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Il cibo, metafora dell’incontro con Dio

Jean–Anthelme Brillat–Savarin (1755-1826) era convinto che la dieta alimentare seguita dall’uomo precisasse la sua appartenenza sociale. Il magistrato francese, autore di saggi di diritto ci consegna nella sua opera più nota del 1825 Fisiologia del gusto una sentenza molto famosa: “dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”. Ludwig Feuerbach (1804–1878) sosteneva anch’egli qualcosa di analogo nei suoi testi principali, L’essenza del Cristianesimo (1841) e L’essenza della religione (1846). Per il filosofo tedesco, centro di tutta l’indagine era l’uomo nella sua materialità. L’immagine che meglio fotografa il rapporto tra cibo e società era: “l’uomo è ciò che mangia”. Entrambi gli studiosi considerano il cibo un preciso marcatore capace di mettere in risalto ciò che differenzia un uomo da un altro e di distinguere una cultura da un’altra.

Certamente il legame che l’uomo instaura con il cibo è sempre qualcosa di particolare, ma diversamente dall’opinione di questi illustri pensatori, tuttavia, non comprenderemmo la pienezza del suo significato se dimenticassimo l’ambito religioso.

1) Gli alimenti non sono solo sostanze che contengono principi nutrivi. Acqua, sali minerali, vitamine, proteine, grassi e zuccheri, non sono le uniche chiavi di lettura per interpretare il cibo con cui si nutre il genere umano. Si rende necessario, invece, indagare la natura e le finalità del legame tra il cibo e la sfera del sacro: non a caso, tutte le religioni conoscono ed impongono ai fedeli le regole gastronomiche. E, tutte, pur nella loro specificità, ma da sempre, ritengono il cibo un vettore che facilita il dialogo tra gli uomini e realizza, al tempo stesso, l’incontro con Dio.

La dieta dell’uomo primitivo era molto simile a quella degli animali. La scoperta del fuoco ha permesso numerosi e ulteriori processi culturali. L’animale non cucina per mangiare perchè gli è sufficiente raccogliere e cacciare. L’uomo, invece, si serve di strumenti per preparare il cibo: la cucina inevitabilmente registra i continui passaggi culturali che caratterizzano l’umanità. Parafrasando il giurista francese, possiamo concludere che gli animali si nutrono, mentre sono solo gli uomini che mangiano.

In queste svolte epocali, la sfera religiosa agisce ed è agita dal contesto sociale. Manuel Vazquez Montalban, scrivendo del suo personaggio Pepe Carvalho, ne Le ricette di Pepe Carvalho, legge la cucina come metafora di vita. Per lo scrittore il consumo di carni crude rimanda ad un passato “primitivo” ormai quasi del tutto abbandonato per una scelta culturale che preferisce la cottura della carne o l’uso di condirla con spezie e accompagnarne la digestione con del vino. L’opera umana fa sì che il cibo da elemento naturale tratto dalla creazione diventi epifania, manifestazione, della sua cultura ma anche “luogo” privilegiato per rapportarsi con Dio.

Non servono esempi: ogni religione impone che il rapporto tra creatura e Creatore si declini attraverso mediazioni simboliche. Il cibo, tra queste, costituisce un potente paradigma religioso. Ieri come oggi i fedeli riconoscono nel mangiare e nel bere azioni cariche di un forte significato religioso.

Il rapporto che l’uomo crea con il cibo, in realtà, dice molto della relazione tra la creatura e il Creatore. In altri termini, il crudo e il cotto, due chiavi interpretative sociologico–gastronomiche. Esse chiamano continuamente in causa una dimensione religiosa che pone al centro il cibo quale mezzo privilegiato per definire l’insieme delle relazioni tra uomo e Dio. L’uomo che cucina è chiamato ad avvicinare o allontanare da sé cibi e bevande; si serve di tecniche e non di altre, ma soprattutto manipola, cioè fa della creazione un “luogo”, un “dato” che trasforma, che arricchisce. Potremmo dire che cucinando l’uomo continua l’opera divina della creazione. Infatti, il cibo permette la relazione tra la cultura umana che reinterpreta il cibo e le religioni, le quali, nessuna esclusa, ci consegnano una normativa alimentare. Dalla creazione, opera delle mani di Dio, discende l’arte della cucina, opera delle mani dell’uomo.

2) La presenza di tabù gastronomici in ogni religione è connotata da una polarità di significati: alla babele gastronomica segue la convinzione che il rispetto delle norme permette al fedele di sfruttare una filiera che parte dalla creazione e termina nel divino.

