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Il Leviatano nel deserto del Perù

Quattro anni di ricerche sul terreno, nel deserto costiero del Perù, hanno portato alla scoperta del più feroce predatore del passato. Il leviatano, rappresentato nella tradizione biblica e nell’immaginario collettivo come un mostro marino e descritto da Melville come un capodoglio dalle dimensioni enormi e dall’incredibile ferocia, emerge da strati rocciosi di 12-13 milioni di anni fa. Si tratta in realtà di un lontano parente dell’attuale capodoglio, al quale è stato dato nome Leviathan melvillei, dedicandolo al celebre autore di Moby Dick. Leviathan condivide con il capodoglio le enormi dimensioni (da 14 a 18 metri) ma non la dieta: non si nutriva infatti di polpi e calamari come il cugino attuale, ma di balene, che afferrava ed immobilizzava con i grossi denti strappandone le carni a morsi. Il mostro marino è stato descritto su “Nature”, nel numero del 1° luglio 2010.

Il sette giugno del 2006 entrammo per la prima volta nel “deserto delle balene”, una stretta fascia costiera che si estende per oltre 300 chilometri a sud della città di Ica. Si tratta di una delle zone più aride al mondo dove praticamente non piove mai: dalle coste, lambite dalla fredda corrente di Humbolt che risale dall’Antartide, non arriva umidità e, ad oriente, l’imponente catena andina impedisce l’arrivo delle masse d’aria umida provenienti dall’Amazzonia. Partimmo la sera tardi da Ica: era già buio e faceva molto freddo, perché di notte, come avviene in genere nei deserti, la temperatura scende quasi fino allo zero. Montammo le tende a notte inoltrata e la mattina seguente, all’alba, cominciò la nostra prima perlustrazione a caccia di balene e degli altri fossili che affiorano in questo sterminato deserto. In realtà andavamo quasi a colpo sicuro perché la straordinaria ricchezza di fossili di questo deserto era nota da tempo. Fu un italiano, Antonio Raimondi, un naturalista piemontese trasferitosi in Perù nel 1850, il primo a trovare diversi scheletri di cetacei fossili in questo deserto. Ma il grande interesse scientifico per questa area si deve soprattutto agli studi condotti, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, dal collega Christian de Muizon del museo nazionale di storia naturale di Parigi. Le sue ricerche hanno portato alla scoperta di una straordinaria fauna a mammiferi marini che ha permesso di ridescrivere la storia evolutiva di molti gruppi di cetacei e di pinnipedi. Tra questi fossili si annoverano forme bizzarre come Odobenocetus, un parente del narvalo che ha percorso a ritroso le tappe evolutive dei cetacei divenendo smile a un tricheco (Odobenus), e animali incredibili come Thalassocnus, un bradipo marino adattato alla vita acquatica. Recentemente in questo deserto è stato scoperto, da altri ricercatori, anche Icadyptes, un pinguino gigante vissuto 35 milioni di anni fa. Era alto più di un metro e mezzo e il suo ritrovamento attesta l’origine in acque tropicali di questi uccelli marini. Alcuni colleghi americani hanno realizzato un censimento dei reperti fossili affioranti e, in un’area di appena un chilometro quadrato e mezzo, sono stati individuati oltre 300 scheletri di balene, molte delle quali conservavano ancora i fanoni. Si tratta di un fatto estremamente raro perché queste lamine cornee non sono in origine mineralizzate e in genere vengono distrutte in pochi giorni dopo la morte dell’animale dalla putrefazione o dall’attacco degli organismi necrofagi che vivono sul fondo del mare. Ma sull’antico fondale marino dove si sono depositate le carcasse di queste balene e di tutti gli altri vertebrati fossili che affiorano in questo deserto c’erano veramente condizioni eccezionali: assenza di ossigeno e un apporto continuo di sedimento dovuto soprattutto ad una “pioggia” persistente di scheletri di diatomee. Queste alghe unicellulari in particolari condizioni, che ancora oggi si verificano al largo delle coste peruviane, possono riprodursi in maniera abnorme e, una volta morte, generare con i loro resti caduti sul fondo delle spesse coltri di fango. È in questo fango diatomitico inospitale per ogni forma di vita che affondarono