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PLicausi3_0.jpger rilevare e far fronte alla mancanza di ossigeno (ipossia) l'uomo e le piante utilizzano sensori molecolari sostanzialmente identici tra loro. La scoperta si deve allo studio svolto in collaborazione tra Università di Pisa, Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna, Università di Oxford e pubblicato sulla rivista Science.

Per tradizione le piante sono viste come gli organismi produttori dell’ossigeno presente nell’atmosfera, consumato poi da organismi aerobici fra cui gli animali. In realtà tanto le piante quanto gli animali utilizzano questo elemento per immagazzinare energia in forma chimica attraverso la respirazione cellulare. Pertanto, la scarsità di ossigeno (detta ipossia) influisce in maniera significativa sulla fisiologia e sul metabolismo di queste due forme di vita.

Le piante si trovano in condizioni di ipossia quando sono sommerse, ad esempio in caso di intense precipitazioni o di esondazioni. I tessuti animali, d’altro canto, esibiscono uno stato ipossico in condizioni di intensa attività metabolica, associata per esempio a significativo esercizio muscolare oppure durante la proliferazione cellulare incontrollata, come avviene nei tumori. Entrambi, piante e animali, tuttavia sfruttano gradienti di ossigeno come segnale per guidare processi di sviluppo, ad esempio l’angiogenesi negli animali e la produzione di foglie nelle piante.

Il gruppo di ricerca internazionale, costituito dall’Università di Pisa, dall’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna e dall’università di Oxford ha ora scoperto che questo stesso meccanismo, basato su un enzima che utilizza ossigeno molecolare come substrato, è in grado di governare l’abbondanza e quindi l’attività di regolatori cruciali di una gamma di risposte cellulari.

Confrontando componenti del regno animale e vegetale, e trasferendole dall’uno all’altro, i ricercatori hanno scoperto l’esistenza di un interruttore molecolare, l’enzima ADO, che incorpora ossigeno nell’estremità iniziale di proteine contenenti l’amminoacido cisteina. Questa reazione conduce alla degradazione di tali proteine in condizioni aerobiche, mentre è inibita in ipossia. Pertanto, ADO svolge identica funzione all’enzima di pianta PCO (Plant Cysteine Oxidase), individuato cinque anni fa dalla stessa squadra di ricercatori di Pisa.

“L’ampia conservazione di questo meccanismo – spiega Francesco Licausi (foto a destra), professore associato di fisiologia vegetale all’Università di Pisa - è indicativa della sua rilevanza fisiologica nei due regni. Questa similarità è stupefacente, considerando quanto piante e animali sono distanti da un punto di vista evolutivo, sebbene entrambi rappresentino i vertici evolutivi della vita multicellulare sul nostro pianeta”.

“La scoperta – prosegue Beatrice Giuntoli, ricercatrice dell’Università di Pisa - ha un enorme potenziale applicativo in ambito terapeutico Infatti ADO rappresenta un bersaglio completamente nuovo per il trattamento farmacologico di disturbi tumorali e infiammatori. Fra i target di ADO, abbiamo identificato la proteina RGS4, coinvolta nella segnalazione ormonale, nella neurotrasmissione e nello sviluppo del miocardio, e l’Interleuchina IL-32, una citochina atipica che regola risposte infiammatorie e fattori angiogenici”.

“Le piante e l'uomo hanno necessità di sapere quanto ossigeno respirano e hanno a disposizione – sottolinea Pierdomenico Perata, docente di fisiologia vegetale all’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna – e se il tessuto è carente di ossigeno, sia le piante sia gli animali hanno un'attrezzatura per capire e prendere provvedimenti. In questo nuovo studio – conclude Pierdomenico Perata - abbiamo dimostrato che l'uomo, e probabilmente tutti gli animali, hanno un secondo sistema, aggiuntivo rispetto a Hif1, basato sull'enzima Ado, che è identico a quello delle piante”. Tanto che l'enzima umano, messo al posto di quello delle piante, si è dimostrato capace di sostituirlo.

