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Alcuni paradossi del tempo

L’Associazione laureati dell’Ateneo pisano (ALAP) ha conferito quest’anno il tradizionale premio del Campano d’oro al filosofo Remo Bodei. Nato a Cagliari nel 1938, Bodei si è laureato a Pisa con Arturo Massolo e ha completato i suoi studi a Tubinga e Friburgo, dove ha seguito le lezioni di Ernst Bloch e Eugen Fink. Ad Heidelberg ha partecipato alle lezioni di Karl Löwith e di Dieter Henrich. Dal 1969 ha ricoperto l’insegnamento di Storia della filosofia ed estetica alla Scuola Normale, e all’Università di Pisa, dal 1971. È stato visiting professor al King’s College di Cambridge, alla Ottawa University e alla New York University, insegnando anche a Toronto, Girona e Città del Messico. Dal 2006 insegna Filosofia alla UCLA di Los Angeles, pur mantenendo frequenti rapporti con la nostra Università e la Scuola Normale, dove continua a tenere corsi. Quella che segue è la lectio magistralis impartita nell’Aula magna storica della Sapienza in occasione della premiazione.

Per una mia privata perversione, guardo sempre i volti delle persone e ogni volta mi meraviglio del fatto che in così poco spazio sia contenuta una enorme quantità di tempo e di storia e del fatto che ogni viso è diverso. La mia storia si è intrecciata con quella di molti presenti in questa aula, diverse facce mi sono familiari e molte le riconosco anche dopo i cambiamenti che gli anni vi hanno inevitabilmente depositato.

Il professor Remo Bodei con il presidente dell’ALAP, Attilio Salvetti, alla consegna del Campano d’oro

Il professor Remo Bodei con il presidente dell’ALAP, Attilio Salvetti, alla consegna del Campano d’oro

Sono davvero grato per il riconoscimento che avete voluto concedermi. Lo considero una continuazione degli innumerevoli doni ricevuti dall’Università di Pisa. Mi commuove anche il ritrovarmi nell’Aula magna storica della Sapienza, nello stesso luogo in cui non solo io, ma anche mia moglie e una delle due mie figlie ci siamo laureati. Un luogo, questo, che ha per me anche un altro significato affettivo. Quando uscirete da qui, vedrete sopra la porta d’ingresso di questa sala gli stemmi cinquecenteschi di due rettori dell’università di Pisa: uno è di Cagliari e uno (lasciatemi scherzare), è, ahimé, di Sassari. In quanto sardo, entro quindi nella lunga tradizione di miei conterranei che hanno studiato e continuano a studiare a Pisa.

Come è stato giustamente osservato, io ho vissuto a lungo e ho insegnato spesso all’estero (anche grazie a un accordo con il Ministero degli Esteri). Se dovessi fare il conto di quanta parte della mia esistenza è stata trascorsa fuori dall’Italia, direi almeno un settimo. Eppure, sino a pochi anni fa il centro della mia vita accademica è stato a Pisa, tra la Scuola Normale Superiore e l’Università. Alla Sapienza si lega, poi, il ricordo del primo impatto con l’università. Vi ho, infatti, ascoltato le prime lezioni di Giorgio Colli, con cui si passeggiava poi sui Lungarni. Non lontano, a Palazzo Ricci o a Palazzo della Carovana, ho seguito, tra gli altri, i corsi di Luporini, Russo, Massolo, Saitta, Gabba e Cantimori.

Mi è stato suggerito di parlare del mio rapporto con l’Università di Pisa. Confesso di aver avuto qualche remora mentale, perché trovo impudico parlare di se stessi. Cercherò di farlo, ma con distacco, come se fossi un altro, in ciò incoraggiato dall’assioma ermeneutico intimidatorio teorizzato dai miei maestri a Heidelberg, ossia che l’Autore (o, più in generale, chi parla di sé) è l’ultimo a capirsi. Sono perciò grato a Lucia Tomasi Tongiorgi, ad Alfonso Maurizio Iacono e ad Attilio Salvetti in quanto – e ne sono convinto – mi hanno oggi aiutato a capire meglio alcuni aspetti del mio lavoro. In realtà ciascuno di noi ha bisogno dello specchio degli altri per conoscersi.

Cercherò di limitare gli aspetti aneddotici (che affollano ora la mente) e di vedermi proiettato lungo una specie di parabola, intesa sia in senso geometrico che in senso evangelico. La curva della mia esistenza a livello accademico e il senso della mia produzione scientifica sono stati ampiamente e generosamente illustrati. Di conseguenza, con benevolo sadismo, vi parlerò di problemi filosofici e vi sottoporrò tra poco a un brainstorming, esponendovi, nella maniera più piana e colloquiale possibile, alcuni paradossi del tempo.

