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biondaSe n'è andato improvvisamente, probabilmente e fortunatamente, senza neppure accorgersene Alberto Bionda, Ricercatore della ex Facoltà di Medicina dell'Università di Pisa in pensione da alcuni anni: un uomo che ha lasciato un segno del suo passaggio.

Interprete convinto degli insegnamenti della Scuola del Professor Gabriele Monasterio e paladino della Clinica Medica, Alberto aveva naturalmente assorbito la serietà di comportamento, la passione per lo studio della Medicina e l’attenzione alla cura dei malati. Molto colto, aveva veramente una formazione universitaria e da universitario si comportava sia con i pazienti per i quali approfondiva costantemente la diagnosi, sia con gli studenti ai quali si dedicava con passione insegnando, oltre alla Medicina, anche l’attenzione al comportamento, al rispetto, alla presa in carico ed alla forma. Si era dato anima e corpo all’educazione dei giovani post-laurea, sia nella Medicina d’Urgenza, sia nei corsi di Infermieristica.

Anche recentemente aveva sostenuto un realistico progetto di interazione tra ospedale e territorio che avrebbe permesso, se realizzato, di migliorare – o meglio di realizzare – una assistenza integrata ed una reale presa in carico dei pazienti cronici.

Dopo il suo soggiorno negli USA era rientrato a Pisa portando metodiche innovative per la terapia e la diagnosi delle dislipidemie mantenendo contatti con i principali centri italiani ed internazionali.

Amico, anche fraterno, di persone che hanno avuto ruoli importanti nella Facoltà di Medicina e nell'Ateneo Pisano, non ha mai approfittato della amicizia per ottenere privilegi o scalare posizioni, che, a suo modo di vedere, non gli competevano, ma, piuttosto, si è preoccupato dello sviluppo dell’area medica pisana partecipando alle decisioni più importanti degli ultimi anni.

Per i suoi non numerosi amici era una persona con caratteristiche così inconsuete, che la definizione di “unica” è stavolta appropriata. Nette e sostanzialmente irrevocabili le sue decisioni; smisurato il suo amore per la Medicina e per l'insegnamento; ferree le regole che imponeva a sé e agli altri e che aveva imparato nella sua famiglia, orientando i suoi comportamenti sempre secondo logiche rigide, lineari, improntate alla più assoluta onestà.

Carattere difficile, quello di Alberto, anche per i suoi veri amici. Qualunque cosa pensasse, se anche avesse potuto urtare la suscettibilità del suo interlocutore, se era importante che venisse resa nota, la diceva. L'espressione di “non avere peli sulla lingua”, usata frequentemente, quando si parlava di Alberto era veramente calzante. Di Alberto sapevi sempre che cosa pensasse di te e che cosa pensasse di qualsiasi situazione.

Ha lasciato la Medicina, ma ha continuato a studiarla e ha trasmesso l'amore della Medicina alla figlia Alessandra. Alessandra e Guglielmo, i figli ai quali dedicava i suoi pensieri, in un difficile equilibrio tra una presenza di supporto e di stimolo anche critico, talvolta ingombrante e la consapevolezza della necessità di osservare a distanza, senza intervenire, ma solo essere disponibile.

Per molti anni Alberto ha sofferto per una patologia sostanzialmente congenita, per la quale ha dovuto subire numerosi interventi, sempre sopportati con riservatezza e stoicismo.

Negli ultimi anni aveva trovato pace e serenità ritirandosi ad Ornavasso nella sua Valla natia, ristrutturando la casa di famiglia e immaginando di poter vivere tra la Val d'Ossola e la Toscana, che lo aveva adottato e dove vive ancora la sua famiglia. Più volte ci aveva parlato della sua idea di acquistare una casa sulla costa a sud di Livorno, e di comprare una barca per veleggiare durante la bella stagione, magari con il figlio Guglielmo.

Purtroppo, tutto è finito, proprio quando noi, i suoi amici più cari, parlando della sua imminente venuta in Toscana (Covid-19 permettendo), stavamo organizzando una cena che mancava ormai da molto tempo. Il suo cuore si è spento in un modo che gli sarebbe piaciuto e non solo perché non lo ha fatto soffrire (Alberto era uomo capace di sopportare la sofferenza), ma, soprattutto, per non arrecare disturbo a nessuno: da figlio di un vero carabiniere voleva e sapeva stare al servizio degli altri, ma non voleva che gli altri si mettessero al suo.