 

Spesso succede così, i progressi scientifici si ottengono dall’osservazione della natura e dalla comprensione dei meccanismi che ne regolano il funzionamento. Nello studio condotto da un team di ricercatori provenienti dall’Università di Pisa, l'Ecole Polytechnique Fédérale di Lausanne (EPFL) e l’Università di Twente è stato un fiore a ispirare la definizione di un modello matematico che descrive come si generano forze aerodinamiche stabili capaci di garantire voli a lunga traiettoria. Si tratta del tarassaco, noto anche come “dente di leone”, più in particolare del suo seme, che con il vento si separa dalla pianta di origine e vola disperdendosi a lunghe distanze. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Physical Review Fluids” ed è stato selezionato per una “highlight story” sulla rivista “Physics Magazine”, entrambe edite dall’American Physical Society (APS).

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Il seme del tarassaco può essere trasportato dal vento anche per distanze considerevoli grazie al “pappo”, ovvero un ciuffo di filamenti sottilissimi disposti radialmente a formare un ombrello e che agiscono collettivamente come un paracadute per il seme stesso. La caratteristica più curiosa di questo paracadute naturale è il suo essere principalmente “vuoto”. Infatti, se visto da vicino, il pappo è costituito solo dai filamenti che, essendo in un numero dell’ordine di 100 ed essendo sottilissimi e disposti radialmente, lasciano uno spazio vuoto considerevole tra loro.

simone camarri«Il meccanismo di volo del pappo è stato descritto in un articolo recentemente pubblicato su Nature – spiega il professor Simone Camarri, docente del dipartimento di Ingegneria civile e industriale dell’Università di Pisa, tra gli autori del presente studio (nella foto a destra) – Nella nostra ricerca abbiamo proposto un modello matematico che consente di descrivere il comportamento aerodinamico del pappo e, cosa più importante, di studiare la stabilità del suo volo. Il risultato più importante è aver dimostrato che per il diametro e le condizioni di volo tipiche di un pappo, il limite per avere una traiettoria stabile si raggiunge impiegando circa 100 filamenti, e il numero previsto è molto vicino a quanto osservato in natura. Tutto ciò sembra dunque suggerire che, nel suo percorso evolutivo, il pappo abbia raggiunto una condizione ottimale tale da fornire la maggiore resistenza aerodinamica mantenendo contemporaneamente un volo stabile».

Tali principi, spesso cercati in natura, oltre ad avere un interesse fondamentale, costituiscono esempi di come poter realizzare dispositivi artificiali di interesse ingegneristico che siano già vicini a una condizione di ottimo. In questo senso lo studio effettuato sul pappo può dare indicazioni su come poter realizzare dispositivi che generino forze aerodinamiche stabili realizzati tramite strutture per larga parte “vuote”, e dunque con pesi molto ridotti, ovviamente il tutto per dimensioni caratteristiche simili a quelle del seme studiato.

Gli autori dello studio, oltre al professor Simone Camarri, sono il professor François Gallaire (EPFL) e i dottori Francesco Viola, Pier Giuseppe Ledda e Lorenzo Siconolfi, questi ultimi tre laureati a Pisa e oggi afferenti alle università di Losanna e Twente.

Negli ultimi 40 anni l’inverno sulla costa toscana è diventato meno freddo: la temperatura media a gennaio e a febbraio è infatti aumentata di quasi 2 gradi, da circa 8°C a 9.9°C, e se si considera tutta la stagione, da novembre a marzo, l’incremento è stato di 1,6 gradi, da 9.9°C a 11.5°C. Il dato emerge da una ricerca pubblicata sulla rivista “Scientia Horticulture” e condotta dal gruppo di lavoro del professore Rolando Guerriero, oggi in pensione, composto da Raffaella Viti, Rossano Massai e Calogero Iacona del dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-Ambientali dell’Università di Pisa e da Susanna Bartolini dell’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna.