L’unico aneddoto che voglio raccontare riguarda le mie impressioni appena arrivato a Pisa dalla Sardegna, dove – come in Veneto – si parla in genere a voce relativamente bassa. Ebbene, appena uscito dalla stazione, mi è sembrato che, per il tono alto e concitato, tutti i pisani litigassero. Mi colpì anche l’allegro, ma per me vagamente sinistro, modo di salutare di un maturo signore che, passando in bicicletta, apostrofò un altro con le parole «un sei anche morto!».

Io ero partito studiando fisica e sono stato a lungo incerto se partecipare al concorso per entrare in Normale o quello per accedere all’Accademia navale di Livorno (da ragazzo ho visto tanti film di guerra sui sommergibili). A decidere la scelta pisana è stato in parte il caso, in parte una decisione momentanea. Giunto alla stazione di Livorno, mi ha aiutato a non scendere dal treno il torpore e la stanchezza accumulati dopo il lungo viaggio in nave.

La vita di ciascuno di noi è costellata di casualità, ma avanzando nell’età anche ciò che è stato reale finisce per sembrare irreale. Mi fa così un’impressione d’incredulità pensare che sono nato quando in Italia c’erano ancora la monarchia e il fascismo e nel mondo comandavano Stalin, Hitler e Roosevelt. Guardando indietro, sembra di aver vissuto in un sogno, in un mondo scomparso assieme alle persone che abbiamo conosciuto. Anche quest’aula rinvia attutite nella memoria le voci dei miei maestri e di alcuni amici e compagni di studio che non ci sono più (tra tutti, indimenticabile, quella di Onofrio Nicastro).

Mi sono occupato anche della tradizione della filosofia in Italia e incidentalmente, per certi aspetti, della storia dell’Università di Pisa. La caratteristica saliente della filosofia italiana è di non rivolgersi agli specialisti. L’Umanesimo e il Rinascimento hanno da noi spezzato il nesso con la Scolastica, dove vigeva l’ortodossia ma anche la ricerca del rigore logico e argomentativo e dove ci si indirizzava sostanzialmente agli studenti. Dal Cinquecento in poi la filosofia italiana ha invece come obiettivo un pubblico più ampio di persone colte sparse nella Penisola (si pensi a Machiavelli, a Bruno e più tardi a Vico o a Croce). Lo scopo era soprattutto quello di creare una comunità ideale, almeno sul piano della cultura, visto che il Paese era politicamente diviso in una pluralità di stati regionali e egemonizzato spiritualmente dalla Chiesa cattolica.

La filosofia italiana è quindi una filosofia civile, una filosofia della ragione impura, che si è interessata e ha dato il meglio in quei campi come la politica, la storia e l’estetica, campi dove non sono indispensabili dimostrazioni rigorose more geometrico. Ciò non significa che si debba essere carenti sul piano razionale, ma solo che ci si applica ad ambiti di maggiore complessità, che includono desideri e decisioni umane prive di quella necessità che caratterizza spesso i fenomeni naturali. Noi non abbiamo inoltre avuto una filosofia dell’interiorità – come la Francia con Pascal e Maine de Biran – per effetto dell’influenza della Chiesa cattolica, istituzione erede del diritto romano, una chiesa che pone l’accento sulle opere piuttosto che sulla sfera dell’interiorità. Non abbiamo, infine, avuto per tanto tempo una filosofia della scienza, malgrado la presenza di grandi scienziati (per citare solo quelli pisani o legati a Pisa: Fibonacci, Galileo, Pacinotti, Fermi). Abbiamo dovuto aspettare sino agli albori del Novecento, con Peano, prima che essa prendesse sporadicamente forma e che lo storicismo nostrano la spingesse nuovamente ai margini.

Personalmente aborro le varianti italiane di quello che chiamo storicismo invertebrato e, da questo punto di vista, mi sento meno legato alla tradizione italiana dominante nel secolo scorso. Il filosofo statunitense Richard Rorty mi ha una volta definito “il meno peninsulare dei filosofi italiani”, intendendo affermare che mi considerava il più aperto alle filosofie europee e americane. Gli ho risposto con una battuta, che contiene molta verità: “Questo perché sono il più insulare”. Ciò detto, della tradizione italiana apprezzo proprio la dimensione civile (purché non diventi retorica, ideologia o strumentale e faziosa propaganda politica) e disprezzo lo scimmiottamento o l’accettazione supina delle filosofie straniere, dove ci si trasforma, come i concessionari di marche automobilistiche, in meri rappresentanti di un dato filosofo americano, tedesco o francese.

