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Nell’immaginario collettivo è l’idea che tecnologie sviluppate dalla fisica della materia nella sua forma condensata, siano associate a dispositivi miniaturizzati, concepiti per facilitare la nostra vita quotidiana, come quelli usati per scrivere e forse leggere questo pezzo, una versione evoluta degli utensili inventati nell’età del ferro. Ma è possibile che tecnologie quantistiche possano contribuire a rispondere anche a domande fondamentali sull’Universo?

A rafforzare una risposta positiva a questa inattesa domanda, è uno studio teorico finalizzato alla messa a punto di una nuova classe di dispositivi per misure di precisione estremamente sofisticate, interferometri atomici che usano stati quantistici della materia come strumenti per verifiche della relatività generale e dunque di larga parte della nostra attuale comprensione del funzionamento dell’Universo. Di questo studio sono autori Marilù Chiofalo, professoressa di Fisica della materia all’Università di Pisa, e Leonardo Lucchesi, che ne ha fatto l’oggetto della sua tesi di laurea magistrale con la supervisione della stessa Chiofalo, e oggi dottorando dell’Università di Pisa. Lo studio è stato pubblicato il 9 agosto scorso sulla rivista “Physical Review Letters” della American Physical Society con il titolo “Many-Body Entanglement in Short-Range Interacting Fermi Gases for Metrology”.

 

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Al centro della ricerca “made in Pisa” sono i fermioni, le particelle quantistiche così chiamate in onore di Enrico Fermi. Come tutte le particelle quantistiche, a ogni fermione è associata un’onda di probabilità di essere in un certo spazio ad un dato tempo, e due di loro possono essere preparati in modo da continuare a condividere determinate caratteristiche anche se allontanati a grande distanza, come se le loro onde di probabilità fossero irrimediabilmente aggrovigliate tra loro, una proprietà che viene chiamata entanglement: è come se, lanciando due dadi, l’uscita di un numero sul primo dado garantisca l’uscita dello stesso numero sull’altro.

Nello studio, questo concetto è esteso ad un insieme di moltissimi atomi di natura fermionica: “Usando la duplice natura delle correlazioni tra atomi - spiega Marilù Chiofalo- legata alle caratteristiche quantistiche e alle forze con cui interagiscono tra loro, è come se le onde di probabilità dei molti atomi entangled formassero un ciuffo di capelli non pettinato per anni. Paradossalmente, mentre l’entanglement potenzia le caratteristiche quantistiche e dunque probabilistiche dello stato (tanto che non sappiamo come sia fatto), sappiamo però che ne riduce l’incertezza al livello utile per un interferometro atomico: la misteriosa bellezza della fisica quantistica!».

Il lavoro di Lucchesi e Chiofalo si inserisce nell’ambito della fiorente attività di ricerca mirata a migliorare le prestazioni di dispositivi quantistici di misura, attirando vivo interesse in una comunità dove si incrociano tante fisiche: informatica quantistica, interazioni fondamentali, cosmologia, fisica della materia: «In questo scenario, il nostro studio trasmette due messaggi cruciali – aggiunge Leonardo Lucchesi – A differenza di studi precedenti, dimostriamo che il far interagire gli atomi anche a cortissima distanza, riesce a potenziare le proprietà di entanglement: lo stato con migliori prestazioni si è infatti dimostrato un grappolo “molto aggrovigliato” di atomi, nella forma di gocce quantistiche. Inoltre, stabiliamo un metodo non convenzionale per caratterizzare le fasi quantistiche di un sistema di molti atomi, basato proprio sull’informazione relativa al loro contenuto di entanglement, di fatto estendendo il concetto di informazione quantistica di Fisher, - nato nell’informatica quantistica - alla descrizione di come gli atomi si ordinano a costituire la materia, un concetto al cuore della fisica della materia nella sua forma condensata».

«La storia continua – aggiunge Chiofalo. È necessario concepire un protocollo operativo per l’interferometro e controllare la fragilità dello stato mentre interagisce inevitabilmente con l’ambiente esterno, aspetti che stiamo indagando in una collaborazione internazionale. Il nostro studio, nell’ambito della ricerca MAGIA-Advanced finanziata dall’INFN, è nel solco della proposta Atomic Experiment for Dark Matter and Gravity Exploration in Space (AEDGE), alla quale abbiamo contribuito con decine di colleghi e colleghe, e appena sottomessa all’Agenzia Spaziale Europea in risposta alla Call for White Papers per il piano Voyage 2050. L’idea di AEDGE è concepire esperimenti di interferometria atomica, complementari a VIRGO-LIGO o esperimenti di alte energie, per indagare problemi aperti di cosmologia e interazioni fondamentali: per rilevare materia oscura, onde gravitazionali, o ancora per verificare se particelle con masse differenti cadano in gravità con la stessa accelerazione, un test realizzato ingegnosamente per primo da Galileo con il pendolo, e che oggi mira a precisioni da mille a un milione di volte superiori.»