I ricercatori hanno analizzato i dati sulla fioritura di 40 diverse varietà di albicocco coltivate nell’Azienda Sperimentale dell’Ateneo pisano a Venturina (Livorno) per oltre quaranta anni, dal 1973 al 2016. Il periodo di fioritura degli alberi da frutto è infatti strettamente legato alle temperature dei mesi invernali e proprio per questo è uno degli indicatori più utilizzati per gli studi sui cambiamenti climatici. Da questo punto di vista la ricerca pisana è poi un caso unico: a Venturina si trova una delle più importanti collezioni di germoplasma di albicocco di tutto il bacino del Mediterraneo e così è stato possibile osservare la fioritura di più varietà nelle stesse condizioni sperimentali e per un periodo molto lungo.


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Fioritura dell'albicocco


I risultati dello studio hanno mostrato un aumento significativo delle temperature medie mensili del periodo autunno-invernale con incremento più marcato a partire dagli anni '90. In particolare, l'escursione termica media giornaliera, cioè la differenza fra la temperatura massima diurna e la minima notturna, è diminuita di quasi 1 grado e mezzo passando da 10.1°C degli anni '70-'80 a 8.8°C del 2013-2016. Un calo drammaticamente significativo c’è stato poi anche per le Unità di Freddo, cioè le ore con una temperatura inferiore ai 7 °C che servono alle piante per il superamento della dormienza delle gemme a fiore, che sono passate da circa 1.300 negli anni '70-'80 a 800 nel 2012-2016.


“Dal punto di vista delle coltivazioni, si tratta di cambiamenti climatici che incidono negativamente sui principali processi biologici stagionali causando spesso produzioni irregolari e, di conseguenza, significative riduzioni della produttività dei frutteti – spiega Rossano Massai - La maggior parte delle varietà esaminate, appartenenti sia al germoplasma italiano che straniero, opportunamente raggruppate in funzione della diversa epoca di fioritura, ha mostrato negli anni importanti ritardi nell’epoca di fioritura e rilevanti riduzioni dell’intensità della fioritura”.

Un mancato o insufficiente superamento della dormienza influisce infatti negativamente sulla schiusura delle gemme e, di conseguenza, sull’epoca e sulla abbondanza della fioritura. Come risultato negli ultimi 40 anni, l'abbondanza della fioritura (cioè il numero di fiori per cm di ramo ed espressa con un indice da 1, scarsa, a 5, molto abbondante) si è quasi dimezzata rispetto al passato soprattutto per le varietà a fioritura precoce, passando da un valore medio di 3.7 negli anni '70 a poco più di 2 nel periodo 2010-16.

“Il quadro complessivo che emerge dalla ricerca lascia ipotizzare un cambiamento di scenario con uno spostamento più a nord della coltura – conclude Susanna Bartolini – se in passato nell’area della Maremma Toscana si potevano ottenere produzioni interessanti e economicamente sostenibili anche con varietà a fioritura più tardiva ora appare più opportuno orientarsi verso varietà a basso fabbisogno in freddo e adatte a climi caldi o semiaridi; inoltre il calo complessivo della produttività potrebbe portare ad una forte limitazione all’approvvigionamento locale di frutta e alla necessità di importazione dall’esterno del fabbisogno”. Questa ricerca diviene quindi importante proprio nell’ottica del contenimento delle conseguenze negative dovute all’impatto del cambiamento climatico, garantendo il mantenimento della produttività del frutteto.

È chiamata “editing genomico” la tecnica del “taglia e cuci” del DNA che promette di cancellare mutazioni dannose alla base di malattie genetiche ed, eventualmente, riscrivere quelle benefiche. Questa tecnica è al centro di un progetto di ricerca coordinato dall’Università di Pisa che ha appena ricevuto dall’Europa un finanziamento complessivo di 3 milioni di euro, di cui oltre 1 milione destinato all’Ateneo pisano.