Gli Amici della Scuola di Medicina

Con uno studio che ha riguardato un fossile di femore scoperto a luglio del 2001 in Chad, un team di ricercatori ha gettato dubbi sul Sahelanthropus tchadensis, una specie descritta come il primo ominino in base a evidenze morfologiche del cranio che sembravano indicare una locomozione bipede. Lo studio di questo femore a cui ha partecipato l’antropologo Damiano Marchi, professore al Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, e coordinato dal professor Roberto Macchiarelli dell’Università di Poitiers in Francia, è stato pubblicato sul Journal of Human Evolution, la rivista di riferimento per la paleoantropologia.
“I risultati dell’analisi di morfologia funzionale effettuati sul femore di Sahelanthropus tchadensis e il confronto con altri fossili più o meno coevi suggeriscono che il femore TM 266 appartenga a un individuo che non era in grado di camminare abitualmente in maniera bipede – spiega il professor Marchi - Questo risultato dovrebbe essere tenuto in considerazione quando si cerca di capire la posizione di Sahelanthropus tchadensis rispetto agli altri fossili ominini”.
Ma partiamo dall’inizio. Sahelanthropus tchadensis è un fossile trovato nel 2001 in Chad, a Toros-Menalla, da un team franco-ciaddiano. La scoperta ha fatto molto scalpore perché il fossile è stato datato a sette milioni di anni fa, quindi vicino al periodo che si ipotizza abbia visto la separazione tra l’antenato delle scimmie antropomorfe attuali e l’antenato degli uomini moderni. Lo studio del cranio sembrava indicare una locomozione bipede ed è per questo che la nuova specie fu descritta come il primo ominino. Queste conclusioni sullo stato bipede del fossile hanno però creato molti dubbi nella comunità paleoantropologica a causa della deformazione del cranio e della mancanza di evidenze dal resto dello scheletro.
A luglio del 2001 è stato poi rinvenuto il fossile di un femore parziale (numero di catalogo TM 266-01-063) in associazione spaziale con il cranio di Sahelanthropus tchadensis, che non era mai stato descritto in precedenza. Il femore fu per la prima volta riconosciuto come un probabile femore di primate da uno degli autori del lavoro (Aude Bergeret-Medina) che nel 2004 stava effettuando un sondaggio tafonomico sull’insieme di fossili trovati a Toros-Menalla.
Alla luce del recente studio, il femore non sembra però indicare una locomozione bipede: “I nostri risultati pur gettando qualche dubbio sullo stato bipede di Sahelanthropus tchadensis e quindi sul suo ruolo come primo ominino, non diminuiscono l’importanza della specie nel panorama evolutivo. Le evidenze degli ultimi quattro milioni di anni mostrano una grande diversità tassonomica nel gruppo degli ominini – aggiunge Marchi – Non c’è ragione di credere che lo stesso tipo di diversità non fosse presente anche nel Miocene, il periodo in cui Sahelanthropus tchadensis visse. In tal caso, sarà molto difficile capire quali tra le specie trovate in questo periodo siano ominini oppure antenati delle moderne scimmie antropomorfe. Al momento non sappiamo quando e dove in Africa la separazione tra ominini e scimmie antropomorfe avvenne ed è quindi più cauto considerare la condizione ominina di Sahelanthropus tchadensis come un’ipotesi di lavoro piuttosto che un dato di fatto”.

 

Con uno studio che ha riguardato un fossile di femore scoperto a luglio del 2001 in Chad, un team di ricercatori ha gettato dubbi sul Sahelanthropus tchadensis, una specie descritta come il primo ominino in base a evidenze morfologiche del cranio che sembravano indicare una locomozione bipede. Lo studio di questo femore a cui ha partecipato l’antropologo Damiano Marchi, professore al Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, e coordinato dal professor Roberto Macchiarelli dell’Università di Poitiers in Francia, è stato pubblicato sul Journal of Human Evolution, la rivista di riferimento per la paleoantropologia. 

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Cranio e ricostruzione di Sahelanthropus tchadensis (immagini da Wikipedia).

“I risultati dell’analisi di morfologia funzionale effettuati sul femore di Sahelanthropus tchadensis e il confronto con altri fossili più o meno coevi suggeriscono che il femore TM 266 appartenga a un individuo che non era in grado di camminare abitualmente in maniera bipede – spiega il professor Marchi - Questo risultato dovrebbe essere tenuto in considerazione quando si cerca di capire la posizione di Sahelanthropus tchadensis rispetto agli altri fossili ominini”. 