Queste nuove frontiere della ricerca saranno al centro della prossima Conferenza internazionaleQuantum gases, fundamental interactions, and cosmology” (QFC), che dal 23 al 25 ottobre radunerà a Pisa da tutto il mondo autorevoli scienziate e scienziati, che metteranno insieme in modo fecondo le loro energie provenendo da discipline diverse, per far nascere nuove idee.

La pubblicazione dell’articolo sulla prestigiosa rivista internazionale è un’ulteriore testimonianza dell’eccellenza delle ricerche portate avanti all’Università di Pisa, un Ateneo con oltre 50.000 iscritti dove studenti brillanti come Leonardo Lucchesi – 25 anni, originario di Viareggio – riescono a sviluppare le loro idee in tesi di laurea che poi diventano apripista per studi di frontiera.

The beluga or white whale (Delphinapterus leucas) and the narwhal (Monodon monoceros) are two fascinating cetaceans that live exclusively in the cold Arctic waters, never departing from them, being the only extant relatives of the Monodontidae family. Nowadays, it is impossible to see these whales in the warm Mediterranean waters and even more absurd - so it was thought - that they could have lived in this sea at the beginning of the Pliocene, when the climate of the Mediterranean area was tropical. In turn, it happened. In Arcille, a small village near Grosseto (Tuscany, Italy), in a sand quarry, the fossil skull of a monodontid of about 5 million years ago was discovered. It was named Casatia thermophila. "Casatia" is a tribute to Simone Casati, discoverer of many important fossils of Tuscany (and, in particular, of the Arcille quarry), whereas "thermophila" means "lover of heat", to emphasize that this cetacean lived in tropical waters.

 

 

 

The study, just published in the international Journal of Vertebrate Paleontology, was made by Giovanni Bianucci and Alberto Collareta, paleontologists from the Department of Earth Sciences of the University of Pisa, alongside with Fabio Pesci and Chiara Tinelli, who took part in the study in the framework of their thesis activities , respectively of master's degree and doctorate. The discovery occurred during a paleontological excavation that also involved the Superintendence for the Archaeological Heritage of Tuscany, the Natural History Museum of the University of Pisa, and the GAMPS geopaleontological group (of which Simone Casati is president). The fossil is now exhibited in the recently renovated Cetacean Gallery of the Natural History Museum of Pisa.

"While a great deal is known about monodontid biology - explains Giovanni Bianucci - thanks to the research carried out on living belugas and narwhals by scientists from all over the world, very little is known about the evolution of these cetaceans, because their fossil record is extremely scarce. In fact, until now only three extinct species of monodontids were known, each of them was described on the basis of a single fossil skull. Therefore, the skull that we found in Arcille is of extraordinary importance not only because it is the first of monodontid discovered in the Mediterranean area, but also because it allowed us to describe the fourth fossil species of Monodontidae worldwide ”.

"But the scientific importance of this discovery - continues Bianucci - goes beyond the rarity of the discovery. The exceptional nature of the finding lies in the fact that, apparently, this fossil was found "out of place", i.e. in an area of our planet where we never expected to find it. The reason beyond the absence of monodontids from the present-day Mediterranean is very simple: the waters are too warm and not suitable for cetaceans that have chosen the North Pole as their "home" and that never go beyond the Arctic Ocean. However, the most incredible aspect of this discovery relies in the fact that, about five million years ago, the Mediterranean was even warmer than now, with temperatures close to the tropical ones ”.

"The fact that the Mediterranean was a warm sea during the lower Pliocene has been known for some time - says Alberto Collareta - but other extraordinary fossils that we found in the quarry of Arcille support the hypothesis that Casatia thermophila swam together with marine animals of tropical waters, such as the fearsome Zambesi shark (Carcharhinus leucas), the voracious tiger shark (Galeocerdo cuvier) and the enormous marlin (Makaira nigricans)", all forms now absent from the Mediterranean.

“During monitoring of the Arcille quarry - adds Chiara Tinelli - we also recovered numerous sirenian skeletons referred to the fossil species Metaxytherium subapenninum, an ancestor of the dugong, a marine mammal that inhabits tropical coastal waters ”.