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Il team della Prof. Raffa, Dipartimento di Biologia. Da destra: Dott.ssa Patrizia Colucci, Dott.ssa Martina Giannaccini, Dott.ssa Chiara Gabellini, Dott.ssa Alice Usai, Francesca Ragazzo, Ida Montesanti, Prof. Luciana Dente, Gabriele Picchi, Dott.ssa Sara De Vincentiis, Dott. Alessandro Falconieri, Dott.ssa Elena Landi, Vincenzo Scribano. Al centro Prof. Vittoria Raffa.

“L’obiettivo del progetto I-GENE è quello di sviluppare una tecnologia che consenta il riconoscimento di un unico bersaglio genomico nei 3 miliardi di coppie di basi del genoma umano – spiega la professoressa Vittoria Raffa del dipartimento di Biologia, coordinatrice del progetto – infatti, nonostante le enormi potenzialità, l’attuale utilizzo degli enzimi per l’editing genomico solleva problemi legati alla sicurezza e al concreto rischio di tagli al DNA non desiderati e quindi potenzialmente nocivi. Le recenti scoperte nel campo della nanomedicina e della biologia sintetica potrebbero rendere sicure le applicazioni in precedenza impraticabili di editing genomico”.

La tecnologia proposta vorrebbe implementare un concetto di porta logica AND multi-input, in cui l'output (l’editing del gene target) avviene se e solo se più input sono simultaneamente veri, consentendo il raggiungimento del livello di sicurezza necessario per applicazioni biotecnologiche e terapeutiche dell’editing del genoma.

“Come caso studio applicheremo questo concetto nell’eliminazione selettiva di cellule di melanoma in vitro e in vivo” spiega il Prof Mauro Pistello, alla guida del team di Medicina Traslazionale e Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana (AOUP) che agirà come Partner di progetto. Il progetto vedrà anche il contributo dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT, Genova), guidato dal dottor Francesco Tantussi.

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Il team del Prof Mauro Pistello, Medicina Traslazionale e Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana (AOUP). Da sinistra: Prof Mauro Pistello, Dott.ssa Paola Quaranta, Prof Giulia Freer, Dott. Michele Lai.

Insieme ai partner accademici, nell’impresa sono coinvolte le tre industrie Prochimia Surfaces (Polonia), Lionix (Olanda) e Msquared (Regno Unito) che supporteranno lo sviluppo tecnologico e lo sfruttamento industriale dei risultati. Il progetto, la cui stesura è stata supportata dalle competenze dell’Ufficio Ricerca del nostro Ateneo, si inserisce nel prestigioso schema di finanziamento “Horizon 2020, Excellent Science, Future and Emerging Technologies (FET)” il cui obiettivo specifico è promuovere tecnologie radicalmente nuove per mezzo dell'esplorazione di idee innovative e ad alto rischio fondate su basi scientifiche.

 

 

È nato ufficialmente il 1 luglio a Milano l’Istituto di Robotica e Macchine Intelligenti (I-RIM) che riunisce tutti gli attori e scienziati italiani del settore, dalla ricerca più visionaria all’industria più aperta alle tecnologie avanzate. Il suo presidente neoeletto è il professore Antonio Bicchi dell’Università di Pisa e dell’IIT. I-RIM è un’associazione nazionale no-profit che vuole promuovere lo sviluppo e l’uso delle Tecnologie dell’Interazione per il benessere dei cittadini e della società.

“Il motto del nostro neonato istituto è Diamo corpo all’Intelligenza Artificiale – dice Antonio Bicchi – Le Tecnologie dell’Interazione (IAT) si concentrano infatti su quegli aspetti della Intelligenza Artificiale che hanno a che fare con il mondo fisico e su come modificarne il comportamento. Sono quindi complementari alle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT), che si occupano principalmente di raccogliere, trasmettere e analizzare dati.”

