional for the number and state of conservation of the artifacts, is the outcome of an archaeological excavation campaign in Iraq carried out by the University of Pisa in collaboration with the University of Siena and the Iraqi University of Al-Qādisiyyah. In particular, the archaeologists found a hundred or so fragments with cuneiform script dating back to the beginning of the 2nd millennium BC, eight of which intact or almost, as well as a rich array of ceramics and more than ninety ‘cretulae’, or rather blocks of clay with seal or string impressions which were used to secure the containers.


The archaeological investigations, which ended in November, were carried out at Tell as-Sadoum in central southern Iraq. The 50 hectare site, east of Najaf, on a branch of the Euphrates river, was identified as being Marad, an ancient city of southern Mesopotamia, whose history can be traced over a long period of time from the protodynastic period (3rd millennium BC) to the Neo-Babylonian Empire (1st millennium BC). In particular, the excavations were centred around a large temple at the top of the main hill and two other areas, one residential and the other a manufacturing district, where most of the cretulae and tablets were found.

“In general, the tablets bear witness to the wealth and the lively economic and administrative life of the ancient city in Mesopotamia and often tell of business transactions as well as administrative and judicial issues,” explains Anacleto D’Agostino, contract professor of Archaeology of the Near East at the University of Pisa, who coordinated the project. “The tablets we found, from the Isin-Larsa and Old Babylonian Periods, which are currently under examination, contain purchase agreements, letters and date formulas and also mention the names of sovereigns as well as references to a few cities.”

“The tablets could also be enclosed in ‘envelopes’, of which we found dozens of fragments,” continues D’Agostino.” The ‘envelopes’ are containers modeled out of thin layers of clay with the subject of the message printed on the surface along with names or images, used to authenticate and guarantee the contents.”

The complexity of the civilization of the era can in fact also be seen by the seals, frequently embossed with semi precious stones. These were often effectively the distinguishing mark and signature of prominent people and officials. The scenes engraved on them reproduce various themes and are often executed with great care and expertise by skilful craftsmen. In the fragmentary impressions brought to light during the excavations and which date back to the 3rd millennium BC, there are, for example, miniature scenes depicting heroes fighting with wild animals and imaginary creatures, enthroned divinities, a lion attacking a gazelle or rampant caprids and an elephant.

“Given the excellent results of this campaign and the importance of the findings,” concludes D’Agostino, “the prospect is to continue the project through 2020 with a new mission in the field.”

The investigations at Tell as-Sadoum are part of a much wider project of excavation, exploration and exchange of competences approved by the State Board of Antiquities and Heritage of Baghdad which include the Universities of Pisa, Siena and Al-Qādisiyyah, codirected by Anacleto D'Agostino (Department of Civilizations and Forms of Knowledge, University of Pisa), Valentina Orsi (Department of History and Cultural Heritage, University of Siena) and Abbas al-Hussainy (Department of Archaeology, University of Al-Qādisiyyah). The 2019 excavation campaign also included Emanuele Taccola from LaDiRe of the Department of Civilizations and Forms of Knowledge, University of Pisa, in charge of topographic photogrammetry, the archaeologist Giacomo Casucci and representatives from the Iraqi SBAH, Waleed Abd al Munaam Yasif and Ghassan Adnan Abbas, as well as young people and labourers from the city of al-Dīwāniyya and the suburb of al-Saniyyeh. The expedition was made possible thanks to the fundamental contribution given by the Fondazione Oriente Mediterraneo.

 

Migliaia di anni fa in Mesopotamia, per scambiarsi in formazioni di ogni tipo, le lettere si scrivevano su tavolette che poi si inviavano in “buste” di argilla. Tre grandi porzioni di queste “buste” sono parte di un eccezionale ritrovamento, per quantità e stato di conservazione dei reperti, portato alla luce durate una campagna di scavi in Iraq condotta dall’Università di Pisa in collaborazione con l’ateneo di Siena e quello iracheno di al-Qādisiyyah. In particolare gli archeologi hanno trovato un centinaio di frammenti con testi cuneiformi databili all'inizio del II millennio a.C. (fra cui ben otto tavolette intere o quasi) oltre a un ricco repertorio ceramico e a più di novanta “cretule”, cioè blocchetti di argilla con impronte di sigillo o corda applicate a chiusura di contenitori.


Le indagini archeologiche concluse a novembre hanno riguardato Tell as-Sadoum nell’Iraq centro-meridionale. Il sito di 50 ettari, a est di Najaf, su un ramo del fiume Eufrate è stato identificato con Marad, una antica città della Mesopotamia meridionale, la cui storia copre un lungo arco cronologico che va dal Protodinastico (III millennio a.C.) al Neobabilonese (I millennio a.C). In particolare gli scavi hanno riguardato un grande tempio sulla sommità della collina principale e due quartieri, uno residenziale e l'altro produttivo dove sono state rinvenute gran parte dei testi e delle cretule.

“In generale le tavolette testimoniano la ricchezza e vivacità della vita economica e amministrativa delle antiche città della Mesopotamia e ci parlano spesso di transazioni contabili, questioni amministrative e giuridiche – spiega il dottor Anacleto D'Agostino, docente di Archeologia del Vicino Oriente all’Università di Pisa che ha coordinato il progetto – quelle che abbiamo trovato, di epoca Isin-Larsa/antico-paleobabilonese e che sono in corso di studio, contengono contratti di compravendita e lettere, e menzionano i nomi di sovrani, formule di datazione e forse il riferimento ad alcune città”.

