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Una vita per il diritto internazionale
All’illustre giurista Antonio Cassese il “Campano d’Oro” 2009

Con un ricordo degli anni pisani e un’appassionante conversazione sulla giustizia penale internazionale, il 22 febbraio scorso ilprofessor Antonio Cassese ha ricevuto in Sapienza il “Campano d’Oro”, massimo riconoscimento dell’Alap, l’Associazione laureatidell’ateneo pisano. Il numeroso pubblico e le qualificate personalità presenti hanno reso un omaggio affettuoso e solenne a una figuratra le maggiori del panorama mondiale del Diritto internazionale contemporaneo. Il contributo che pubblichiamo è ripreso dallarassegna periodica dell’Associazione laureati dell’Ateneo pisano, Il rintocco del Campano, che ha dedicato alla cerimonia dello scorsofebbraio un approfondimento speciale.

La cerimonia si è aperta con un sentito indirizzo di saluto del professor Roberto Barsotti, prorettore vicario dell’università di Pisa, il quale ha illustrato i meriti e le qualità di Antonio Cassese, non soltanto studioso del diritto internazionale ma protagonista di scelte diplomatiche a livello mondiale. Giurista aperto al dialogo, all’ascolto, al confronto di idee, ha saputo parlare ai moltissimi suoi studenti con rigore, passione e semplicità. Nei suoi contributi scientifici, che toccano tutte le principali tematiche della materia, Cassese offre un metodo innovativo di analisi giuridica: la norma viene calata nel particolare contesto in cui è sorta, così da trarne la ratio alla luce del bilanciamento di contrapposti interessi che mira a realizzare. Si tratta di un notevole passo avanti rispetto alla vecchia cultura giuridica del formalismo, che Cassese ha insegnato a superare senza scadere nella sociologia giuridica. Il nome di Cassese è particolarmente legato alla materia dei diritti umani, che lo ha condotto ad assumere concreti impegni di natura diplomatica e giudiziaria con grande coraggio e intransigenza morale, come quando ricevette dalle Nazioni Unite il delicato incarico di illustrare il tragico impatto sui diritti umani del governo cileno di Pinochet. E proprio nell’ambito della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo Cassese ha profuso il suo impegno non soltanto di studioso, bensì di concreto interprete delle più alte esigenze di giustizia a livello internazionale, sedendo in qualità di magistrato nei collegi giudicanti i crimini contro l’umanità, e da ultimo ricoprendo il ruolo di Presidente della Corte penale internazionale, con sede all’Aja. Per questo suo straordinario curriculum, Cassese ha ricevuto tutti i riconoscimenti e premi che la scienza internazionalistica poteva conferire a un suo così eccelso cultore.

Il professor Eugenio Ripepe

Un professore “pisano” che opera nel mondo
Ha quindi preso la parola il preside della facoltà di Giurisprudenza, professor Eugenio Ripepe, che ha tessuto le lodi dell’illustre festeggiato, rivendicando con orgoglio, a nome della facoltà, l’appartenenza di Cassese alla nostra Università. Ripepe ha infatti evidenziato le salde radici pisane del festeggiato, dapprima studente e poi giovane docente pisano impegnato, subito dopo la laurea, a sostituire in tutte le incombenze accademiche l’allora titolare della cattedra di Diritto internazionale (che per vari motivi era sempre assente). Cassese non tardò ad ottenere quello che era suo: la cattedra cioè di Diritto internazionale nella nostra facoltà. Nel frattempo però era diventato per parecchi studenti – tra cui lo stesso Ripepe – un punto di riferimento non solo culturale per la sua affabilità, apertura intellettuale e molteplicità di interessi (doti del tutto inconsuete nei docenti della sua generazione). Tanto che, quando Cassese venne chiamato a Firenze, la comunità pisana che si era stretta intorno al Maestro visse la cosa come una perdita ingiusta, e buona parte della nostra Facoltà venne colpita da una sorta di sindrome da abbandono. Un abbandono ampiamente ricompensato, peraltro, dall’orgoglio che oggi può provare la nostra Università nel sapere l’antico studente e giovane docente “pisano” Antonio Cassese al centro degli impegni diplomatici e della scienza internazionalistica, sempre e soltanto al servizio e nell’interesse dell’umanità. Ma dispiace agli antichi allievi e numerosi estimatori pisani di Antonio Cassese sentir qualificare il loro Maestro come il professore fiorentino. Si tratta dell’ennesimo “furto di gloria” in danno dell’Ateneo pisano da parte della città di Firenze, che dopo aver ribattezzato Littera florentina quell’esemplare del Digesto portato in Occidente dai pisani - e a lungo chiamato Littera pisana prima che i fiorentini se lo portassero via - ha definito Galileo Galilei “patrizio fiorentino” e adesso attribuisce al “nostro” Cassese radici fiorentine. “Non pretendiamo - ha concluso Ripepe - una messa a punto formale, della quale in effetti non ci sarebbero gli estremi; ma ci piacerebbe sentirci dire da lui una cosa che ci impegniamo a far rimanere in queste quattro mura, e cioè che lui in fondo al cuore si continua a considerare ancora e sempre pisano. Perché è certamente vero che ha trascorso più anni a Firenze che a Pisa, ma, diciamo la verità, gli anni che ha trascorso a Pisa li ha trascorsi quando gli anni duravano di più”.
L’intervento del professor Cassese