 

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Il professore Antonio Bicchi

 

Alcuni campi in cui le Tecnologie dell’Interazione sono indispensabili sono ad esempio l’ausilio fisico alle persone anziane o disabili, la riduzione dei pericoli e della fatica nel lavoro, il miglioramento dei processi di produzione di beni materiali e la loro sostenibilità, la sicurezza, l’efficienza e la riduzione dell’impatto ambientale del trasporto delle persone e dei beni, il progresso delle tecniche diagnostiche e chirurgiche.

I-RIM verrà presentato al pubblico in un grande appuntamento di tre giorni che si svolgerà nei padiglioni 9 e 10 della Fiera di Roma, dal 18 al 20 ottobre 2019. Il calendario è ricchissimo di incontri per gli associati, ma aperti anche a tutti gli interessati. La tre giorni è organizzata in coincidenza e in collaborazione con Maker Faire – The European Edition 2019, la kermesse tecnologica che attira decine di migliaia di fan delle tecnologie. La Tre Giorni e Maker Faire si svolgeranno in parallelo nella Fiera di Roma.

 

La rucola aiuta a combattere l’ipertensione e le malattie cardiovascolari grazie ad un principio attivo in grado di abbassare la pressione arteriosa che conferisce a questa insalata proprio il suo caratteristico sapore pungente. La scoperta arriva dall’Università di Pisa dove un team di farmacologi guidato dal professore Vincenzo Calderone ha condotto lo studio in collaborazione con le università di Firenze e “Federico II” di Napoli e il “Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia” (CREA) di Bologna. La ricerca, pubblicata sul “British Journal of Pharmacology”, la rivista in campo farmacologico più prestigiosa a livello internazionale, ha infatti dimostrato le proprietà vasorilascianti ed anti-ipertensive dell’isotiocianato Erucina, un principio attivo prodotto dalla pianta come meccanismo di difesa e che conferisce alla rucola proprio il suo caratteristico sapore ed odore pungente.

“Quando le foglie di rucola vengono tagliate o masticate – spiega Alma Martelli ricercatrice dell’Università di Pisa e prima autrice della pubblicazione – i glucosinolati e l’enzima mirosinasi, entrano in contatto generando l’isotiocianato Erucina. Se quest’ultimo per la pianta è un meccanismo di difesa che serve per allontanare ad esempio gli animali, per l’uomo è invece un principio attivo di origine naturale in grado di rilassare la muscolatura dei vasi e di abbassare la pressione arteriosa attraverso il rilascio di un gastrasmettitore, il solfuro d’idrogeno”.

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Da destra, Eugenia Piragine, Alma Martelli, Vincenzo Calderone, Valentina Citi e Lara Testai


I ricercatori hanno dimostrato le proprietà vasorilascianti ed anti-ipertensive dell’isotiocianato Erucina sia in vitro, su cellule di aorta umana e su vasi isolati, che in vivo, su animali spontaneamente ipertesi.
“Questa scoperta ha importanti ripercussioni in campo medico poiché per ottenere questi effetti antiipertensivi possiamo certamente somministrate il principio attivo purificato, sotto forma di integratore ma, almeno in parte, possiamo ottenere gli stessi effetti anche attraverso l’alimentazione - sottolinea Alma Martelli - infatti diversamente dalle altre piante appartenenti alla famiglia delle Brassicaceae come il cavolo, il broccolo o il rafano, la rucola si può mangiare cruda così da non degradare l’enzima con la cottura e assicurare la sintesi di Erucina”.


