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Un estratto di bucce e semi di melagrana completamente solubile in acqua, ottenuto mediante una tecnica innovativa, verde, efficiente e scalabile fino a capacità produttive industriali, si rivela efficace nel trattamento dell’ipertensione, sia acuta che cronica. Lo dimostra una ricerca in vivo condotta su un modello murino, pubblicata sulla rivista Nutrients e realizzata da un gruppo di ricerca dell’Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche di Firenze (Cnr-Ibe) e dell’Università di Pisa.
L’estrazione del succo di melagrana genera sottoprodotti non edibili, bucce e semi, pari al 60% del peso del frutto, che sono disponibili in grandi quantità e conosciuti da tempo per le loro proprietà salutari, in gran parte dovute ai cosiddetti ellagitannini, in particolare punicalagina e acido ellagico.

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Processo estrattivo del succo di melagrana


“Finora, il recupero e la valorizzazione di questi sottoprodotti sono stati ostacolati dalla mancanza di una tecnica di estrazione adeguata, in grado di restituire un prodotto completamente solubile in acqua e più sicuro per l’organismo. Infatti, la qualità e le proprietà degli estratti di prodotti naturali, tra cui i sottoprodotti della melagrana, dipendono anche dalla tecnica estrattiva. L’applicazione della cavitazione idrodinamica, già verificata con successo su sottoprodotti degli agrumi e delle filiere forestali, ha consentito di estrarre una grande quantità di bucce e semi di melagrana in sola acqua, a bassa temperatura e in pochi minuti, con un consumo energetico molto limitato, restituendo un prodotto completamente solubile”, sottolinea Francesco Meneguzzo, ricercatore del Cnr-Ibe.
Lo studio ha previsto la somministrazione dell’estratto di melagrana per via orale a ratti spontaneamente ipertesi. “Dopo la somministrazione orale, i risultati hanno dimostrato una buona bioaccessibilità intestinale e la capacità di contrastare efficacemente l’incremento della pressione in un modello sperimentale di ipertensione, migliorando la disfunzione e riducendo lo spessore dell’endotelio, che è il tessuto che riveste l’interno dei vasi sanguigni. In aggiunta a questo, la somministrazione dell’estratto di melagrana ha dimostrato importanti effetti a livello cardiaco, perché ha consentito di abbassare i livelli di citochine, le molecole responsabili dei processi infiammatori e fibrotici a livello cellulare. Questi riscontri suggeriscono la possibilità di sviluppare meccanismi diversi e a più ampio spettro, rispetto alla protezione cardiovascolare”, afferma Lara Testai dell’Università di Pisa.

Questo tipo di ricerca scientifica dimostra come gli scarti della lavorazione di prodotti vegetali come la melagrana siano ricchi di sostanze preziose per la salute, rappresentando anche un valore aggiunto in un’ottica di sostenibilità. Gli esiti dello studio, infatti, oltre a suggerire i potenziali benefici per la salute umana, potranno contribuire ad aumentare il valore della filiera della melagrana e ad abbattere l’impatto ambientale connesso ai relativi sottoprodotti.

 

Per diminuire le emissioni di CO2 nell’atmosfera, il geotermico è la fonte di energia rinnovabile più efficace, seguito da idroelettrico e solare. La notizia arriva da uno studio su 27 paesi OCSE dal 1965 al 2020 pubblicato sul Journal of Cleaner Production.

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La ricerca ha analizzato l’impatto di alcune fonti di energia rinnovabile per la produzione di energia elettrica: geotermico, solare, eolico, biofuel, idroelettrico. Dai risultati è emerso che ognuna di esse contribuisce a ridurre le emissioni di CO2 e dunque è utile agli obiettivi della transizione ecologica. Fra tutte, le migliori sono il geotermico, l’idroelettrico, e il solare, in ordine decrescente di importanza. A livello quantitativo, 10 terawattora di energia elettrica prodotti da geotermico, idroelettrico, e solare, consentono infatti di ridurre le emissioni di CO2 pro capite rispettivamente di 1.17, 0.87, e 0.77 tonnellate.