L’oriente religioso auspica la totale armonia tra l’uomo e Dio. L’attenzione per il creato, la cura nei confronti della terra e la sensibilità nell’uso dell’acqua sono tratti facilmente riconoscibili anche nelle prescrizioni alimentari.

Le tradizioni religiose che si riconoscono genericamente nell’induismo, condividendo la dottrina dell’ahimsa (nonviolenza), privilegiano una alimentazione senza carne. Pur auspicando la forma più estrema (veganesimo), che vieta il consumo anche di tutti i suoi derivati, la pratica più diffusa è il vegetarianesimo, che impedisce il solo consumo di carne. Il rispetto rigoroso dell’ahimsa porta anche al rifiuto di alcuni vegetali (aglio, cipolle; per certe caste anche carote, rape, legumi rossi) e di tutte le bevande alcoliche (Bhagavad gita 9, 27–28; 17, 8–10).

L’alleanza che il Dio Uno stipula con il popolo che si è scelto, Israele, prevede, tra l’altro, il rispetto di minuziose leggi gastronomiche. Nel panorama delle normative alimentari religiose, l’ebraismo si distingue per lo sforzo di legiferare ogni aspetto che riguarda il mangiare e il bere: segno evidente che anche a tavola l’ebreo costruisce il rapporto con Dio.

In due libri della Torah, Levitico e Deuteronomio, sono presenti i criteri che regolamentano l’alimentazione ebraica. Essa mira a classificare i cibi in proibiti e leciti, kasher. La kashrut, l’insieme delle norme alimentari ebraiche, permette il consumo degli animali di terra che presentano il doppio carattere dell’unghia fessa e la ruminazione; quelli che volano purché non siano notturni né rapaci; quelli di acqua che possiedono sia le pinne che le squame. Lv 11 e Dt 14 raccolgono molte altre esigenze che devono essere rispettate. Tra queste, il comandamento di Dt 14, 21 “Non far bollire un capretto nel latte di sua madre” ha stimolato in cucina la fantasia e la capacità dell’uomo di adeguarsi al dettato divino senza rinunciare ai piaceri della tavola.

Nato dal ceppo ebraico, il cristianesimo si allontana decisamente dalla kashrut. Mentre questa si prefigge lo scopo di individuare cosa si deve mangiare, il cristianesimo pone l’uomo libero nel campo alimentare di decidersi come egli crede. Una unica attenzione è richiesta: “Perciò è bene non mangiare carne, né bere vino, né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi” (Rm 14, 21).

Non esiste una vera normativa alimentare: nessun tabù colpisce cibi o bevande. Sono presenti piuttosto momenti di astinenza e di digiuno soprattutto nel periodo liturgico della quaresima. L’astinenza dalle carni e il digiuno di mercoledì delle ceneri e del venerdì santo costituiscono le principali restrizioni alimentari alla libertà introdotta da Gesù: “Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna? Dichiarava così mondi tutti gli alimenti” (Mc 7, 18-19).

Tra le religioni del Dio Uno, l’islamismo rifiuta la particolarità ebraica e la libertà cristiana. La moderazione costituisce il tratto alimentare più evidente: “Mangiate e bevete ma senza eccessi, ché Allah non ama chi eccede” (sura VII, 31). Il Corano impedisce il consumo di alcune carni di animali. L’unica ad essere nominata con precisione è quella di maiale (sura II, 173). Pur proibendo poche altre carni, l’islamismo condanna con forza anche quelle lecite se su esse non sia stato invocato il nome di Dio (sura VI, 121). Diversamente dall’ebraismo e dal cristianesimo, l’islamismo non tollera il consumo delle bevande alcoliche: “O voi che credete, in verità il vino, il gioco d’azzardo, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono immonde opere di Satana. Evitatele affinché possiate prosperare” (sura V, 90).

È possibile notare come i divieti alimentari colpiscono quasi esclusivamente la carne degli animali e, tra queste, i cristiani sono gli unici che possono cibarsi di quella dei suini. Effettivamente se dalle religioni togliessimo questo tabù della normativa alimentare rimarrebbe davvero poca cosa. Oggi più che mai, una alimentazione priva di carne, soprattutto la sua versione meno rigorosa (dieta vegetariana) si pone al centro del dibattito religioso. In effetti, se è un patrimonio comune ai fedeli che praticano le religioni orientali, anche in occidente, soprattutto tra ebrei e cristiani si diffonde la pratica di una dieta che tenga conto della situazione descritta in Genesi. Nel primo libro della Torah è possibile leggere che Adamo ed Eva erano vegetariani (Gen 1, 29) e che solo con l’episodio di Noè (Gen 9, 3–4) sono permessi vino e, seppur con dei limiti da rispettare, la carne degli animali.