 

femore_fossile.jpg

Ma partiamo dall’inizio. Sahelanthropus tchadensis è un fossile trovato nel 2001 in Chad, a Toros-Menalla, da un team franco-ciaddiano. La scoperta ha fatto molto scalpore perché il fossile è stato datato a sette milioni di anni fa, quindi vicino al periodo che si ipotizza abbia visto la separazione tra l’antenato delle scimmie antropomorfe attuali e l’antenato degli uomini moderni. Lo studio del cranio sembrava indicare una locomozione bipede ed è per questo che la nuova specie fu descritta come il primo ominino. Queste conclusioni sullo stato bipede del fossile hanno però creato molti dubbi nella comunità paleoantropologica a causa della deformazione del cranio e della mancanza di evidenze dal resto dello scheletro.

image.jpegA luglio del 2001 è stato poi rinvenuto il fossile di un femore parziale (numero di catalogo TM 266-01-063) in associazione spaziale con il cranio di Sahelanthropus tchadensis, che non era mai stato descritto in precedenza. Il femore fu per la prima volta riconosciuto come un probabile femore di primate da uno degli autori del lavoro (Aude Bergeret-Medina) che nel 2004 stava effettuando un sondaggio tafonomico sull’insieme di fossili trovati a Toros-Menalla. 

Alla luce del recente studio, il femore non sembra però indicare una locomozione bipede: “I nostri risultati pur gettando qualche dubbio sullo stato bipede di Sahelanthropus tchadensis e quindi sul suo ruolo come primo ominino, non diminuiscono l’importanza della specie nel panorama evolutivo. Le evidenze degli ultimi quattro milioni di anni mostrano una grande diversità tassonomica nel gruppo degli ominini – aggiunge Marchi (nella foto a destra) – Non c’è ragione di credere che lo stesso tipo di diversità non fosse presente anche nel Miocene, il periodo in cui Sahelanthropus tchadensis visse. In tal caso, sarà molto difficile capire quali tra le specie trovate in questo periodo siano ominini oppure antenati delle moderne scimmie antropomorfe. Al momento non sappiamo quando e dove in Africa la separazione tra ominini e scimmie antropomorfe avvenne ed è quindi più cauto considerare la condizione ominina diSahelanthropus tchadensis come un’ipotesi di lavoro piuttosto che un dato di fatto”.

C’è un nuovo termometro per misurare e studiare le temperature e il clima passato del nostro pianeta. Si tratta del magnesio contenuto in particolari concrezioni, dette speleotemi, che si formano lentamente all’interno di piccoli laghi o pozze dentro le grotte. La scoperta arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e realizzato da un team internazionale guidato dai professori Giovanni Zanchetta del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e Russell Drysdale dell’Università di Melbourne. Alla ricerca hanno inoltre collaborato per parte italiana l’Istituto di Geoscienze e Georisorse CNR e l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Pisa.
“Analizzando le variazioni della concentrazione del magnesio negli speleotemi abbiamo la possibilità di registrare i cambiamenti di temperatura per centinaia di migliaia di anni”, spiega Giovanni Zanchetta.
In particolare la ricerca ha riguardato una “carota” proveniente da uno speleotema di un piccolo lago del sistema carsico dell'Antro del Corchia in Toscana, a circa 300 m di profondità nelle viscere della montagna, e cresciuto ininterrottamente durante gli ultimi 350 mila anni.
“I risultati relativi alla concentrazione di magnesio coprono quindi gli ultimi quattro cicli glaciale-interglaciale, e sono confermati dalla corrispondenza con i record di temperatura della superficie del mare registrati nei sedimenti oceanici del Mediterraneo e dell’Atlantico”, continua Zanchetta.
Per verificare questa somiglianza, i ricercatori si sono focalizzati su un periodo chiamato Termination II – cioè la conclusione della penultima era glaciale, tra 136 e 128 mila anni fa. Durante questo periodo di riscaldamento, le temperature oceaniche sono aumentate di 8 gradi nel giro di poche migliaia di anni. Lo studio ad altissima risoluzione della speleotema del Corchia, unito alla determinazioni radiometrica dell’età con il metodo del decadimento radioattivo dell’Uranio in Torio, ha così mostrato un brusco aumento nella concentrazione del Mg, verificatosi esattamente in concomitanza del forte aumento delle temperature oceaniche.
“Questa ricerca è la prima a dimostrare che il magnesio in uno speleotema può fungere da indicatore di temperatura – conclude Zanchetta – la temperatura è uno dei parametri fondamentali nelle misurazioni climatiche e la stima delle temperature passate è quindi un tassello irrinunciabile per la ricostruzione del clima passato, e può aiutarci a capire come ogni regione risponda ai principali episodi di cambiamento climatico globale”.
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Link all’articolo scientifico:
https://www.nature.com/articles/s41467-020-18083-7

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