le carcasse delle balene e degli altri vertebrati marini, sepolte in quello che oggi, a causa del continuo sollevamento dovuto alla tettonica, è diventato un deserto. La costa peruviana, infatti, è un’area molto “giovane” dal punto di vista geologico: qui la crosta oceanica scende sotto la zolla sudamericana generando l’arco vulcanico andino. Nonostante questa grande attività tettonica il bacino di avan-arco ad ovest delle Ande, l’area in cui vissero questi vertebrati marini, è rimasto relativamente tranquillo per oltre 40 milioni di anni mantenendo le eccezionali condizioni di fossilizzazione per tutto questo lungo intervallo di tempo. È per questo motivo che nel “deserto delle balene” si ritrovano resti fossili eccezionalmente ben conservati in continuità dagli strati rocciosi più antichi (dell’Eocene) a quelli più recenti (del Pliocene). Si tratta di una condizione unica al mondo che permette di ripercorrere nel dettaglio le tappe evolutive dei principali gruppi di vertebrati marini dell’era cenozoica. Pertanto, quando cinque anni fa proposi ai colleghi Klass Post e Olivier Lambert (rispettivamente dei musei di storia naturale di Rotterdam e di Bruxelles) di intraprendere un progetto di ricerca su questo vero e proprio “laboratorio dell’evoluzione”, trovai grande entusiasmo a partecipare, entusiasmo che è stato gratificato da una serie di incredibili scoperte culminate con il ritrovamento del leviatano. Le prospezioni sul terreno, che si sono susseguite dal giugno del 2006 al novembre del 2008, hanno portato alla scoperta di diversi nuovi siti fossiliferi e di straordinari reperti che solo in parte abbiamo già descritto e pubblicato. Nelle aree dove affiorano gli strati eocenici più antichi ci siamo imbattuti in resti di archeoceti, cetacei primitivi che attestano le prime fasi evolutive della storia delle balene e dei delfini, e abbiamo individuato scheletri completi di basilosauri, archeoceti serpentiformi lunghi oltre 15 metri. Ma le nostre ricerche si sono concentrate soprattutto negli strati del Miocene, un’epoca relativamente più recente in cui gli archeoceti erano ormai scomparsi da diversi milioni di anni lasciando il posto ai due gruppi di cetacei ancora viventi: gli odontoceti, gli attuali cetacei con denti, e i misticeti, i cetacei che nel corso della loro evoluzione hanno sostituito i denti con i fanoni. È proprio investigando nelle aree dove affiora il Miocene che abbiamo trovato uno dei più ricchi giacimenti fossiliferi del deserto delle balene: Cerro Colorado, un piccolo rilievo che si erge dal piatto deserto a circa 35 chilometri a sud-ovest della città di Ica. Mario Urbina, un collega peruviano, aveva già fatto dei sopralluoghi in questo sito prima del nostro arrivo, individuando alcuni reperti ma restava da verificare, perlustrando attentamente l’area, se si trattasse di fossili isolati o di un vero e proprio giacimento. Per trovare i fossili del deserto delle balene bisogna camminare per chilometri scrutando tutto ciò che affiora dalla sabbia. Si tratta infatti di un giacimento “a cielo aperto” dove le scoperte non avvengono a seguito di scavi, ma grazie all’erosione del vento che, soprattutto durante le tempeste di sabbia, erode gli strati affioranti portando alla luce i fossili contenuti al loro interno. La stessa sabbia periodicamente può ricoprire o riscoprire più volte i reperti affioranti. Pertanto le condizioni cambiano da un giorno all’altro e una nuova perlustrazione in un’area già investigata può dare sempre sorprese. A Cerro Colorado ci siamo resi subito conto di trovarci in un’area ad elevatissima concentrazione di fossili: sono sufficienti pochi passi per trovare uno scheletro di balena o di delfino, resti di tartarughe marine o denti di squalo. Ed è proprio a Cerro Colorado che Klaas, il 17 novembre 2008, l’ultimo giorno della nostra ultima campagna di scavo, si è imbattuto nei resti del leviatano. Klaas stava compiendo misurazioni su alcune balene quando si è accorto che un cranio presentava qualcosa di strano: nel palato si vedevano, sezionati, dei denti del diametro di oltre 10 cm e lunghi quasi 40 centimetri. Non si trattava quindi di un misticeto ma di un odontoceto con denti enormi.