"Overall - Collareta continues - this fossil assemblage is indicative of a frankly tropical paleoenvironment, without analogues in the extant Mediterranean Sea. The discovery of Casatia thermophila within a similar paleoenvironment represents therefore the definitive confirmation that the narwhal and the beluga derive from forms of warm, tropical seas. It is probable that the two extant species of monodontids have evolved their extraordinary adaptations to cold waters in a very recent time, during the Quaternary (from about 2.6 million years ago to today), when the northern hemisphere was affected by repeated glaciations and a trend of progressive climatic degradation".

"Studying the Arcille monodontid was really an important and formative experience for me" - says Fabio Pesci - Morphometric study and phylogenetic analysis were quite complex, at least for a student who experimented himself for the very first time in a research of this type. But it was exciting to find the data to support the fact that this fossil belonged to a monodontid species new to science ".

"The research we conducted in the Arcille quarry - concludes Bianucci - allowed us to discover only a small part of the extraordinary fossil heritage that is hidden in the Tuscan territory. The Tuscan hills represent, in fact, one of the areas with the highest concentration of fossils of marine vertebrates in the world. During the Pliocene, a large part of the Tuscan territory was submerged by a sea populated by a great variety of organisms. The deep geological and climatic changes that have occurred since then have reshaped the

the territory, making it a true "open-air mine" full of clues that, if properly interpreted, can reveal many other unexpected aspects of the marine fauna of the past ".

Il beluga (Delphinapterus leucas) e il narvalo (Monodon monoceros) sono due affascinanti cetacei che vivono esclusivamente nelle gelide acque artiche, senza mai allontanarsene, e sono gli unici rappresentanti attuali della famiglia dei Monodontidi.

Oggi è impossibile vederli nelle calde acque del Mediterraneo e ancora più assurdo - almeno così si pensava - che potessero essere vissuti in questo mare all’inizio del Pliocene, quando il nostro clima era tropicale. Invece è successo. Ad Arcille, vicino a Grosseto, in una cava di sabbia è stato scoperto il cranio fossile di un monodontide di circa 5 milioni di anni fa. Gli è stato dato il nome di Casatia thermophila. ‘Casatia’ è un omaggio a Simone Casati, scopritore di molti importanti fossili della Toscana e in particolare della cava di Arcille, e ‘thermophila’ significa ‘amante del caldo’ per sottolineare che questo cetaceo viveva in acque tropicali.

 

Lo studio, appena pubblicato nella rivista internazionale “Journal of Vertebrate Paleontology”, è stato condotto da Giovanni Bianucci e Alberto Collareta, paleontologi del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, oltre a Fabio Pesci e Chiara Tinelli nell’ambito delle loro attività di tesi, rispettivamente di laurea magistrale e di dottorato. La scoperta è stata fatta durante uno scavo paleontologico che ha coinvolto anche la Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana, il Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa e il Gruppo geopaleontologico GAMPS, di cui Simone Casati è presidente. Il fossile è ora esposto nella Galleria dei Cetacei, recentemente rinnovata, del Museo di Storia Naturale di Pisa.

“Mentre sulla biologia dei monodontidi si sa moltissimo – spiega Giovanni Bianucci - grazie alle ricerche che vengono fatte sui beluga e i narvali da scienziati di tutto il mondo, pochissimo si sa sull’evoluzione di questi cetacei perché le testimonianze fossili sono estremamente scarse. Infatti, fino ad oggi si conoscevano soltanto tre specie estinte di monodontidi, ciascuna di essa descritta su un unico cranio fossile. Pertanto il cranio che abbiamo trovato ad Arcille è di straordinaria importanza non solo perché si tratta del primo di monodontide scoperto nell’area Mediterranea, ma anche perché ci ha permesso di descrivere la quarta specie fossile al mondo di questa famiglia”.

“Ma l’importanza scientifica di questa scoperta – continua Bianucci - va oltre la rarità del ritrovamento. L’eccezionalità del reperto sta nel fatto che, apparentemente, questo fossile è stato trovato ‘fuori posto’, cioè in un’area del nostro pianeta dove non ci saremmo mai aspettati di trovarlo. Se oggi i monodontidi non vivono nel Mediterraneo il motivo è molto semplice: le acque sono troppo calde e non adatte per dei cetacei che hanno scelto il Polo Nord come loro “casa” e che non si spingono mai oltre l’oceano glaciale artico. Ma l’aspetto ancora più incredibile è che circa cinque milioni di anni fa il Mediterraneo era addirittura più caldo di adesso, con temperature vicine a quelle tropicali”.