“Le tavolette inoltre potevano essere inglobate in “buste”, noi ne abbiamo ritrovate decine di frammenti – continua D'Agostino – cioè dei contenitori in strati sottili di argilla sulla cui superficie esterna era impresso l'argomento delle missive mentre l’impronta dei sigilli, con nominativi o immagini, serviva a vidimare il contenuto e ne garantiva l'autenticità”.

La complessità della civiltà dell’epoca è testimoniata infatti anche dai sigilli, spesso realizzati in pietre semipreziose, di fatto dei contrassegni univoci con cui personaggi importanti e funzionari si firmavano. Le scene che vi sono intagliate riproducono vari temi e sono spesso eseguite con grande attenzione e perizia da abili artigiani. Nelle impronte frammentarie ritrovate durante gli scavi, che datano probabilmente al III millennio a.C., ci sono ad esempio scene in miniatura che rappresentano eroi in lotta con animali selvatici ed esseri fantastici, divinità in trono, un leone che aggredisce una gazzella o capridi rampanti e un elefante.

“Visti gli ottimi risultati di questa campagna e l'importanza dei ritrovamenti – conclude D'Agostino - la prospettiva è di continuare il progetto con una nuova missione sul campo anche nel 2020”.


Le ricerche a Tell as-Sadoum sono parte di un progetto più ampio di scavo, ricognizione e scambio di competenze approvato dallo State Board of Antiquities and Heritage di Baghdad che vede coinvolte le Università di Pisa, Siena e Al-Qādisiyyah, condiretto da Anacleto D'Agostino (Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, Università di Pisa), Valentina Orsi (Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali, Università di Siena) e Abbas al-Hussainy (Dipartimento di Archeologia, Università di Al-Qādisiyyah). Alla campagna di scavi 2019 hanno preso parte come responsabile del rilievo topografico e fotogrammetrico il dottor Emanuele Taccola del Laboratorio di Disegno e Restauro del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, Università di Pisa, l'archeologo Giacomo Casucci e i rappresentanti dello SBAH iracheno Waleed Abd al Munaam Yasif e Ghassan Adnan Abbas, oltre ai ragazzi e agli operai della città di al-Dīwāniyya e del sobborgo di al-Saniyyeh. La spedizione è stata resa possibile grazie al fondamentale contributo della Fondazione Oriente Mediterraneo.

Siamo abituati a pensare che l’udito riporti fedelmente quello che succede intorno a noi, facendoci associare quello che sentiamo agli stimoli che i nostri sensi ricevono in quel momento. Uno studio appena pubblicato sulla rivista “Current Biology”, risultato di una collaborazione internazionale tra le università di Pisa, Firenze e Sydney, dimostra invece che la nostra percezione dei suoni è condizionata dall’eco dei suoni del passato recente.

«Molte delle nostre percezioni sono di fatto allucinazioni predittive, sono cioè attività nervose sollecitate da stimoli precedenti che condizionano la percezione di quelli successivi, proprio come l’eco di un suono che, riverberando, si combina con i suoni seguenti, modificandoli – spiega Tam Ho, giovane post-doc all’Università di Pisa e prima autrice dell’articolo –. Questi processi non sono di natura cognitiva: la predizione altera l’analisi anche di segnali sensoriali molto semplici e la loro selettività suggerisce che l’interazione avvenga nelle cortecce sensoriali».

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Da sinistra Concetta Morrone, Hao Tam Ho, David C.Burr

Il team di ricercatori ha iniziato a fare luce su alcuni meccanismi alla base di questa percezione predittiva, dimostrando che i segnali predittivi sono estremamente selettivi e non costanti nel tempo. I ricercatori hanno dimostrato che la capacità di localizzare la provenienza di un suono (da destra o da sinistra) è condizionata dallo stimolo precedente. «Questo condizionamento si protrae per molti secondi se non intervengono ulteriori stimoli sensoriali – spiega la professoressa Maria Concetta Morrone dell’Università di Pisa, tra gli autori dello studio – La traccia di memoria degli stimoli precedenti si riaccende e riverbera ogni volta che si ripresenta uno stimolo che proviene dalla stessa posizione nello spazio».

Quindi la modulazione predittiva è ritmica e pulsa a un ritmo di 9 “battiti” al secondo. Questa frequenza, detta ritmo alfa, è una delle frequenze predominanti delle oscillazioni neuronali endogene che il cervello genera continuamente ed è affascinante pensare che questo ritmo trasporti informazioni predittive e selettive.

Sebbene i ricercatori in queste ricerche abbiano studiato l’udito, ritenengono che gli stessi principi siano validi per tutti gli altri sensi. “La percezione è un fenomeno attivo - chiarisce David Burr, autore corresponding dell’articolo e titolare del grant dell’European Research Council che ha finanziato la ricerca -: la previsione di quello che dovrebbe essere lo stimolo in arrivo può dominare la percezione e perfino annullare completamente la nuova informazione sensoriale”.

Il team di ricercatori in passato ha dimostrato che l’abilità di predire lo stimolo in arrivo è minore nei soggetti affetti da autismo o con tratti di personalità autistici. “I risultati dello studio potranno avere rilevanza anche per la comprensione di alcune patologie - conclude Burr -. La sfida sarà capire se questa ridotta abilità predittiva sia associata a un’alterazione dei meccanismi di riverberazione della traccia di memoria degli stimoli appena estinti”.

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