La dottoressa Alma Martelli che ha condotto la ricerca, è ricercatrice in Farmacologia al Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa dal 2014. Già nel 2016 ha ricevuto un importante premio internazionale, il “Ciro Coletta Youg Investigator Award”, per le sue ricerche sugli isotiocianati e il solfuro d’idrogeno. Più di recente, nel marzo scorso, ha ricevuto il premio ”Best Oral communication Award” nell’ambito del congresso “Le Basi farmacologiche dei Nutraceutici” proprio per la ricerca sulle proprietà anti-ipertensive di Erucina.


La dottoressa Martelli lavora in un team guidato dal professore Vincenzo Calderone di cui fanno parte la professoressa Lara Testai e le dottoresse Valentina Citi ed Eugenia Piragine. Da anni il gruppo studia le proprietà cardiovascolari del solfuro d’idrogeno occupandosi anche di farmacologia dei composti di origine naturale, due filoni di ricerca che si sono uniti in questo lavoro appena pubblicato sul “British Journal of Pharmacology”.

 

della_posta_cover.jpgPompeo Della Posta è professore associato di Economia politica al dipartimento di Economia e Management dell'Università di Pisa. Visiting professor in università e centri di ricerca in tutto il mondo, tra cui Canada, Cina, India, Giappone, Russia, Regno Unito e Stati Uniti, il profesore è attualmente presidente dell'Associazione internazionale del commercio e delle finanze e direttore della rivista scientifica «Scienza e Pace / Scienza e pace». "The Economics of Globalization. An Introduction" (Edizioni Ets, 2019) è il suo ultimo libro.

Pubblichiamo di seguito una presentazione del volume tratta da una intervista al professore.

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Quando inizia la globalizzazione economica?
Il primo periodo storico nel quale l’integrazione commerciale ha cominciato a produrre convergenza dei prezzi (è questo l’indicatore chiave che viene di solito considerato al fine di datare l’inizio della globalizzazione economica) è la seconda metà del 1800, e in particolare si prende come data simbolica il 1869, quando fu aperto il canale di Suez, grazie al quale il collegamento navale fra Europa e Asia divenne più diretto, accorciando significativamente i tempi di percorrenza.

La globalizzazione economica però non riguarda solo l’integrazione commerciale, ma anche quella dei fattori della produzione, vale a dire il lavoro e il capitale.
Quel periodo fu caratterizzato da enormi migrazioni volontarie e non episodiche (il 10% della popolazione mondiale viveva in un paese diverso da quello di nascita, a fronte del 3,4% che caratterizza i nostri giorni), e da ingenti movimenti di capitale (che dall’Europa, per esempio, si muovevano verso l’America per finanziarne lo sviluppo).

Si può tornare indietro?
La storia ci dice che è senz’altro possibile cambiare direzione. Basti pensare a quello che accadde nel periodo fra le due guerre mondiali. La prima fase della globalizzazione economica, quella che ebbe luogo fra la fine del 1800 e i primi del 1900 - il periodo del Liberty e della Belle Époque le cui testimonianze e la cui architettura ritroviamo ancora in tante città italiane ed europee - fu seguita da una chiusura economica catastrofica, caratterizzata dal grido di “America First” di allora. Quelle spinte protezionistiche si concretizzarono nelle barriere tariffarie alzate dagli americani contro le esportazioni europee e nelle svalutazioni competitive fra i paesi. Come è andata a finire lo sappiamo: è arrivata la II Guerra Mondiale.

 

ufficio bando copyL’Università di Pisa ha indetto una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il reclutamento di un tecnologo di secondo livello, a tempo determinato, per la durata di 18 mesi, con orario di lavoro a tempo pieno. La figura del tecnologo, introdotta recentemente nel panorama dei ruoli e dei servizi universitari, ha il compito di coadiuvare i team di ricerca dell’Università di Pisa nel reperimento di bandi e nella preparazione di proposte progettuali competitive riconducibili al dominio di ricerca dell’European Research Council (ERC) ‘Physical Sciences and Engineering’. La scadenza del bando, reperibile sull’Albo ufficiale online, è fissata a lunedì 8 luglio 2019.