“Che durante il Pliocene inferiore il Mediterraneo fosse un mare caldo si sapeva da tempo - afferma Alberto Collareta – ma altri fossili straordinari che abbiamo trovato nella cava di Arcille supportano il fatto che Casatia thermophila nuotava insieme ad animali marini di acque tropicali, come ad esempio il temibile squalo zambesi (Carcharhinus leucas), il vorace squalo tigre (Galeocerdo cuvier) e l’enorme marlin (Makaira nigricans)”, tutte forme oggi assenti dal Mediterraneo”.

"Durante il monitoraggio della cava di Arcille – aggiunge Chiara Tinelli – abbiamo recuperato anche numerosi scheletri di Sirenii riferiti alla specie fossile Metaxytherium subapenninum, un antenato del dugongo, mammifero marino che abita le acque costiere tropicali”.

“Nel complesso - riprende Collareta - questa comunità fossile è indicativa di un paleoambiente schiettamente tropicale, privo di analoghi nel Mediterraneo attuale. Il rinvenimento di Casatia thermophila all'interno di un simile paleoambiente rappresenta dunque la conferma definitiva che il narvalo e il beluga derivano da forme di mare caldo tropicale. E' probabile che le due specie attuali di monodontidi abbiano evoluto i loro straordinari adattamenti alle acque fredde in tempi geologicamente molto recenti, durante il Quaternario (da circa 2,6 milioni di anni fa ad oggi), quando l'emisfero settentrionale fu interessato da ripetute glaciazioni e da un trend di progressivo irrigidimento climatico”.

“Per me è stata un’esperienza veramente importante e formativa.” – afferma Fabio Pesci - Lo studio morfometrico e l’analisi filogenetica sono stati abbastanza complessi, per uno studente che si cimentava per la prima volta in una ricerca di questo tipo. Ma è stato entusiasmante trovare i dati a supporto del fatto che questo fossile apparteneva ad una specie nuova per la scienza”.

“Le ricerche che abbiamo condotto nella cava di Arcille – conclude Bianucci – ci hanno permesso di scoprire solo una piccola parte dei reperti fossili straordinari che si nascondono nel territorio toscano. Le colline toscane rappresentano, infatti, una delle aree con maggiore concentrazione di fossili di vertebrati marini a livello mondiale. Durante il Pliocene buona parte del territorio toscano era sommerso da un mare popolato da una grande varietà di organismi. I profondi mutamenti geologici e climatici intercorsi da allora hanno rimodellato il territorio, rendendolo una vera ‘miniera a cielo aperto’ ricca di indizi che, se debitamente interpretati, possono svelare molti altri aspetti inattesi della fauna marina del passato”.

 

Un team di microbiologhe del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa, in collaborazione con colleghi delle Università delle Marche, di Torino e dell’Istituto Zooprofilattico dell’Umbria e delle Marche, ha sequenziato per la prima volta a livello mondiale il DNA delle popolazioni di lieviti e batteri caratteristici dell’hákarl, lo squalo fermentato, alimento tradizionale della cucina islandese.

“Il processo di fermentazione promosso dai lieviti e batteri nativi – spiega Monica Agnolucci docente dell'Università di Pisa - trasforma i filetti dello squalo Somntosus microcephalus, originario delle acque prospicienti le coste della Groenlandia e dell'Islanda, nel Nordatlantico, nell’ hákarl, una prelibatezza della cucina nordica derivante dalle tradizioni vichinghe”.

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Lo squalo fermentato tipico della cucina islandese

 

L’hákarl rappresenta uno dei tipi di pesce fermentato consumati in tempi antichi in tutta Europa, e popolari anche presso i Romani, che ne ricavavano una salsa speciale chiamata garum. In Islanda e nei paesi nordici l’hákarl rivestiva un ruolo importante nella dieta come fonte di proteine ed energia, ed è ad oggi consumato come prelibatezza tradizionale anche dai turisti. Il prodotto ha una consistenza morbida, un colore biancastro simile al formaggio e un forte sapore di pesce: oggi è spesso servito sotto forma di piccoli cubetti e accompagnato da bicchierini di Brennivín, una bevanda alcolica fermentata tipica.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Food Microbiology, è stato condotto con un approccio multidisciplinare e multimodale, basato sia sulla coltura dei fermenti nativi che su tecniche coltura-indipendenti, utilizzando DNA estratto dai campioni, quali PCR-DGGE e Illumina sequencing.