Dopo la lettura della motivazione del conferimento da parte del professor Attilio Salvetti, presidente dell’Alap, è intervenuto lo stesso professor Antonio Cassese rivolgendosi all’attento pubblico con semplici, intense e significative parole.

Antonio Cassese

Il ricordo degli anni pisani
Vi ringrazio profondamente per le tante parole di affetto e per questa indimenticabile giornata. Troppe lodi mi sono state rivolte; è vero però che la mia attività è sempre stata intensa: per me non esiste quella che Hegel chiamava la domenica della vita. Ho un’indole frenetica e sono convinto che ci si debba sempre adoperare per migliorare il mondo che ci circonda. Desidero in questa sede ricordare insieme a voi i miei anni pisani. A 17 anni partii dalla natia Salerno per entrare in quello che si chiamava allora Collegio Medico Giuridico (l’antenato dell’attuale Scuola Superiore Sant’Anna), passando per un severissimo esame. Venni ascoltato da una commissione di sette docenti tra cui il già anziano Lorenzo Mossa, il quale volle (lui docente di Diritto commerciale) che gli illustrassi nel dettaglio le tragedie di Shakespeare. Iniziò così la mia avventura pisana, immerso in una sorta di doppia vita tra gli esami di diritto in Sapienza e le lezioni di storia e filosofia alla Scuola Normale, cui era annesso il citato Collegio. Era vicedirettore della Normale il giovane professore Tristano Bolelli, eminente glottologo che faceva le veci del direttore Ettore Remotti (un professore di materie scientifiche a Genova, non molto conosciuto ma simpatico), successore di Luigi Russo (quest’ultimo allontanato dalla Scuola non appena terminata la prima fase del dopoguerra). Bolelli ci disse chiaro e tondo: “Qui non si fa più politica e si studia il tedesco”. Ovviamente tutti noi studiammo a fondo il tedesco, ma continuammo a impegnarci nella politica, divisi tra cattolici e comunisti. Anche la vita della Facoltà fu per me molto interessante e formativa. Avevamo contatti quotidiani coi professori, quasi tutti fuori sede che al termine della loro carriera passavano da un incarico a Pisa per stabilirsi poi all’università di Roma (ricordo insigni giuristi come Massimo Severo Giannini, Giuseppe Sperduti, Franco Pierandrei, Gino Gorla, Ugo Natoli, Paolo Frezza e tanti altri). La temperie culturale giuridica di quegli anni era all’insegna del più rigoroso formalismo, quasi che il diritto fosse materia astratta, separata dalla realtà. Due aneddoti in proposito. Una volta, mentre studiavo nell’aula del “Seminario Giuridico”, ebbi la ventura di sentire nella stanza attigua Massimo Severo Giannini chiedere ad un suo collega, il grande processualcivilista Andreoli, cosa ne pensasse de L’Ordinamento giuridico di Santi Romano; Andreoli da vero formalista rispose: “Quel libro?... È un romanzo!”. In altra occasione parlavo entusiasticamente al Professor Frezza, nostro Preside, delle mie letture di Thomas Mann e Carl Schmitt. Frezza mi colpì molto con questa osservazione: “Cassese, questi suoi pruriti culturali mi sorprendono”. Io invece desideravo aprirmi oltre il campo limitato del diritto, a discipline lontane dalla “dogmatica giuridica” che invitavano a “sporcarsi le mani” nelle concretezze della vita politica e sociale, come la materia del diritto costituzionale. Scelsi infatti per la tesi (con Sperduti) un argomento in realtà più politico che giuridico, L’autodeterminazione dei popoli, tema che mi ha accompagnato sino ad oggi. In realtà la mia formazione deve moltissimo agli anni pisani, che mi hanno insegnato il rigore nello studio, consentendomi poi di razionalizzare fenomeni apparentemente disomogenei, magmatici e oscuri. Anzi, questa mia formazione pare che abbia indirettamente favorito - cosa invero singolare - la brillante carriera giornalistica di Tiziano Terzani, che nel 1961 si laureò in diritto internazionale. Io commentai criticamente la sua tesi con molte postille - questo me lo ricordò lui stesso quando, un anno prima della sua scomparsa, ebbi la fortuna di assistere a una sua conferenza - e in una lettera di accompagnamento al manoscritto gli suggerivo di contenere il suo stile ricco ed esuberante, perché (scrivevo citando Kant) “La scienza deve essere arida”. Queste parole (a quanto poi ebbe a riferirmi Tiziano) gli fecero comprendere con chiarezza che non avrebbe dovuto spendere ulteriormente la sua vita sui codici. Pisa mi offrì anche la possibilità di partecipare a un “cenacolo di dotti” composto quasi esclusivamente da ex normalisti che si riunivano periodicamente presso una tavola calda in Corso Italia. Qui conobbi Luigi Blasucci, Sebastiano Timpanaro, Cesare Cases, Carlo Ripa di Meana e molti altri. La cucina era modesta ma ascoltavo le conversazioni di questi grandi studiosi imparando moltissimo.

