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L’inganno della pubblicità

Per tanto tempo è prevalsa l’idea che l’inganno contenuto nel messaggio pubblicitario fosse innocuo e inoffensivo e non potesse avere conseguenze sui comportamenti dei consumatori. Fino al 1962, anno in cui il nostro paese adotta un Codice di autodisciplina pubblicitaria e introduce la figura del giurì, organo incaricato di osservare che le regole del codice vengano rispettate. Il Codice ha sancito che la pubblicità deve essere onesta, veritiera e corretta contribuendo così a far maturare una maggiore coscienza intorno al fenomeno pubblicitario e a far conoscere maggiormente la complessità dei vari volti dell’inganno.

C’è stato un tempo in cui gli operatori del diritto hanno guardato all’inganno nella pubblicità con una certa benevolenza. I trucchi, il camuffamento della realtà, l’aggiramento erano considerati come elementi talmente collegati allo strumento pubblicitario da divenirne come un’anima palese. Si intuiva che spesso l’interpretazione giurisprudenziale muoveva dalla seguente idea: in definitiva si trattava di pubblicità e difficilmente qualcuno sarebbe potuto cadere nell’eventuale inganno del messaggio pubblicitario. In questo modo si finiva per giustificare e considerare innocuo anche l’inganno più raffinato e, qualche volta, perfino la narrazione o la rappresentazione di elementi non veritieri. Ciò è avvenuto, ad esempio, nel famoso caso Alemagna contro Motta. Una specie di carta d’identità, sottoscritta da un analista, accompagnava un panettone che, invece, non risultava sottoposto ad alcuna analisi e la cui composizione, quanto meno nelle indicazioni quantitative degli ingredienti, non corrispondeva a quanto dichiarato. I giudici parlarono di “vanterie che non rientrano nella concorrenza sleale” e di una “trovata pubblicitaria” (Corte di cassazione, 6 novembre 1961–17 aprile 1962 n. 752).

Sono gli anni durante i quali il nostro Paese non conosce ancora una disciplina sulla pubblicità e la giurisprudenza esamina le ipotesi sottoposte a giudizio spesso solo per verificare la configurazione di una lesione a interessi imprenditoriali e la realizzazione di atti di concorrenza sleale o di sviamento di clientela. Negli altri casi l’inganno pubblicitario sembra assumere le vesti innocue di una iperbole pubblicitaria, di un momento creativo e di pura fantasia. Se di un raggiro si tratta, esso viene ad essere configurato come una sorta di dolus bonus. Molte cose nell’arco di un periodo relativamente breve sono, però, venute ad incidere su questa visione.

Negli anni è diventata sempre maggiore la consapevolezza intorno alle capacità persuasive della pubblicità e si è assistito, contemporaneamente, anche ad una discussione più accesa intorno ai limiti della cosiddetta signoria della volontà, alla ricerca di una estensione dei canoni della buona fede e della correttezza e ad un ampliamento dei profili di responsabilità precontrattuale, contrattuale ed extracontrattuale. Sono nate, inoltre, esperienze del tutto particolari proprio nell’ambito dello stesso contesto pubblicitario; su una di queste desidero soffermarmi. Nel 1966, infatti, è nato il Codice di autodisciplina pubblicitaria (allora Codice della lealtà pubblicitaria) e, all’interno di questa esperienza, è stato creato un giurì di autodisciplina, organo incaricato di osservare che le regole del Codice vengano rispettate. Molte critiche sono state rivolte a questo Codice e all’esperienza autodisciplinare. È stata considerata un’operazione di facciata, che nasceva come un atto di iniziativa privata la cui adesione veniva lasciata agli stessi operatori che avrebbe dovuto valutare. È stato detto, soprattutto, che il Codice manifestava un’anima schizofrenica. Si proponeva di conciliare la tutela degli interessi dei consumatori con la tutela degli interessi degli stessi operatori del settore pubblicitario.