3) Abituati come siamo a consumare qualsiasi cosa in ogni momento della giornata, da soli, di fretta, magari in piedi o guardando la televisione o navigando in internet, le religioni ci ricordano uno stile di vita completamente diverso. Troppo spesso il ritmo che conduciamo rende veramente proibitivo il ricordo che legato al cibo c’è un mondo di valori che non dovremmo mai dimenticare. Il tempo del pasto, così come lo spazio del pasto possono diventare preziose occasioni per avvicinarci al sacro. Purtroppo ci scordiamo che sono un’occasione e un luogo dove è possibile ed auspicabile incontrare non solo Dio ma anche l’uomo! In questo quadro alimentare profondamente cambiato rispetto a un passato anche recente le religioni contribuiscono, mantenendo le loro peculiarità, al processo di conoscenza e di convivenza tra i popoli, offrendo una chiave di lettura che impone il riconoscimento del cibo come valore assoluto. Una consapevolezza che le diverse religioni traducono in una prassi che, pur nella logica del rispetto delle differenze, trova importanti punti in comune. Vediamone alcuni.

a) Le religioni considerano il cibo un dono di Dio. Questa certezza impone una risposta che non può essere un gesto qualsiasi, ma deve tradurre la consapevolezza che il mangiare non è solo frutto delle sue mani ma dono divino. Il ringraziamento a Dio spinge ogni fedele a un’azione di lode e benedizione per il cibo posto sulla tavola. La preghiera sul cibo è una prassi fondamentale nelle religioni orientali. In modo particolare l’induismo invita i fedeli a preparare il pasto secondo prasada (cucinato con devozione per Dio). Non solo: prima di consumare cibi e bevande essi ricordano il suo nome recitando formule di ringraziamento, dette puja.

Le religioni del Dio Uno condividono con l’induismo l’obbligo di ringraziare Dio per quanto mangiano e bevono. Gli ebrei trovano in Dt 8, 10 un testo fondante che li spinge continuamente al ricordo che attraverso il cibo si giunge a Dio.

Anche i cristiani possono ricavare dal Nuovo Testamento molti passi dove Gesù pregava prima di accostarsi al cibo: ricordiamo la moltiplicazione dei pani. “Presi i cinque pani e i due pesci, levò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione” (Mc 6, 41). Una consuetudine mantenuta dalla Chiesa primitiva: “spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio” (At 2, 46–47). La preghiera di ringraziamento prima dei pasti è ben presente anche nell’Islam: “Non cibatevi di ciò su cui non è stato invocato il nome di Dio, sarebbe cosa ingiusta, sicuramente” (sura VI, 121).

b) Tra le pratiche alimentari più comuni tra le religioni troviamo l’invito all’astinenza e al digiuno. In quanto dono di Dio ogni cibo ed ogni bevanda sono sacri, positivi, buoni compresi quelli interdetti permanentemente. Chi si astiene e chi digiuna non lo fa contro Dio. Astinenza e digiuno sono strumenti, vie, occasioni per incontrare Dio insieme ai fratelli. Come il consumo di cibo anche la rinuncia ad esso ha un valore sacrale e comunitario: è incontro con Dio nella comunione con i fratelli. Oltre alla condivisione di un pasto, ai fedeli è anche richiesto di rispettare insieme un tempo di digiuno, dove far emergere, anche fisicamente, la necessità di porre attenzione a Dio durante il vivere quotidiano.

L’induismo colloca il rifiuto del cibo tra le prassi più importanti dell’agire del fedele. Nel calendario lunare induista si digiuna l’undicesimo giorno dopo la luna calante e l’undicesimo giorno dopo la luna crescente.

Gli ebrei non solo conoscono numerose prescrizioni alimentari, ma seguendo l’invito biblico digiunano in molte occasioni. Il digiuno di Yom Kippur è il più conosciuto e il più praticato. Esso riveste una particolare importanza, in quanto traccia di questo giorno si trova direttamente nella Torah (Lv 16, 29–31; 23, 27–32; Nm 29, 7).