cerimonia del campano d'oro a A. Cassese

La giustizia penale internazionale Per il diritto, la giustizia penale internazionale è un fenomeno alquanto nuovo e di grande fascino. Tutto nacque all’indomani della seconda guerra mondiale coi processi di Norimberga e di Tokio. Churchill aveva proposto di passare per le armi le alte autorità politiche, militari ed amministrative del nazismo (circa diecimila persone); Roosevelt prima e Truman poi vollero invece che gli addebiti fossero verificati per il tramite di un processo, sia per un’irrinunciabile esigenza di giustizia che per consentire la raccolta accurata di documenti e testimonianze a futura memoria sulle barbarie dei regimi totalitari. Durante la guerra fredda la giustizia penale internazionale rimase del tutto bloccata a causa della contrapposizione dei due blocchi antagonisti, ma successivamente si è avuto il fiorire dei tribunali penali internazionali. Nel 1993 si è insediato il tribunale per la ex Jugoslavia, e nel 1994 quello per il Ruanda; dal 2002 è operativa la Corte penale internazionale all’Aja. Questi organi si occupano di crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio eccetera; il tribunale per il Libano che attualmente presiedo si dedica invece al fenomeno del terrorismo. Cos’è la giustizia penale internazionale, e perché è così importante? Prima i rapporti erano esclusivamente tra stati, vale a dire che, se uno stato violava una norma di diritto internazionale, l’altro stato danneggiato poteva ricorrere alle “sanzioni “ nei confronti dello stato danneggiante, che era tenuto al risarcimento dei danni. Un esempio Italia-Grecia: nel 1923 venne ucciso a Corfù, da terroristi greci, il generale italiano Tellini. Mussolini reagì duramente facendo bombardare Corfù e lo stato greco fu tenuto a versare una consistente somma all’Italia a titolo di risarcimento danni. Oggi, invece, la giustizia penale internazionale va, per così dire, al cuore del problema, punendo non lo stato, ma l’individuo fisico che si è macchiato della contravvenzione di una norma internazionale, e più precisamente della violazione di diritti umani (ad esempio genocidio). La violazione dei diritti umani integra oggi un crimine internazionale, la cui repressione viene attuata non obbligando lo stato in cui detta violazione avviene al pagamento di una somma di denaro, ma catturando e punendo i responsabili morali (mandanti) o materiali (carnefici) di quel crimine. Si squarcia così il velo della sovranità statuale per consentire alla comunità internazionale di individuare i rei di crimini internazionali e processarli. È stato il caso, tra gli altri, di Pinochet (Cile), Milosevic (Serbia), Taylor (Liberia), Karadzic (Bosnia), al- Bashir (Sudan). La creazione dei tribunali penali internazionali è un passo da gigante nella lotta a questi crimini, ma patisce ancora forti limitazioni e contraddizioni. La principale limitazione è costituita dall’assenza di una polizia giudiziaria internazionale, che riduce moltissimo l’autonomia della Corte, la quale per eseguire un mandato di cattura deve necessariamente rivolgersi alla polizia dello stato nel cui territorio il criminale si trova. La contraddizione invece è questa: proprio quei cinque stati che sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU - che ha la funzione di salvaguardare la pace e la sicurezza - sono i maggiori produttori e venditori mondiali di armi e dunque alimentano le guerre. Di fronte a questo scenario, il nostro compito è quello di trasmettere un messaggio di ottimismo alle giovani generazioni. Proprio nelle aule di questo Ateneo ho appreso due valori fondamentali: il rigore della scienza e la sensibilità per i grandi problemi della realtà sociale e le sue ingiustizie. Rigore e sensibilità che non devono riferirsi soltanto allo studio e alla conoscenza, ma anche all’approfondimento e alla preservazione dei più alti principi etici a cui l’Università deve educare i giovani. È nostro compito trasmettere ai giovani quello che Hegel chiamava entusiasmo dello spirito, una tensione continua all’operosità e all’impegno, senza cedere alla pigrizia e al sonno di una comoda ma passiva domenica della vita.

Francesca Ferretti
f.ferretti@adm.unipi.it