I 27 paesi OCSE esaminati dal 1965 al 2020 sono stati scelti come campione perché contribuiscono notevolmente al rilascio di emissioni di CO2 nell’atmosfera e rappresentano circa un terzo del totale delle emissioni globali di CO2. Nello specifico si tratta di Australia, Austria, Canada, Cile, Cipro, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Israele, Italia, Giappone, Messico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Corea del Sud, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti. Per ricavare i dati, la ricerca ha analizzato molteplici fonti, le principali sono: Food and Agriculture Organization (FAO), International Energy Agency (IEA), OECD, Our World in Data (OWID), e World Bank.

“E’ noto che circa due terzi degli italiani si dichiara appassionato del tema della sostenibilità e ritiene importante l’uso delle rinnovabili per avere città più sostenibili – dice Gaetano Perone, ricercatore del dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa e autore dell’articolo – la mia analisi spiega in modo dettagliato l’impatto di ciascuna energia rinnovabile sulle emissioni di CO2, considerando anche altri aspetti legati ai costi di implementazione e costruzione delle centrali e delle opportunità date dalle caratteristiche geografiche e climatiche dei paesi considerati”.



Le praterie di Posidonia possono ridurre in modo significativo gli effetti dell’acidificazione dei mari, la prova arriva da una specie sentinella come i ricci di mare. E’ questo quanto emerge da alcuni studi condotti dall’Università di Pisa nell’ambito del progetto europeo FutureMARES e pubblicati sulle riviste Science of the Total Environment e Environmental Research.

I ricercatori dell’Università di Pisa hanno condotto gli esperimenti nei mesocosmi collocati presso l’Acquario di Livorno, un sistema di vasche di grandi dimensioni che riproduce gli ecosistemi marini. Le analisi hanno dimostrato che Posidonia oceanica, la principale pianta marina che popola il Mediterraneo, contribuisce a difendere lo sviluppo delle larve del riccio di mare (Paracentrotus lividus). Questa specie, che ha anche un interesse commerciale, è minacciata dall’acidificazione delle acque marine che ostacola lo sviluppo dello scheletro composto da carbonato di calcio. Ma grazie alla propria attività fotosintetica, la Posidonia è stata in grado di alzare il pH dell’acqua di 0.15 unità. In presenza delle piante, le larve di riccio hanno così sviluppato meno malformazioni e raggiunto una grandezza maggiore nella fase finale dello sviluppo.

Le praterie di Posidonia possono quindi rappresentare un rifugio per alcune delle specie minacciate dall’acidificazione dei mari anche perché il fenomeno in sé non ha effetti significativi su queste piante. E tuttavia, come hanno dimostrato ulteriori indagini dell’Università di Pisa, se l’acidificazione è associata ad un innalzamento della temperatura dell’acqua, possono subentrare alterazioni fisiologiche e molecolari, specialmente nelle piante più in profondità, che potrebbero ridurre la funzione protettiva.

“I nostri studi dimostrano le praterie di piante marine come Posidonia oceanica possano mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici su altre specie, con importanti ricadute in termini sia di biodiversità che economici – spiega il professore Fabio Bulleri del Dipartimento di Biologia e del Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico (CIRSEC) dell’Università di Pisa – questa capacità però può essere compromessa da un ulteriore riscaldamento del mare e per questo è necessario individuare popolazioni di piante più tolleranti allo stress termico e siti caratterizzati da un minore tasso di riscaldamento che possano funzionare da rifugi in scenari futuri”.

Fabio Bulleri, responsabile scientifico del progetto FutureMARES, si occupa della valutazione degli effetti dei cambiamenti climatici in ambiente marino. Insieme a lui hanno collaborato, per l’Università di Pisa, Chiara Ravaglioli assegnista di ricerca del Dipartimento di Biologia che si occupa degli effetti antropici sulle piante marine; Lucia De Marchi e Carlo Pretti, esperti in ecotossicologia del Dipartimento di Scienze Veterinarie. Partner esterni sono il Dipartimento di Scienze Della Vita dell’Università di Trieste, il Centro Interuniversitario di Biologia Marina “G. Bacci” (CIBM) di Livorno, la Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, il National Institute of Oceanography, Israel Oceanographic and Limnological Research, Haifa in Israele e il National Biodiversity Future Centre (NBFC) di Palermo.