Bianucci

La scoperta effettuata da Giovanni Bianucci ( a sinistra nella foto) e dai suoi colleghi è frutto di una cooperazione internazionale con ricerche sparse un po’ in tutto il mondo - dall’Africa al Sud America - che dura ormai da diversi anni. Klass Post e Olivier Lambert (a destra nella foto) sono i colleghi con i quali il ricercatore pisano ha condiviso la maggior parte delle scoperte. Christian de Muizon, Rodolfo Salas, Mario Urbina e Jelle Reumer hanno partecipato a diverse fasi della scoperta, del recupero e dello studio del leviatano. (foto G. Bianucci).

La rottura dei denti mascellari è probabilmente da attribuirsi all’erosione anche se non si può escludere, almeno in parte, una causa antropica:nella stessa area, infatti, sono frequenti frammenti di ceramiche, resti di pasti e altri indizi che testimoniano una frequentazione umana in epoca precolombiana. Il recupero del reperto, curato da Rodolfo Salas e da altri paleontologi del museo di storia naturale di Lima, è stato complesso e ha richiesto un delicato consolidamento sul posto del fossile prima che questo potesse essere estratto e trasportato al museo. Ancora più difficile è stata la ripulitura dal sedimento e l’assemblaggio dei vari frammenti. La completa preparazione del reperto, realizzata nei laboratori del museo di Lima, ha richiesto circa un anno di lavoro. Lo abbiamo chiamato Leviathan melvillei perché tutti noi davanti a questo mostro abbiamo pensato subito a Moby Dick, il feroce capodoglio identificato più volte da Herman Melville con il leviatano, quello che la tradizione biblica indica come il mostro marino per antonomasia. E Leviathan, forse il più temibile predatore marino fino ad oggi conosciuto, è effettivamente un parente alla lontana dell’attuale capodoglio (Physeter macrocephalus) con il quale condivide le dimensioni gigantesche (dai 14 ai 18 metri) e il grande spermaceto posto sopra la testa. Diversamente dal capodoglio, Leviathan aveva una batteria di denti completa: 18 nella mascella superiore e 22 in quella inferiore. Era quindi un feroce predatore che afferrava ed immobilizzava la preda con i grossi denti e ne stappava le carni a morsi, allo stesso modo dell’attuale orca (Orcinus orca). Niente a che vedere con il capodoglio che ha perso i denti superiori e si nutre prevalentemente aspirando a bocca aperta polpi e calamari. Confrontato con altri grandi predatori del passato, Leviathan non sembra avere molti rivali alla sua altezza, sia in terra che in mare: il temibile Tyrannosaurus rex aveva un cranio che raggiungeva al massimo la metà della lunghezza di quello di Leviathan e denti lunghi in genere intorno a 15 cm; Liopleurodon, un rettile marino del Giurassico, aveva un cranio di taglia simile a quello del tirannosauro e denti di 20 cm. L’unico vero competitore di Leviathan fu il popolare megalodon (Charcharocles megalodon), uno squalo gigantesco, lungo forse fino a 20 metri e vissuto da circa 30 a 3 milioni di anni fa. Pare incredibile, ma nello stesso giacimento di Leviathan, abbiamo ritrovato anche denti fossili di megalodon, a prova della contemporanea presenza di questi due mega-predatori nello stesso ambiente, dove probabilmente si nutrivano delle stesse grandi prede (balene lunghe 10 metri ritrovate fossili sempre nello stesso giacimento).

ritrovamento di Leviathan

Cerro Colorado, 17 novembre 2008: ritrovamento di Leviathan. (foto G. Bianucci).

La scoperta di mostri marini come Leviathan pone interrogativi che stimolano ad andare avanti con queste ricerche: quale fu l’impatto di questi mega-predatori sulle comunità marine? Quale azione selettiva esercitarono sulle prede? Come mai sono scomparsi dai mari attuali? Queste ed altre domande attendono risposte che potrebbero venire da nuove scoperte in quell’incredibile laboratorio dell’evoluzione che è il deserto peruviano. Ma le eccezionali condizioni che si presentano in questi giacimenti offrono anche l’occasione per intraprendere progetti più ambiziosi al fine di un migliore inquadramento stratigrafico dei giacimenti fossiliferi, per ricostruire con maggior dettaglio l’ambiente marino in cui vivevano questi animali e per effettuare censimenti più accurati e a più ampia scala dei reperti affioranti. Una più precisa quantificazione delle potenzialità effettive del deserto delle balene permetterà anche di pianificare azioni per la salvaguardia e la gestione di questo immenso patrimonio naturale. Tanto più che le particolarità ambientali e le eccezionali condizioni di affioramento individuate ben si prestano all’applicazione di moderne tecnologie, come ad esempio la modellazione tridimensionale, che permettono in tempi ridotti rilievi accurati degli affioramenti e dei reperti senza la necessità di effettuare scavi. Queste tecniche sono già state sperimentate sui dinosauri della Patagonia argentina dai paleontologi pisani nell’ambito di un progetto coordinato dal professor Walter Landini e in un prossimo futuro verranno applicate anche nel deserto delle balene.

Disegno di Leviathan

Disegno di C. Letenneur.

Giovanni Bianucci
ricercatore in
Paleontologia dei vertebrati

bianucci@dst.unipi.it

"Quando mi trovo in mezzo a questi enormi scheletri leviatanici, a crani, zanne, fauci, costole e vertebre, tutti caratterizzati da parziali somiglianze con le razze esistenti di mostri marini e che allo stesso tempo hanno notevoli affinità con i leviatani preistorici estinti, loro inimmaginabili antenati, mi sento trasportato, come da una marea, a quel periodo straordinario prima che il tempo stesso iniziasse, perché il tempo è iniziato con l’uomo. [...] Allora il mondo apparteneva alla balena che, regina della creazione, tracciava la sua scia lungo quelle che ora sono le linee delle Ande e dell’Himalaya.

Herman Melville Moby Dick, capitolo CIV"