Credo che sia giunto il momento di affrontare il tema promesso, un argomento su cui raramente riflettiamo perché lo diamo per scontato. Per brevità, userò concetti liofilizzati che ciascuno potrà poi sciogliere nell’acqua della propria esperienza. Ricordo solo, preliminarmente, che, parlando dei paradossi del tempo, il termine “paradosso” non indica affatto un’assurdità. “Paradosso”, come dice la parola greca, è ciò che va contro la doxa, l’opinio recepta, spesso peraltro condivisa anche dalla scienza (in questo caso dai Principia di Newton).

L’immagine più comune del tempo è quella di una retta infinita su cui scorre un punto indivisibile e senza spessore, il presente, che, avanzando a velocità costante, separa in maniera irreversibile il passato dal futuro. Si tratta di un’immagine comodissima e semplice, che può essere curvata circolarmente, come accade negli orologi.

Al pari dei bambini, vorrei provare a smontare la nozione di tempo per vedere come è fatto dentro e mostrare in che modo ogni suo elemento (il punto, la retta, la direzione, il verso, la velocità) può essere sostituito o dare adito a altre concezioni, che sono altrettanto plausibili di quelle comunemente accolte.

Vouet Simon (b. 1590, Paris, d. 1649, Paris) Saturn, Conquered by Amor, Venus
and Hope 1645–46 Oil on canvas, 187n x 142 cm Musée du Berry, Bourges

Vouet Simon (b. 1590, Paris, d. 1649, Paris) Saturn, Conquered by Amor, Venus and Hope 1645–46 Oil on canvas, 187n x 142 cm Musée du Berry, Bourges

Cominciamo. Mi considerereste un pazzo, se dicessi che il tempo non passa. E invece, già Agostino, ha dato una spiegazione altrettanto accettabile e sensata di quella corrente, quando ha sostenuto che noi non ci muoviamo mai dal presente. Il passato lo possiamo, infatti, vivere solamente nel presente come memoria e il futuro soltanto nel presente come attesa. Abbiamo, di conseguenza, un triplice presente: il presente del presente, come percezione in atto o attenzione, il presente del passato, come memoria, e il presente del futuro, come attesa o speranza. Agostino concepisce il tempo come risultato dell’estendersi o del contrarsi del nostro animo (distensio animi), che si comporta come una specie di fisarmonica o di elastico teso o ‘in riposo’. Da questo punto di vista, appunto, noi non ci spostiamo dal presente. I poeti rinascimentali e, soprattutto, barocchi, hanno elaborato paradossi audaci, ma condivisibili. Ad esempio, Luís de Góngora y Argote ha scritto una splendida poesia chiamata Reloj de arena, ossia Clessidra a sabbia, che dice:

Si quiero por las estrellas saber, tiempo,
Donde vas, veo que con ellas vas,
Pero non vuelves con ellas.
(…)
Pero, ahi!, que engañado estoy:
Tu eres, tiempo, el que te quedas
Y yo soy el que me voy!

(“Se chiedo alle stelle di sapere, tempo, / dove vai, vedo che te ne vai con loro / però non torni con loro. […]. Ma, ahimé, che m’inganno: sei tu, tempo, che stai fermo e sono io che me ne vado”).

In forma meno complessa, lo stesso paradosso si era presentato anche nella poesia francese del Cinquecento, in Ronsard: Le temps s’en va, le temps s’en va, Madame! / Le temps non, nous nou en allons (“Il tempo se ne va, il tempo se ne va, Signora! Non il tempo, noi ce ne andiamo”).

Consideriamo ora il punto del presente (l’istante o attimo, da atomos, indivisibile) che scorre sulla linea retta del tempo. È davvero indivisibile e senza spessore, al pari del punto geometrico? Ma allora, ci si può chiedere, come è possibile che da tanti punti senza spessore si formi la linea del tempo, visto che 0+0+0 =0 dà pur sempre 0?