 

 

 

 

Le praterie di Posidonia possono ridurre in modo significativo gli effetti dell’acidificazione dei mari, la prova arriva da una specie sentinella come i ricci di mare. E’ questo quanto emerge da alcuni studi condotti dall’Università di Pisa nell’ambito del progetto europeo FutureMARES e pubblicati sulle riviste Science of the Total Environment e Environmental Research.

 

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Sistema di mesocosmi composto da vasche con acqua di mare, utilizzate per testare gli effetti dell’acidificazione dei mari e della presenza della pianta marina, Posidonia oceanica, sullo sviluppo delle larve di riccio, Paracentrotus lividus

I ricercatori dell’Università di Pisa hanno condotto gli esperimenti nei mesocosmi collocati presso l’Acquario di Livorno, un sistema di vasche di grandi dimensioni che riproduce gli ecosistemi marini. Le analisi hanno dimostrato che Posidonia oceanica, la principale pianta marina che popola il Mediterraneo, contribuisce a difendere lo sviluppo delle larve del riccio di mare (Paracentrotus lividus). Questa specie, che ha anche un interesse commerciale, è minacciata dall’acidificazione delle acque marine che ostacola lo sviluppo dello scheletro composto da carbonato di calcio. Ma grazie alla propria attività fotosintetica, la Posidonia è stata in grado di alzare il pH dell’acqua di 0.15 unità. In presenza delle piante, le larve di riccio hanno così sviluppato meno malformazioni e raggiunto una grandezza maggiore nella fase finale dello sviluppo.

Le praterie di Posidonia possono quindi rappresentare un rifugio per alcune delle specie minacciate dall’acidificazione dei mari anche perché il fenomeno in sé non ha effetti significativi su queste piante. E tuttavia, come hanno dimostrato ulteriori indagini dell’Università di Pisa, se l’acidificazione è associata ad un innalzamento della temperatura dell’acqua, possono subentrare alterazioni fisiologiche e molecolari, specialmente nelle piante più in profondità, che potrebbero ridurre la funzione protettiva.

“I nostri studi dimostrano le praterie di piante marine come Posidonia oceanica possano mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici su altre specie, con importanti ricadute in termini sia di biodiversità che economici – spiega il professore Fabio Bulleri del Dipartimento di Biologia e del Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico (CIRSEC) dell’Università di Pisa – questa capacità però può essere compromessa da un ulteriore riscaldamento del mare e per questo è necessario individuare popolazioni di piante più tolleranti allo stress termico e siti caratterizzati da un minore tasso di riscaldamento che possano funzionare da rifugi in scenari futuri”.

Fabio Bulleri, responsabile scientifico del progetto FutureMARES, si occupa della valutazione degli effetti dei cambiamenti climatici in ambiente marino. Insieme a lui hanno collaborato, per l’Università di Pisa, Chiara Ravaglioli assegnista di ricerca del Dipartimento di Biologia che si occupa degli effetti antropici sulle piante marine; Lucia De Marchi e Carlo Pretti, esperti in ecotossicologia del Dipartimento di Scienze Veterinarie. Partner esterni sono il Dipartimento di Scienze Della Vita dell’Università di Trieste, il Centro Interuniversitario di Biologia Marina “G. Bacci” (CIBM) di Livorno, la Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, il National Institute of Oceanography, Israel Oceanographic and Limnological Research, Haifa in Israele e il National Biodiversity Future Centre (NBFC) di Palermo.


In alto: esemplare adulto di riccio di mare, Paracentrotus lividus; in basso a sinistra una larva di riccio normale ed a destra una larva anormale

 

 

 

 

Is your phone draining its battery too quickly? The problem may depend on the different protocols we use to surf the web, and the latest ones are not necessarily the most energy-efficient. This is the conclusion of a study conducted by the University of Pisa and the CNR Institute for Informatics and Telematics, recently published in the journal Pervasive and Mobile Computing.