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A sinistra Monica Angolucci, a destra Manuela Giovannetti

“Mentre il metodo coltura-dipendente ha permesso di determinare il numero reale di fermenti vitali nell’alimento – prosegue Monica Agnolucci – i due metodi basati sul DNA ci hanno fornito un quadro generale della complessa biodiversità microbica tipica dell’hákarl, identificando specie capaci di svolgere un ruolo importante nello sviluppo delle sue qualità sensoriali”.

“Il successo degli studi sugli alimenti e bevande fermentati, condotti da alcuni anni nei nostri laboratori – sottolinea Manuela Giovannetti professoressa dell'Università di Pisa – ci ha stimolato a proseguire con una nuova iniziativa, il Corso di Perfezionamento sui fermentati tradizionali, recentemente riscoperti anche da chef, gastronomi e food writers, per fornire conoscenze sulla loro produzione e sulle loro qualità prebiotiche, probiotiche e salutistiche, che sono il risultato dell’attività dei fermenti, lieviti e batteri lattici e acetici”.

Le altre autrici pisane dello studio, insieme a Monica Agnolucci e Manuela Giovannetti, sono Michela Palla e Caterina Cristani.

E’ on line la ricostruzione 3D della tomba di Khunes, un importante funzionario egiziano vissuto probabilmente al tempo del faraone Teti (2300 a.C. circa). A realizzare il modello immersivo e interattivo della sepoltura è stato Emanuele Taccola del Laboratorio di Disegno e Restauro (LaDiRe) dell’Università di Pisa grazie ai dati raccolti nel corso dell’ultima campagna di scavo a Zawyet Sultan, un sito nel Medio Egitto, sulla sponda orientale del Nilo, poco a sud della moderna città di Minya. Qui è attiva dal 2014 una missione archeologica diretta dai professori Gianluca Miniaci del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa e Richard Bussmann dell’Università di Colonia in Germania.

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Modello 3D della tomba


In questa area, che deve aver avuto un ruolo chiave nell’unificazione dell’Egitto agli albori della sua civiltà, gli archeologi sono impegnati in un’analisi spaziale delle strutture e del paesaggio per esplorare le interconnessioni tra resti che vanno dal 3200 a.C. al 1300 a.C. Si tratta in particolare di una piramide lasciata incompleta (ca. 2600 a.C.) che sorgeva sopra un cimitero di epoca predinastica (ca. 3200 a.C.), di alcune tombe di dignitari scavati nella roccia (ca. 2300 a.C.), fra cui appunto quella di Khunes, di un tempio remesside (ca. 1300 a.C.) e infine di un villaggio del periodo greco-romano.

 

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Emanuele Taccola durante l’attività sul campo


“Il Laboratorio di Disegno e Restauro ha svolto un lavoro fondamentale di mappatura del sito grazie all’uso di un ricevitore GNSS differenziale – spiega Gianluca Miniaci – per la tomba di Khunes inoltre il rilievo è stato eseguito con metodo fotogrammetrico: grazie a questa procedura è stato possibile ottenere accurate informazioni metriche utili alla ricerca archeologica, nonché realizzare un modello 3D nel quale è possibile muoversi virtualmente indossando un visore”.

Sono buoni, fanno bene alla salute e promettono di diventare una nota coloratissima nei nostri piatti. Parliamo dei fiori commestibili che sono al centro di Antea, un progetto di ricerca europeo al quale collabora anche l’Università di Pisa con i dipartimenti di Farmacia e di Scienze Agrarie, alimentari e agroambientali.

L’obiettivo di Antea è quello di sostenere la filiera emergente dei fiori eduli nell’area compresa fra Italia e Francia facendo evolvere la più antica produzione di fiori ornamentali come soluzione alla crisi degli ultimi anni del comparto della floricoltura. Nell’ambito di Antea il compito dei ricercatori dell’Ateneo pisano è quello di analizzare le oltre 40 specie selezionate per il progetto, compresi lo studio della composizione organica e delle caratteristiche organolettiche delle piante, i test allergologici e microbiologici per garantire la innocuità al consumo e infine anche l’individuazione delle tecnologie per la conservazione e il confezionamento delle preparazioni alimentari.

 

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“Le proprietà nutraceutiche dei fiori sono dovute alla presenza di composti salutari per la dieta umana, come i polifenoli, i più importanti con attività antiossidante oltre alla vitamina C e antociani, che sono anche i principali responsabili della colorazione,– spiega Laura Pistelli, docente dell’Ateneo pisano - al momento le nostre analisi stanno riguardando alcune varietà di salvia che hanno fiori (e talvolta anche foglie) che profumano di ananas, pesca o ribes e una specie di geranio dal sapore di limone”.