Questa figura professionale dovrà collaborare alla redazione di progetti internazionali (particolare rilievo per H2020 e prossimo Horizon Europe), nazionali e regionali, con particolare riferimento alle componenti di ‘Impact’ e ‘Implementation’ o analogamente denominate, trasformando le idee dei ricercatori in proposte progettuali solide e competitive e assistendo i team di ricerca anche nella stesura della parte di innovazione, componenti cruciali per la valorizzazione dell’idea progettuale e per il buon esito della proposta stessa.

Il tecnologo collaborà quindi con i team di ricerca dell’Università di Pisa per la redazione di progetti di ricerca, con particolare riferimento a quelli internazionali di Horizon 2020 e quelli prossimi del Programma Quadro per la Ricerca e l'Innovazione dell’Unione Europea (FP9), oltre che per i bandi nazionali e regionali, trasformando le idee dei ricercatori in proposte progettuali solide e competitive.

La nuova figura andrà ad aggiungersi ai cinque tecnologi già operanti all’Università di Pisa che, con il loro lavoro, hanno contribuito a una netta crescita dei finanziamenti europei ottenuti nel 2018 all’Università di Pisa: i dati dicono che i progetti europei di ricerca vinti lo scorso anno sono 41, contro i 27 vinti del 2017 e i 17 vinti nel 2016, con un contributo di oltre 17,4 milioni di euro, triplicato rispetto alla media dei tre anni precedenti (2015, 2016, 2017), quando si attestava sui 6 milioni di euro.

Il bando è consultabile a questo link

Espressioni multiple, iperboliche, fatte di più parole unite da trattini, si va dalle più semplici che in italiano suonerebbero come “Principessa-per-un-giorno” sino alle più complesse e creative come “I-miei-quasi-leggings-che-sembrano-jeans”. L’uso di questa terminologia è al centro di uno studio sul linguaggio della moda nel mondo anglofono realizzato al dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa e pubblicato sulla rivista scientifica “Text & Talk”. La professoressa Belinda Blanche Crawford ha compilato e analizzato un corpus di testi di circa 400,000 parole attingendo dalle più blasonate riviste di moda come Vogue, Women’s Wear Daily, Harper’s Bazaar e da alcuni fashion blog particolarmente popolari. Il risultato è che queste frasi “a trattini” (tecnicamente si chiamano hyphenated phrasal expressions) sono risultate tre volte più frequenti nel linguaggio della moda rispetto a quello standard, con frequenze particolarmente alte nei blog.

 

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L’uso di queste espressioni è tipico nel fashion journalism anglosassone, una tendenza che non sembra avere una corrispondenza in quello italiano - spiega Crawford - si tratta di espressioni che hanno una forte valenza descrittiva e valutativa e proprio per questo sono molto usate nell’ambito della moda dove gli aspetti visivi ed emotivi giocano un ruolo fondamentale”.

“Le blogger in particolare – continua Crawford - si distinguono per usare i “trattini” in modo creativo, arguto e non convenzionale in modo da costruire la propria identità come una voce sofisticata e spiritosa nella comunità discorsiva online della moda di cui fanno parte”.

Lo studio ha classificato tutte le “hyphenated phrasal expressions” secondo tre categorie: convenzionali, semi-convenzionali, e non-convenzionali. Nella prima categoria, si trovano espressioni che sono comunemente utilizzate dai parlanti nativi e che sono presenti nei dizionari, nella seconda c’è già un grado di variazione sufficiente da farle escludere dai dizionari, nella terza infine si trovano espressioni di fatto uniche formulate ad hoc per un determinato contesto.

“La ricerca – conclude la professoressa dell’Ateneo pisano – mette in risalto come le comunicazioni mediate da Internet possono favorire innovazioni nelle forme di espressione da parte di nuove e sempre più influenti figure del fashion journalism fornendo indicazioni anche per tutti coloro che aspirano a farne parte”.