Specifically, the researchers set out to evaluate the energy consumption of smartphones and Internet of Things (IoT) devices in relation to the various HTTP protocols that underpin data transmission over the Internet.

“In general, when we talk about the different versions of the HTTP protocol, the focus is on ‘performance’, which is the time required to download data and resources over the network,” explains Alessio Vecchio, author of the study and professor at the Department of Information Engineering at the University of Pisa. Our study, on the other hand, focused on energy consumption, which is particularly relevant in the context of the Internet of Things (IoT), where many devices are battery-powered. In this context, saving energy makes it possible to significantly extend the life of the device, avoiding the need to replace or recharge batteries, with positive consequences in terms of sustainability and usability.”

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A photo of the system

 
The HTTP protocol is one of the most widely used communication protocols in computer networks; suffice it to say that the web is based on it. Communication between IoT devices, such as sensors or home automation systems, is also often based on the HTTP protocol. Currently, the three main versions are HTTP/1.1, HTTP/2 and the newer HTTP/3, which differ significantly in terms of performance. The study found that HTTP/3, which is generally more efficient than the previous versions, can consume up to 30% more in some scenarios. This happens, for example, when there is a lot of data to transfer, while it consumes less than the others when the volume of data is smaller.

“Our study is important for two reasons, one practical and one scientific,” Vecchio points out. ‘From a practical point of view, thanks to the results obtained, those who are interested in building systems that use smartphones and IoT devices can make choices that take into account energy aspects. From a scientific point of view, new research scenarios are opening up, such as the study of intelligent algorithms capable of dynamically selecting the most energy-efficient version of the HTTP protocol depending on the communication scheme, the amount of data to be transferred and the network conditions.”

The research was carried out in the context of the Future-Oriented REsearch LABoratory (FoReLab), a project of the Department of Information Engineering of the University of Pisa, funded by the Ministry of University and Research (MUR) within the framework of the Departments of Excellence programme.

Besides Alessio Vecchio, the study was conducted by Chiara Caiazza, PhD student in Smart Computing (joint PhD programme of the Universities of Florence, Pisa and Siena) and Valerio Luconi, PhD student in Information Engineering at the University of Pisa in 2016 and researcher at the CNR Institute of Informatics and Telematics since 2019.
All three participants in the research group share an interest and concern for environmental issues, in particular energy sustainability. Therefore, the study of the energy implications of network protocols was an excellent start to combine research aspects related to computer science and systems engineering with energy saving issues.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il professore Francesco Forti (foto), docente del Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa, è entrato a far parte nel Consiglio direttivo dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) come rappresentante del Ministero dell'Università e Ricerca. La nomina ufficiale è arrivata lo scorso dicembre a firma della Ministra Anna Maria Bernini. Forti, che resterà in carica per il prossimo quadriennio, si è laureato nel 1985 all’Università di Pisa come allievo della Scuola Normale Superiore. Professore ordinario dell’Ateneo pisano dal 2016, ha lavorato al CERN di Ginevra, al Lawrence Berkeley Laboratory e al laboratorio SLAC a Stanford in California. Dal 2013 partecipa all'esperimento Belle II presso il laboratorio KEK, Tsukuba in Giappone.

“Grazie anche al PNRR viviamo un momento molto dinamico in cui vengono poste le basi delle infrastrutture di ricerca per le sfide del futuro, in cui l’INFN gioca da protagonista - ha detto Forti - Avendo iniziato la mia carriera scientifica come ricercatore INFN, poter partecipare alla gestione dell’ente è per me fonte di grande soddisfazione, e spero di poter contribuire al rafforzamento della sua eccellenza scientifica.”

L'INFN è un ente pubblico nazionale che svolge attività di ricerca, teorica e sperimentale, nei campi della fisica subnucleare, nucleare e astroparticellare. Il Consiglio direttivo esercita le funzioni di indirizzo e opera le scelte di programmazione scientifica.