Tale paradosso apre la strada all’idea che l’attimo sia extraterritoriale al tempo, ossia fuori dal tempo stesso. Ciò ha indotto, fra l’altro, a formulare una idea di eternità completamente diversa da quella cui siamo abituati. Noi crediamo, infatti, che l’eternità sia un tempo lungo a piacere e contrapponiamo quindi il tempo all’eternità sulla base della durata. Abbiamo dimenticato i classici e cioè gran parte della filosofia da Plotino (III secolo d.C.) e Boezio (V–VI secolo d.C.) a Hegel.

In Plotino (III, 7, 11) l’eternità (aión) è vita (zoé), nel Boezio della Consolazione della filosofia è pienezza di vita (plenitudo vitae) che può durare anche un attimo. Il tempo, a sua volta, costituisce, per così dire, un’emorragia di vita, è vita che va via, una forma di povertà, di felicità inutilmente inseguita proiettandoci nel futuro. La contrapposizione non è quindi tra tempo lungo e tempo breve, ma – per usare espressioni novecentesche – tra i “momenti d’essere” di Virginia Woolf o le “epifanie” di James Joyce dell’Ulysses (eternità come fuoriuscita dal tempo che può durare un attimo) e tempo che si consuma.

Un ulteriore paradosso è quello del tempo come unica linea retta. Ebbene, come nelle geometrie non euclidee esistono tante linee parallele alla retta data, così esistono anche tanti tempi paralleli compresenti nel tempo cronologico. Si pensi a un sogno di cinque minuti di orologio che al proprio interno può contenere eventi che durano anni, salti dall’infanzia alla maturità o dalla vecchiaia all’adolescenza. Vi sono poi tempi più o meno densi e veloci: il tempo di una drosofila (il moscerino della frutta tanto caro ai genetisti perché è effimero e si possono fare molte decine di controlli sul DNA all’anno) non è certo quello di una sequoia gigante della California. La loro scansione è evidentemente diversa.

Sto accumulando paradossi per mostrarvi come una nozione apparentemente così semplice e intuitiva qual è il tempo contenga elementi eterogenei e formi, per così dire, un concetto a grappolo. Prendiamo il caso del tempo psichico. In esso vi è un presente che fluisce e un passato che non passa o che trascorre molto più lentamente: quello dei nostri ricordi, soprattutto quando implichino traumi o esperienze eccezionali. Viviamo pertanto a due velocità, secondo un tempo che fluisce e un altro vischioso, che non si muove o si muove in ritardo. Con un altro paradosso, coesistenza e successione coesistono nel tempo psichico.

Francisco José Goya (Fuendetodos 1746 – Bordeaux, 1828), Saturno che divora uno dei suoi figli, 1820–1823. Olio su intonaco trasportato su tela, Madrid, Museo del Prado

Francisco José Goya (Fuendetodos 1746 – Bordeaux, 1828), Saturno che divora uno dei suoi figli, 1820–1823. Olio su intonaco trasportato su tela, Madrid, Museo del Prado

Mi sono occupato, tra l’altro, del déjà vu, fenomeno solo in apparenza curioso. Capita a tutti di provare l’impressione netta di aver già vissuto la stessa esperienza, di aver visto lo stesso paesaggio, di aver conosciuto la stessa persona pur essendo nello stesso tempo assolutamente certi di non aver mai vissuto quella esperienza, visto quel paesaggio, conosciuto quella persona e di non essere mai stati in quel determinato posto. Vi è quindi un conflitto tra la percezione ed il ricordo, un appiattimento del passato nel presente o un corto circuito tra presente e passato che mette in scena uno scontro tra certezza e verità, tra convinzione e consapevolezza del contrario. Il déjà vu è simile a un granello di sabbia che, bloccando per un istante un ingranaggio, ne rivela meglio da fermo i meccanismi, o a un crampo mentale che, arrestando per un attimo il normale scorrere del tempo, ha dato da pensare a molti filosofi e ha contribuito al nascere di quelle religioni che condividono la credenza nella trasmigrazione delle anime e nella possibilità di ricordare le passate esistenze. Questo fenomeno ha avuto anche implicazioni e conseguenze in campo medico (aggiungo, come inciso, che lo studio della filosofia si è svolto all’Università di Pisa all’interno della facoltà di Medicina dalle origini all’età napoleonica, quando si costituì un’autonoma facoltà di Filosofia, che poi confluì, con l’Unità d’Italia nella Facoltà di Lettere e Filosofia).