Nonostante queste critiche, e altre ancora che qui vengono tralasciate, non si può fare a meno di notare che l’esperienza autodisciplinare ha contribuito a far maturare una maggiore coscienza intorno al fenomeno pubblicitario e anche a far conoscere maggiormente la complessità dei vari volti dell’inganno. Il mondo pubblicitario è stato indagato sotto diversi aspetti, sono stati esplorati gli spazi diversi della creatività e individuati molti dei limiti nella costruzione del messaggio pubblicitario. Trovandosi a valutare l’operato dei pubblicitari, considerati a torto o a ragione come i costruttori dell’inganno, come gli artefici della menzogna, il mondo della pubblicità è andato adattando continuamente il “suo” Codice (giunto oramai alla 46° versione) ed ha affinato la ricerca sull’inganno operando da un punto di vista privilegiato sul fenomeno pubblicitario.

Infatti, questa esplorazione ha usufruito, a tratti in modo cosciente e a tratti involontario, delle conoscenze puntuali e tecniche nel campo della comunicazione di cui era dotato, ed è dotato, il giurì oltre che delle prescrizioni esplicite del Codice. Fra le tante conoscenze specifiche del settore merita ricordare un dato fra i più semplici, ma anche fra i più incisivi. L’esperienza dell’autodisciplina ha sempre avuto ben presente, proprio per la particolare formazione, che la comunicazione così come l’inganno si compongono di profili oggettivi e relazionali e che né gli uni né gli altri si presentano come un’entità costituita da una sola faccia. Quanto alle prescrizioni puntuali del Codice, merita ricordare il richiamo di apertura del testo (richiamo oramai presente anche nella disciplina sulla pubblicità entrata in parte nel Codice del consumo) a una pubblicità (ma adesso il Codice parla in modo esplicito di “comunicazione commerciale” comprensiva della pubblicità e di altre forme di promozione) “onesta, veritiera e corretta”.

Questi requisiti esprimono in forma estremamente sintetica, ma efficace, alcune delle linee interpretative che hanno guidato il giurì nella valutazione dei messaggi pubblicitari e, nello stesso tempo, scandiscono il ritmo di una esplorazione continua dei confini dell’inganno.

Dunque, la comunicazione commerciale deve essere “riconoscibile come tale”. Le motivazioni sottese a questa richiesta sono evidenti. Si ritiene che il destinatario di un messaggio sottoposto ad una comunicazione di cui non riconosce l’intento promozionale tenda a esercitare un grado di attenzione minore e possa lasciarsi andare a un maggiore affidamento. Evidentemente la riconoscibilità del messaggio pubblicitario è richiesta anche per altre ragioni, tra le quali la necessità di verificare il rispetto di prescrizioni quali quelle, ad esempio, relative ai cosiddetti indici di affollamento o al rispetto delle disposizioni sul product placement.

Ma se la necessità di operare una distinzione fra diverse tipologie di messaggio è evidente, molteplici sono, invece, le difficoltà applicative di questo parametro che presuppone che possa essere sempre agevole distinguere fra una comunicazione pubblicitaria e una comunicazione informativa. L’esperienza autodisciplinare ha anche questo pregio, quello di avere alimentato una discussione intorno a concetti (informazione, promozione, suggestione) che a prima vista sembrano facilmente separabili, ma che nell’applicazione concreta si stenta a distinguere in modo netto. Per questo motivo alcuni commentatori avvertono che questa ricerca alimenta una sorta di “cultura del sospetto” dal momento che ogni recensione, ogni articolo giornalistico, ogni segnalazione critica potrebbe nascondere intenti promozionali o essere considerata idonea a svolgerli. Tuttavia, questa analisi esprime, soprattutto, l’esigenza di costruire un approccio più complesso dovendo l’interprete prendere in considerazione, fra molti altri elementi, i contesti in cui la comunicazione viene effettuata, gli spazi in cui il messaggio è collocato, gli indizi o le prove sull’esistenza di legami contrattuali fra il produttore della merce promossa e l’operatore pubblicitario.

La comunicazione commerciale deve essere anche “corretta”. Questo parametro non è espressione solo del divieto autodisciplinare di gettare discredito sul mondo della pubblicità, ma è un punto di riferimento determinante nella valutazione del giurì. Basti pensare che nell’applicazione fattane esso è diventato come una sorta di clausola di chiusura. Il requisito della correttezza è stato richiamato anche in assenza di violazioni di altre disposizioni e ha comportato una valutazione del messaggio sotto numerosi profili fino a indurre a considerare non in contrasto con questo parametro anche messaggi che ironizzavano, o erano fortemente critici, nei confronti del mondo pubblicitario (si veda la dec.21⁄92 sullo slogan “la pubblicità può causare seri danni al vostro cervello e al vostro portafoglio”) o dello stesso operato del giurì (si veda la dec. 40⁄88 sulla comunicazione pubblicitaria recante la scritta “censura” sovrapposta sulla parte del massaggio effettivamente censurato dal giurì).