 

francesco fortiIl professore Francesco Forti (foto), docente del Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa, è entrato a far parte nel Consiglio direttivo dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) come rappresentante del Ministero dell'Università e Ricerca. La nomina ufficiale è arrivata lo scorso dicembre a firma della Ministra Anna Maria Bernini. Forti, che resterà in carica per il prossimo quadriennio, si è laureato nel 1985 all’Università di Pisa come allievo della Scuola Normale Superiore. Professore ordinario dell’Ateneo pisano dal 2016, ha lavorato al CERN di Ginevra, al Lawrence Berkeley Laboratory e al laboratorio SLAC a Stanford in California. Dal 2013 partecipa all'esperimento Belle II presso il laboratorio KEK, Tsukuba in Giappone.

“Grazie anche al PNRR viviamo un momento molto dinamico in cui vengono poste le basi delle infrastrutture di ricerca per le sfide del futuro, in cui l’INFN gioca da protagonista - ha detto Forti - Avendo iniziato la mia carriera scientifica come ricercatore INFN, poter partecipare alla gestione dell’ente è per me fonte di grande soddisfazione, e spero di poter contribuire al rafforzamento della sua eccellenza scientifica.”

L'INFN è un ente pubblico nazionale che svolge attività di ricerca, teorica e sperimentale, nei campi della fisica subnucleare, nucleare e astroparticellare. Il Consiglio direttivo esercita le funzioni di indirizzo e opera le scelte di programmazione scientifica.

 

Il telefonino che si scarica troppo velocemente? Il problema può dipendere dai vari protocolli con cui navighiamo in rete e non è detto che quelli più recenti siano anche i più vantaggiosi dal punto di vista energetico. La notizia arriva da uno studio dell’Università di Pisa e dell’Istituto di Informatica e Telematica del CNR recentemente pubblicato sulla rivista Pervasive and Mobile Computing.

In particolare, l’obiettivo dei ricercatori era di valutare il consumo energetico di smartphone e dispositivi di Internet of Things (IoT) rispetto ai diversi protocolli HTTP che sono alla base della trasmissione dati sul Web.

“Generalmente quando si parla delle differenti versioni del protocollo HTTP l’attenzione è focalizzata sulle “prestazioni” intese come il tempo necessario a scaricare dati e risorse mediante la rete – spiega Alessio Vecchio autore dello studio e docente al Dipartimento di Ingegneria dell'Informazione dell’Ateneo pisano – Il nostro studio invece si è concentrato sul consumo energetico che è particolarmente rilevante nel contesto dell’Internet delle Cose (Internet of Things), dove molti dispositivi sono alimentati a batteria. In questo ambito risparmiare energia consente di allungare significativamente il tempo di vita del dispositivo, evitando la sostituzione o la ricarica delle batterie con conseguenze positive in termini di sostenibilità e usabilità”.

Il protocollo HTTP è tra i protocolli di comunicazione più usati nelle reti informatiche, basti pensare che il Web si basa su di esso. Anche la comunicazione tra dispositivi IoT, quali sensori o sistemi per la domotica, è spesso basata sul protocollo HTTP. Attualmente le tre versioni principali sono HTTP/1.1, HTTP/2, e il più recente HTTP/3, che differiscono in modo sostanziale tra di loro, anche per prestazioni energetiche. Come ha rivelato lo studio, in alcuni scenari HTTP/3, che generalmente è più efficiente delle altre versioni, può consumare fino al 30% in più. Questo, per esempio, accade quando i dati da trasferire sono molti, mentre consuma meno degli altri quando i dati sono pochi.

“Il nostro studio è importante per due motivi, uno di carattere pratico e uno di carattere scientifico – sottolinea Vecchio - Dal punto di vista pratico, grazie ai risultati ottenuti, è possibile, per chi sia interessato a costruire sistemi che facciano uso di smartphone e dispositivi IoT, fare delle scelte che tengano conto degli aspetti di natura energetica. Dal punto di vista scientifico, si aprono nuovi scenari di ricerca. Ad esempio, lo studio di algoritmi intelligenti che siano

La ricerca è stata svolta nel contesto di Future-Oriented REsearch LABoratory (FoReLab), un progetto del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) con il programma Dipartimenti di Eccellenza.