In particolare, le dottoresse Laura Pistelli e Ilaria Marchioni del dipartimento di Scienze Agrarie, alimentari e agroambientali si occupano delle analisi nutrizionali delle 40 specie, mentre la professoressa Luisa Pistelli e la dottoressa Basma Najar del dipartimento di Farmacia sono impegnate nell’individuazione dei composti volatili che determinano l’aroma dei fiori.


“Da anni i nostri gruppi di ricerca collaborano per valorizzare delle piante aromatiche e medicinali – conclude Laura Pistelli – e lo studio dei fiori eduli è filone di ricerca molto promettente, i fiori sono infatti una fonte alimentare da riscoprire e sempre più utilizzata anche dai grandi chef, dunque è necessario individuare le loro caratteristiche nutrizionali e nutraceutiche affinché possano essere meglio apprezzati dal pubblico”.

Gli agenti patogeni, al pari degli uomini e di ogni altro essere vivente nel nostro pianeta, ‘viaggiano’ arrivando in aree dove prima non erano presenti: individuare tempestivamente questi fenomeni è dunque di cruciale importanza per tutelare la nostra salute. Una recente ricerca italo-canadese ha scoperto la comparsa in Nord America di un nuovo ceppo di un parassita, variante di un ceppo europeo, che sta provocando l'epidemia locale di una malattia sino ad ora riscontrata solo occasionalmente in quel continente. Si tratta dell’Echinococcosi alveolare (AE), una grave patologia causata dal verme piatto Echinococcus multilocularis che è trasmesso agli uomini da alcuni animali selvatici come la volpe e il coyote, o domestici come il cane. Lo studio, coordinato dal professore Alessandro Massolo del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa in collaborazione con le Università di Calgary e dell’Alberta, è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine, la più autorevole e citata rivista al mondo per la medicina.


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“In tutto il Nord America continentale i casi di AE nell’uomo causati da infezioni acquisite localmente erano stati sinora solo due, uno nel 1927 in Canada e uno nel 1977 in USA, mentre gli altri casi rilevati erano pazienti che avevano contratto l’infezione all’estero – spiega il professore Alessandro Massolo dell’Università di Pisa - Il nostro studio, condotto dal 2013 al 2018, ha documentato comparsa di sette nuovi casi nella Provincia dell’Alberta, di cui tre riguardavano pazienti immunosoppressi, una condizione che di solito riduce a pochi mesi o un anno la velocità di manifestazione della patologia, che altrimenti impiega fino a una decina di anni a comparire, rendendo questi pazienti delle ‘sentinelle’ per l’insorgenza di un’epidemia”.

Attualmente in tutto il mondo si registrano ogni anno oltre 18,000 nuovi casi di AE di cui circa 200 solo in Europa. Nell’uomo l’echinococcosi alveolare è una malattia cronica, con esiti fatali in oltre il 90% dei casi se non curata, e del 16% se curata. Il parassita che la provoca esiste in diversi ceppi, e come hanno stabilito gli scienziati attraverso la sua caratterizzazione genetica, quello identificato in Nord America dal gruppo di ricerca del professore Massolo è una variante di quello europeo, notoriamente molto virulento nell’uomo. Questo nuovo ceppo, sempre secondo gli scienziati, sarebbe ormai il più comune nella fauna selvatica in quell’area del Canada (Alberta).

“Almeno cinque dei sette casi di AE ad Alberta sono stati causati da questo ceppo simil-europeo che presenta la mutazione di un gene mitocondriale mai riscontrata prima, il che suggerisce - conclude Massolo - che questo ceppo si sia ormai stabilito in quest’area del Nord America e che probabilmente siamo di fronte ai risultati di un processo recente di invasione parassitaria, con ovvie ricadute di salute pubblica; un’evidenza che dovrà certo indurre cambiamenti di classificazione del rischio per questa grave patologia in Nord America”.

 

Il ‘verde’ delle nostre città? Più è rosso e più è resistente. È questo quanto emerge da uno studio del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista “Frontiers in Plant Science”. Il team dei ricercatori coordinato dalla professoressa Lucia Guidi, direttore del Centro Nutrafood, ha infatti scoperto che le piante a foglie rosse si difendono meglio dagli stress ambientali, come siccità, stress luminoso e salinità, rispetto a quelle a foglie verdi.