Anche nell’insegnamento lasciatoci da Gesù, seppur privo di divieti gastronomici, c’è l’invito a rinunciare in certi periodi al cibo. Pensiamo ai quaranta giorni nel deserto nel famoso episodio che precede le tentazioni subite da Gesù. In assenza di tabù alimentari, tutta la normativa alimentare cristiana coincide con i tempi riservati all’astinenza e al digiuno. Essa prevede due giorni di digiuno (mercoledì delle ceneri e venerdì santo) e l’astensione dalle carni il venerdì di Quaresima, mentre i venerdì durante l’anno l’astinenza può essere sostituita da altre forme caritative o penitenziali. La pratica del digiuno nell’islamismo è molto nota. Durante tutto il mese lunare di Ramadan, l’unico nominato esplicitamente nel Corano (sura II, 185) il fedele si astiene completamente da cibi solidi e liquidi dal sorgere del sole fino al suo tramonto. Ramadan pone il credente di fronte alle sue dipendenze fisiche e mentali. Esso vuole essere un periodo di rinnovata armonia pretesa da Allah, non un predominio dell’anima sul corpo, ma lo sforzo di raggiungere un equilibrio che non sia solo interiore.

c) Fare festa significa riconoscere che l’uomo vive in uno spazio, il cosmo, e in un tempo, l’arco della vita, dove Dio è presente e accessibile. Le feste, in tutte le religioni, sono un’occasione per ricordare gli impegni dell’uomo nei confronti di Dio, che lo invita a non dimenticare la sua opera realizzata nel tempo e nello spazio.

Ecco perché è presente una vera e propria diversità alimentare, che contraddistingue il menù festivo dal consumo di cibo quotidiano. Un menù che volutamente nei suoi piatti e nelle sue bevande rimanda al significato religioso della festa, contribuendo così, mangiando e bevendo, a costruire un clima propizio all’incontro con il sacro.

La festa in onore a Ganesha, divinità induista, è l’occasione per presentare piatti tipici, servendo in modo particolare latte e riso. Questi due cibi costituiscono gli alimenti principali anche nelle altre maggiori feste quali Kumbha Mela, Pongal, capodanno che si celebra con un bagno collettivo nel fiume Gange; oppure nella ricorrenza di Navaratri o Dasara e nella festa dell’anniversario della nascita di Krishna.

Pesah nella religione ebraica non è solo una festa religiosa. È il ricordo attualizzante e fondativo che dà ragione dell’essere ebreo in quanto chiamato da Dio in un dato momento storico. E il menù ebraico traduce questa consapevolezza: sulla tavola compare un vassoio dove si trovano una zampa di agnello (ricordo dell’agnello sacrificale), un uovo sodo strinato sulla fiamma e immerso nell’acqua salata (ricordo della schiavitù in Egitto); un composto di noci, mele grattugiate e miele (ricordo della cura con cui gli ebrei fabbricavano mattoni); un gambo di sedano e un rametto di prezzemolo e verdure intinte in acqua salata (ricordo delle lacrime versate durante la schiavitù) e radici ed erbe amare (ricordo amaro della perdita della libertà). Dopo questa «portata» così altamente simbolica vengono offerti alcuni piatti preparati all’occasione.

Il menù cristiano per la grande solennità pasquale difficilmente dimentica le uova pasquali: l’uovo è un chiaro simbolo della vita contenuta in esso e quindi segno della resurrezione di Cristo e della futura vita che attende l’uomo nell’al di là. Anche piatti tipici preparati per questa solennità coniugano la festa religiosa con il territorio dove si celebra. Ne sono un esempio i ravioli friulani, la pastiera napoletana, i ricciarelli toscani.

La stessa attenzione gastronomica per le feste religiose traspare anche dai menù musulmani. Forse la festa più importante e più sentita è la celebrazione della fine del digiuno praticato durante il mese di Ramadan. La «festa della rottura del digiuno», Id–al–fitr è la celebrazione più popolare del mondo islamico. Anche se chiamata «piccola festa» è occasione di maggiore allegria di altre festività, perché segnala la ripresa del ritmo normale di vita.

Basti pensare che, per consentire un’adeguata preparazione della festa anche a tavola, in via eccezionale, la chiamata a recarsi nella moschea avviene prima di mezzogiorno: questo non è tempo sottratto ad Allah, ma un contesto diverso per rendergli gloria.

In conclusione, le diverse appartenenze religiose trovano in campo alimentare importanti punti in comune. Pur nella variegata esperienza umana del sacro, la tavola si pone come momento di incontro tra gli uomini e con Dio. La preghiera sul cibo, la prassi del digiuno, la festa religiosa ricordano che l’alimentazione costituisce una via di accesso al sacro percorsa da quasi tutta l’umanità. Il vertice raggiunto dal cristianesimo (Gesù è pane e vino che si offre) non può essere condiviso dalle altre religioni. Ciò non toglie che si possa immaginare la tavola come un «luogo» privilegiato (non certo l’unico!) dove creare un clima costruttivo per il dialogo interreligioso.

Massimo Salani
professore di Religione cattolica
all’Istituto professionale di Stato
per i servizi alberghieri
e della ristorazione
“Giacomo Matteotti” di Pisa