Lezioni fuori sede per un gruppo di studenti dell'Università di Pisa che dal 25 maggio e per sei giorni sono stati in Belgio e Olanda dove hanno potuto visitare il Rijksmuseum di Leiden e il Musées royaux des Arts et d'Histoire de Brussels. I tredici studenti del corso Storia Sociale e Cultura Materiale dell'Antico Egitto (laurea magistrale OEVO: Orientalistica: Egitto, Vicino e Medio Oriente) accompagnati dal professore Gianluca Miniaci e dal dottor Mattia Mancini hanno così potuto sperimentare direttamente la museologia applicata alla cultura materiale dell'antico Egitto. L'iniziativa è stata finanziata con i fondi speciali per la didattica di Ateneo.

Riportiamo di seguito il resoconto del viaggio scritto da una delle studentesse, Martina Brentan.

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Tra mummie e statuine di ippopotami: alla scoperta della Cultura Materiale egiziana da Leiden a Bruxelles

 

Siamo in un’asettica stanza di vetro e il dr. Luc Delvaux - curatore della sezione egizia del Musée Art & Histoire di Bruxelles - scosta lentamente il velo bianco che copre qualcosa disposto su un lettino: è il corpo mummificato di una donna vissuta quasi 2000 anni fa, in corso di restauro e quindi nascosto a tutti gli altri visitatori.

Le espressioni di stupore sui nostri volti tradiscono l’emozione di questa esperienza esclusiva; solo una delle tante vissute durante il ciclo di lezioni fuori sede del corso di ”Storia Sociale e Cultura Materiale Egiziana’’ che hanno impegnato per 6 giorni, tra Olanda e Belgio, 13 studenti -  Adriano Alfieri, Martina Betti, Martina Brentan, Giorgia Cipriani, Sonia Curti, Ramona D’Alfonso, David Gnesi, Federica Leonardis, Francesco Missiroli, Gabriella Rodriguez, Maria Tricomi, Lobna Youssef e Veronica Zampedri - accompagnati dal professor Gianluca Miniaci e dal Dr. Mattia Mancini.

Il viaggio, partito il 25 maggio, prevedeva la possibilità di svolgere lezioni in importanti istituzioni straniere, come l’Università di Leiden dove studiosi del calibro del Prof. Olaf Kaper e dei dottori Koen Donker Van Heel, Miriam Müller, Renate Dekker e Ben Haring ci hanno illustrato le molteplici ricerche dell’ateneo nel campo dell’egittologia.

Alla didattica frontale si è unita anche molta attività pratica grazie alla visita di due tra le collezioni egizie più importanti del mondo - Bruxelles e Leiden - accompagnati direttamente dai rispettivi curatori. Ed è così che la dott.ssa Petra Hogenboom - assistente curatrice del Rijksmuseum van Oudheden Museum - grazie a uno schermo touchscreen ci ha svelato il segreto di un’enorme mummia di coccodrillo: le bende ricreate in 3D improvvisamente spariscono mostrando non uno, ma due corpi di rettili adulti e di dozzine di cuccioli!

Nei depositi dei due musei abbiamo anche avuto la fortuna di toccare letteralmente con mano alcuni oggetti, facendo pratica nel maneggiare, descrivere e studiare antichissimi reperti. Basti pensare al momento in cui, sotto gli occhi attenti del professore, ognuno di noi ha potuto tenere in mano e osservare da vicino una figurina di ippopotamo in faience risalente a oltre 4000 anni fa.

Tutte queste esperienze, pensate nell’ottica di lezioni di museologia applicata ai contesti egittologi, non solo hanno accresciuto il nostro bagaglio culturale ma ci hanno permesso di provare aspetti caratteristici e pratici della vera attività professionale che speriamo diventerà, un giorno, il nostro futuro.

Martina Brentan

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