 

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Particolare di un nuovo germoglio ancora in attiva crescita durante l'inizio dell'autunno, presente solo in piante a foglia rossa



“Questo maggiore resilienza – spiega Marco Landi ricercatore dell’Università di Pisa – è dovuta alla presenza di antociani, dei pigmenti da cui deriva proprio il rosso delle foglie, che fanno da ‘filtro’ nei confronti dei raggi solari esercitando un’azione fotoprotettiva, soprattutto nei momenti in cui le foglie sono più vulnerabili, cioè quando sono più giovani o senescenti”.

In particolare, l’analisi dei ricercatori si è concentrata su due genotipi di Prunus, a foglie verdi e rosse, dimostrando che queste ultime sopravvivono meglio in condizioni avverse proprio grazie ad una maggiore resistenza delle foglie in tutte le fasi di sviluppo. E così, come conseguenza della presenza di antociani, nel periodo autunnale le piante rosse mantengono le foglie un mese in più circa rispetto quelle verdi.

“Oltre agli aspetti più prettamente scientifici legati alla biosintesi degli antociani – conclude Landi - la ricerca fornisce delle indicazioni utili per selezionare le specie arboree più adatte per l’arredo urbano delle nostre città, un settore nel quale il nostro Dipartimento ha al suo attivo una ventina di anni di attività di ricerca e di didattica, soprattutto nell’ambito della laurea magistrale in Progettazione e gestione del verde urbano e del paesaggio”.

La ricerca pubblicata su “Frontiers in Plant Science” è stata finanziata grazie ad un Progetti di Ricerca di Ateneo (PRA) e i risultati sono stati presentati nel corso del convegno “Il privilegio di essere rossi in condizioni di stress” che si è svolto all’Università di Pisa nel giugno scorso. Gli autori dello studio, insieme a Lucia Guidi e Marco Landi, sono Giacomo Lorenzini, Rossano Massai, Damiano Remorini, Fernando Malorgio, Paolo Vernieri, Tommaso Giordani, Cristina Nali, Elisa Pellegrini, Giovanni Rallo, ed Ermes Lo Piccolo per l’Università di Pisa e Giovanni Agati e Cristiana Giordano del CNR di Firenze.

In questi giorni la tomba di Kha e Merit del Museo Egizio è stata protagonista di un’indagine innovativa, mai eseguita prima d’ora in un museo: la ricerca del “profumo” di una serie di reperti di circa 3500 anni fa e appartenenti al corredo funerario rinvenuto integro nel 1906 che rappresenta uno dei principali tesori della collezione egittologica torinese.

Nel quadro di un progetto europeo di ricerca, un team di chimici dell’Università di Pisa, in collaborazione con gli archeologi e i curatori del Museo, ha analizzato in modo del tutto non invasivo, senza prelevare alcun campione, il contenuto di più di venti vasi. Ad essere “annusati” grazie a questa tecnologia sono i composti volatili rilasciati nell’aria in concentrazioni estremamente basse (ultratracce) dai residui organici presenti nei contenitori al fine di identificarne la natura.

 

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Reperti "imbustati" in attesa di essere analizzati (Foto: Federico Taverni, Museo Egizio)



Delle provviste alimentari contenute in un piatto, per esempio, furono identificate come “verdura finemente triturata e impastata con un condimento” da Ernesto Schiaparelli, che scoprì la tomba intatta di Kha e Merit a Deir el-Medina. Ma finora nessuna analisi ha potuto confermare né smentire tale ipotesi, e una risposta potrebbe ora arrivare dalla spettrometria.

L’esame è stato eseguito con uno spettrometro di massa SIFT-MS (Selected Ion Flow Tube-Mass Spectrometry) trasportabile, un macchinario che solitamente viene impiegato in ambito medico per quantificare i metaboliti del respiro e che solo recentemente ha dimostrato la sua utilità anche nel campo dei beni culturali per eseguire indagini preservando l’integrità dei reperti.

“Per svolgere l’esame sono stati necessari alcuni giorni; infatti nella prima fase abbiamo chiuso ampolle, vasi e anfore in sacchetti a tenuta stagna in modo da concentrare il più possibile le molecole nell’aria - spiega Francesca Modugno dell’Università di Pisa - i dati saranno registrati nell’arco di due giorni, ma risultati delle analisi saranno disponibili tra alcune settimane, considerata la difficoltà della loro interpretazione. Quello che ci aspettiamo di rilevare sono frazioni volatili di oli, resine o cere naturali”.