Dopo aver avuto una sconvolgente esperienza di déjà vu nel 1819, durante la sepoltura di una futura regina d’Inghilterra, e dopo aver compiuto l’autopsia di un amico ed aver scoperto che aveva soltanto un emisfero cerebrale ma aveva vissuto in maniera normale, un medico, appunto, Arthur Landbroke Wigan, scrisse nel 1844 un libro sulla Duality of mind per spiegare il déjà vu come una sfasatura nell’arrivo di una percezione al cervello. Il suo giungere, a distanza di centesimi di secondo prima in un emisfero e poi nell’altro darebbe luogo all’impressione che quello che ho vissuto in tempo indeterminato – ma che in realtà è accaduto pochissimo prima – sia una riedizione del passato. Anche oggi vi sono centri di ricerca che accettano sostanzialmente questa tesi o che attribuiscono il déjà vu a una disfunzione del lobo temporale sinistro.

Voglio da ultimo far notare la differenza tra il tempo cronologico omogeneo e indifferente (come lo spazio euclideo) e il tempo quantitativo della musica, che comprende suoni, voci ma anche i silenzi. Questi sono così importanti che si è potuto giustamente dire che nell’opera di Mozart anche i silenzi sono di Mozart.

Ho studiato al conservatorio, anche se ora sono un ignorante di ritorno. Due sono però le eredità rimaste. La prima, meno importante, è la capacità di distinguere l’intreccio degli strumenti in un concerto. La seconda, invece, mi è rimasta indelebilmente impressa e ha plasmato il mio ideale di filosofia: il congiungere il massimo di rigore, anche matematico, con il massimo di pathos. Non credo, infatti, che un filosofo debba scrivere in maniera sciatta, puramente asettica e soltanto tecnica (non per questo deve tuttavia diventare un poeta e, per converso, non penso neppure che un poeta o chiunque debba per forza trasformarsi in un astruso e raziocinante filosofo).

Nello Zibaldone Leopardi sostiene che, se non vuoi essere un “filosofo dimezzato”, devi capire le passioni, le illusioni e i desideri degli uomini. E, in maniera complementare, se non vuoi essere un poeta senza ispirazione, devi conoscere e praticare anche il pensiero astratto. Aggiunge però che ciascuno deve stare al suo posto: il filosofo deve conservare la sua “freddissima ragione” e il poeta il proprio caloroso modo di esprimere i sentimenti.

Questo significa che le passioni, i desideri e le illusioni devono essere sperimentate dal filosofo, così come le idee devono essere assorbite dal poeta, ma ciascuno svolge poi il suo mestiere.

Ultima osservazione ed anticipazione. Sta per uscire un mio libro intitolato La vita delle cose (non è un consiglio per gli acquisti), dove mi sono posto il problema di capire non come il soggetto agisca sul mondo, ma come le cose del mondo, nella loro differenziazione, retroagiscano sui soggetti che le hanno prodotte. A tale scopo ho proposto una distinzione tra “cosa” e “oggetto”. “Cosa” è la contrazione del latino causa, nel senso in cui noi ancora usiamo l’espressione “battersi per la causa”. Causa, come res, è ciÒ che mi interessa che mi sta a cuore e respublica è ciò che crea la comunità, che sta a cuore a tutti.

Objectum è, invece, un termine tardo, della scolastica medievale, che ricalca il greco próblema, il cui significato originario è “ostacolo”. L’oggetto è dunque qualcosa che io mi trovo di fronte e che cerco di inglobare. Implica l’esistenza di una sfida che si conclude con l’assimilazione e la distruzione dell’oggetto da parte del soggetto. La cosa mantiene invece la sua relativa autonomia, ma assorbe significati, che spesso si dimenticano, dai soggetti umani. Le cose rappresentano cristallizzazioni di intelligenza, di affetti, di simboli e di tecniche di cui spesso perdiamo significato. Abbiamo, di conseguenza, la possibilità di decifrare la nostra storia a partire dalle cose.

In conclusione, sperando di non avervi affaticato troppo, vi ringrazio nuovamente per questo atto di generosità nell’offrirmi il Campano d’oro. Sono fiero di appartenere alla comunità rappresentata dall’Università di Pisa, un’istituzione plurisecolare che esiste e resiste – con alcune interruzioni – fin dal 1343 e che ha contribuito a forgiare la cultura italiana e internazionale. Sia come docente che come studente, ognuno di noi costituisce l’anello di una lunga catena che si collega, da una parte, alle generazioni passate e, dall’altra, alle generazioni future. L’aver intrecciato la mia vita alla vostra e a quella della città è, cari amici e colleghi, un privilegio di cui ancora vi sono grato.

Remo Bodei
docente di Filosofia alla University of California Los Angeles