Hanno partecipato allo studio insieme ad Alessio Vecchio, Chiara Caiazza, Dottore di Ricerca in Smart Computing (programma di dottorato congiunto erogato dalle Università di Firenze, Pisa e Siena) e Valerio Luconi, Dottore di Ricerca in Ingegneria dell’Informazione presso Università di Pisa nel 2016 e ricercatore presso Istituto di Informatica e Telematica del CNR dal 2019.

Tutti e tre i partecipanti al gruppo di ricerca sono accomunati dall’interesse e dall’attenzione per le tematiche ambientali, in particolare per la sostenibilità energetica. Lo studio delle implicazioni energetiche dei protocolli di rete è quindi stato un ottimo punto di incontro per coniugare aspetti di ricerca legati all’informatica e all’ingegneria dei sistemi con tematiche di risparmio energetico.

 

 

 

 

 

 

 

Il telefonino che si scarica troppo velocemente? Il problema può dipendere dai vari protocolli con cui navighiamo in rete e non è detto che quelli più recenti siano anche i più vantaggiosi dal punto di vista energetico. La notizia arriva da uno studio dell’Università di Pisa e dell’Istituto di Informatica e Telematica del CNR recentemente pubblicato sulla rivista Pervasive and Mobile Computing.

In particolare, l’obiettivo dei ricercatori era di valutare il consumo energetico di smartphone e dispositivi di Internet of Things (IoT) rispetto ai diversi protocolli HTTP che sono alla base della trasmissione dati sul Web.

“Generalmente quando si parla delle differenti versioni del protocollo HTTP l’attenzione è focalizzata sulle “prestazioni” intese come il tempo necessario a scaricare dati e risorse mediante la rete – spiega Alessio Vecchio autore dello studio e docente al Dipartimento di Ingegneria dell'Informazione dell’Ateneo pisano – Il nostro studio invece si è concentrato sul consumo energetico che è particolarmente rilevante nel contesto dell’Internet delle Cose (Internet of Things), dove molti dispositivi sono alimentati a batteria. In questo ambito risparmiare energia consente di allungare significativamente il tempo di vita del dispositivo, evitando la sostituzione o la ricarica delle batterie con conseguenze positive in termini di sostenibilità e usabilità”.

Il protocollo HTTP è tra i protocolli di comunicazione più usati nelle reti informatiche, basti pensare che il Web si basa su di esso. Anche la comunicazione tra dispositivi IoT, quali sensori o sistemi per la domotica, è spesso basata sul protocollo HTTP. Attualmente le tre versioni principali sono HTTP/1.1, HTTP/2, e il più recente HTTP/3, che differiscono in modo sostanziale tra di loro, anche per prestazioni energetiche. Come ha rivelato lo studio, in alcuni scenari HTTP/3, che generalmente è più efficiente delle altre versioni, può consumare fino al 30% in più. Questo, per esempio, accade quando i dati da trasferire sono molti, mentre consuma meno degli altri quando i dati sono pochi.

“Il nostro studio è importante per due motivi, uno di carattere pratico e uno di carattere scientifico – sottolinea Vecchio - Dal punto di vista pratico, grazie ai risultati ottenuti, è possibile, per chi sia interessato a costruire sistemi che facciano uso di smartphone e dispositivi IoT, fare delle scelte che tengano conto degli aspetti di natura energetica. Dal punto di vista scientifico, si aprono nuovi scenari di ricerca. Ad esempio, lo studio di algoritmi intelligenti che siano in grado di scegliere dinamicamente la versione del protocollo HTTP più efficiente dal punto di vista energetico a seconda dello schema di comunicazione, della quantità di dati da trasferire e delle condizioni della rete”.

 

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Una foto del sistema di monitoraggio

 

La ricerca è stata svolta nel contesto di Future-Oriented REsearch LABoratory (FoReLab), un progetto del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) con il programma Dipartimenti di Eccellenza.

Hanno partecipato allo studio insieme ad Alessio Vecchio, Chiara Caiazza, Dottore di Ricerca in Smart Computing (programma di dottorato congiunto erogato dalle Università di Firenze, Pisa e Siena) e Valerio Luconi, Dottore di Ricerca in Ingegneria dell’Informazione presso Università di Pisa nel 2016 e ricercatore presso Istituto di Informatica e Telematica del CNR dal 2019.