Arriviamo, infine, all’analisi dell’ultimo requisito, quello secondo il quale la comunicazione pubblicitaria deve essere “onesta”, deve, cioè, corrispondere a verità. Apparentemente proprio il richiamo alla verità sembrerebbe contrastare con l’essenza stessa dell’operato della pubblicità. Si dice che la pubblicità “colora la vita”, fa della rappresentazione la vita, “sostituisce l’astrazione all’oggettualità”.

Senonché, proprio l’operato del giurì ha evidenziato quante diverse sfumature abitino nel mondo costruito dal messaggio pubblicitario e come spesso gli elementi di verità e di falsità si mescolino di modo che un messaggio può essere, contemporaneamente, profondamente vero e, nello stesso tempo, falso. È stato agevole in questi anni per il giurì individuare la falsità nelle comunicazioni che contenevano dati non veri. Ma di sicuro più interessante, dal punto di vista di questa analisi, è stato il riconoscimento dell’ingannevolezza, pur in un contesto inizialmente privo di validi punti di riferimento, nelle ipotesi di omissioni, di non autosufficienza del messaggio, di ingannevolezze procedimentali, di rivendicazioni di eccellenze e di primati. In questo senso le comunicazioni pubblicitarie effettuate nel settore alimentare costituiscono un significativo punto di vista. Basti pensare che l’alimento si presta a soddisfare bisogni differenti, da quelli nutritivi a quelli relativi al gusto, al posizionamento sociale, culturale, religioso e così via, di modo che diverse possono essere le strade che può percorrere l’inganno.

Si deve, infine, segnalare l’attenzione prestata dall’esperienza autodisciplinare al destinatario del messaggio, al ricevente l’informazione, a colui che viene chiamato, in alcune ricerche economiche, “recettore”. Nel contesto autodisciplinare la figura del destinatario della comunicazione ha sempre costituito un punto di riferimento particolarmente importante nella valutazione della potenziale ingannevolezza del messaggio al punto che nelle versioni del Codice di autodisciplina questo parametro è stato reso sempre più esplicito e articolato. Del resto non poteva essere diversamente visto il ruolo che il ricevente la comunicazione svolge all’interno della stessa struttura comunicativa. Nel frattempo anche la legislazione si è mossa in questo senso, anche se spesso ha ancorato le diverse forme di tutela poste in essere alla figura del consumatore medio. La figura del consumatore medio finisce, però, quasi per oggettivizzare proprio il profilo relazionale della valutazione della comunicazione e delle capacità persuasive, informative, suggestive o ingannevoli del messaggio con il risultato di falsare in parte la valutazione circa l’ingannevolezza del messaggio.

Molti altri sono i profili degni di interesse sui quali non posso soffermarmi. Quelli che precedono sono solo degli spunti di una riflessione più ampia che porta a superare alcune idee diffuse sul mondo pubblicitario quasi che tutto ciò che concerne la pubblicità debba essere necessariamente collegato alla finzione. In questi anni proprio l’esperienza autodisciplinare proveniente da un ambito che viene considerato il mondo dell’effimero e dell’illusione ha contribuito a far conoscere, e in parte a trasferire, al mondo del diritto una realtà ben evidente ad altri contesti disciplinari come quelli sociologici, psicologici ed economici. Le comunicazioni non sono sempre univocamente interpretabili; altrettanto spesso l’ingannevolezza non può essere ricondotta ad una verità o falsità del messaggio in termini oggettivi. Una comunicazione può essere vera o falsa anche in relazione al contesto, al momento, al destinatario del messaggio. La verifica della verità di un messaggio in molti casi vale solo un attimo, giusto il tempo di scattare un’istantanea.

Alessandra Di Lauro
professore di Diritto agrario
dilauro@ddpriv.unipi.it