 

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L'analisi dei reperti con lo spettrometo di massa (Foto: Federico Taverni, Museo Egizio)



“Siamo orgogliosi di collaborare con i partner di questo progetto e di sperimentare nelle nostre sale l’utilizzo di una tecnica così sofisticata - sottolinea il Direttore del Museo Egizio Christian Greco -. La ricerca è il cuore delle nostre attività e sentiamo fortemente il dovere di sostenerla, pur garantendo l’integrità della straordinaria collezione che abbiamo l’onore di custodire”.

L’indagine ha coinvolto il dottor Jacopo La Nasa e le professoresse Francesca Modugno, Erika Ribechini, Ilaria Degano e Maria Perla Colombini dell’Università di Pisa, il dottor Andrea Carretta della SRA Instruments e Federica Facchetti, Enrico Ferraris e Valentina Turina del Museo Egizio. L’iniziativa rientra nel progetto MOMUS - Spettrometria di Massa SIFT portatile e identificazione di Materiali Organici in ambiente Museale, realizzato con il sostegno della Regione Toscana e di SRA Instruments, cha inoltre ha messo a disposizione lo spettrometro di massa e la sua esperienza.

Un team di ricercatori italiani coordinati dal professore Massimo Pasqualetti dell’Università di Pisa ha gettato nuova luce sul funzionamento della fluoxetina meglio conosciuta con il nome commerciale di Prozac®. Questo farmaco è stato introdotto nel mercato statunitense per il trattamento della depressione nel 1988 ma a più di trenta anni di distanza gli scienziati non sanno ancora esattamente spiegare il suo effetto positivo sul tono dell’umore dei pazienti.

Questa nuova ricerca tutta italiana appena pubblicata su “ACS Chemical Neuroscience” ha rivelato per la prima volta che la fluoxetina rimodella e riorganizza le fibre nervose che rilasciano la serotonina nell'ippocampo andando quindi ad agire sulla struttura fisica del cervello.

 

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Grazie alla presenza della proteina fluorescente verde (GFP) sono messe in evidenza le fibre che rilasciano serotonina nell’ippocampo prima (a sinistra) e dopo (a destra) la somministrazione di fluoxetina per 4 settimane



“La fluoxetina è stato il primo farmaco nella classe di composti noti come inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina ad essere approvato dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti, in altre parole si tratta di farmaci che bloccano il riassorbimento della serotonina prodotta dai nostri neuroni – spiega Massimo Pasqualetti – quello che ora abbiamo scoperto è che la fluoxetina modifica anche la densità e il numero delle fibre che rilasciano la serotonina nell’ippocampo, quindi la sua azione non è solo a livello funzionale, ma va ad agire anche su quello che possiamo definire l’hardware del cervello”.

I ricercatori del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa hanno svolto lo studio su un modello murino marcando i neuroni che producono la serotonina del cervello con una proteina fluorescente verde (GFP). Hanno quindi somministrato ad un gruppo la fluoxetina nell’acqua per 28 giorni e confrontato i segnali del marcatore GFP con il gruppo di controllo che non aveva ricevuto il farmaco. Il risultato è che nel gruppo che assumeva la fluoxetina le fibre nervose deputate a rilasciare la serotonina nell’ippocampo, una regione del nostro cervello fortemente coinvolta nella regolazione dell’umore, diventavano meno numerose e più piccole di diametro rispetto a quanto osservato nel gruppo di controllo.


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Da sinistra Serena Nazzi, Massimo Pasqualetti, in alto Giacomo Maddaloni, in basso Marta Pratelli


“Le conseguenze di questo riarrangiamento strutturale del cervello devono ancora essere approfondite – conclude Massimo Pasqualetti – ma certo costituisce un ulteriore tassello per capire come gli antidepressivi esercitano il loro effetto terapeutico”.

Il team di ricerca dell’Università di Pisa guidato dal professore Pasqualetti da si occupa anni di indagare come la serotonina, la cosiddetta molecola della felicità, agisce sul cervello regolandone lo sviluppo ed il funzionamento. Tali ricerche, pubblicate in prestigiose riviste internazionali, costituiscono una base indispensabile per approfondire le nostre conoscenze e per migliorare le cure in disturbi neuropsichiatrici come la depressione. Gli autori dello studio coordinati dal professore Massimo Pasqualetti sono la dottoressa Serena Nazzi, Giacomo Maddaloni (borsista postdoc presso la Harvard Medical School) e Marta Pratelli (borsista postdoc presso l’Università della California, San Diego).

 

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