Tutti e tre i partecipanti al gruppo di ricerca sono accomunati dall’interesse e dall’attenzione per le tematiche ambientali, in particolare per la sostenibilità energetica. Lo studio delle implicazioni energetiche dei protocolli di rete è quindi stato un ottimo punto di incontro per coniugare aspetti di ricerca legati all’informatica e all’ingegneria dei sistemi con tematiche di risparmio energetico.

 

 

 

 

 

 

 

Correggere in tempo reale le cattive posture che si assumono a lavoro, via smartwatch, il tutto nel pieno rispetto di privacy e riservatezza. È questo l’obiettivo di un innovativo sistema basato sull’intelligenza artificiale ideato e sperimentato dall’Università di Pisa. I risultati della ricerca, coordinata da Francesco Pistolesi, ricercatore presso il Dipartimento di Ingegneria dell'Informazione, sono stati pubblicati sulla rivista Computers in Industry.

“L'affaticamento e la ripetitività di svariate mansioni lavorative portano spesso gli operatori ad assumere posture incongrue perché magari sono momentaneamente percepite come comode — spiega Pistolesi — questo però, a medio e lungo termine, provoca uno stress dell’apparato muscolo-scheletrico; le statistiche ci dicono che, in tutto il mondo, oltre un lavoratore su quattro soffre di mal di schiena, con conseguenti sofferenze e perdita di oltre 264 milioni di giorni lavorativi ogni anno”.

Il dispositivo dell’Ateneo pisano (si veda Figura 1) è stato testato coinvolgendo operatori durante l'esecuzione di varie mansioni standardizzate (avvitatura, saldatura e assemblaggio). Il sistema è costituito da un'unità basata su intelligenza artificiale che riceve continuativamente dati da uno smartwatch e un sensore LiDAR — una tecnologia avanzata che usa impulsi laser per misurare distanze e creare mappe dell'ambiente. Durante i test, il sistema ha monitorato le posizioni di braccio, spalla, tronco e gambe, acquisendo dati che non sono in grado di rivelare informazioni sensibili del lavoratore.

L’intelligenza artificiale ha identificato le posture con una precisione media superiore al 98%, rilevando inoltre gli scostamenti dalle posizioni degli arti raccomandate dallo standard UNI ISO 11226 (Ergonomics — Evaluation of static working postures). Questo standard fornisce raccomandazioni per la valutazione del rischio per la salute della popolazione adulta attiva, derivate da studi sperimentali sul carico muscoloscheletrico, sul disagio/dolore e sulla resistenza/fatica associati alle posture di lavoro.

“Il nuovo paradigma dell’Industria 5.0 usa l'intelligenza artificiale (AI) mettendo al centro l’essere umano — sottolinea Pistolesi — la tecnologia non ci sostituisce, ma ci aiuta. Si tratta in altre parole di pensare a dispositivi, come quello che abbiamo ideato, che mettano in primo piano il benessere e diritti di lavoratrici e lavoratori, in particolare la privacy, che le tecnologie basate sull'analisi video possono mettere a rischio. Si pensi per esempio ad attacchi informatici che si impadroniscono di immagini di parti del corpo sensibili dei lavoratori, usate per rilevare la postura. I dati registrati dal nostro sistema, invece, anche se trafugati, non possono ricondurre ad alcuna informazione che violi la riservatezza dei dipendenti di un'azienda. Ciò fa sì che i lavoratori si sentano più tutelati e considerati, aumentando sia il benessere che la produttività. Ecco perché negli anni a venire sarà sempre più importante progettare sistemi ispirati all'intelligenza artificiale orientata all'essere umano, la cosiddetta human-centered AI”.

Assieme a Francesco Pistolesi, hanno collaborato alla ricerca Michele Baldassini, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Ingegneria dell'Informazione, e Beatrice Lazzerini, professoressa ordinaria presso lo stesso dipartimento per oltre vent'anni, e attualmente titolare di un contratto di ricerca a titolo gratuito.


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