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Quanta acqua... mangiamo

James P. Leape, direttore generale di WWF International, sostiene: “La recessione economica? è niente in confronto alla fase di recessione ecologica in cui siamo già entrati da tempo. Bisogna assolutamente ridurre l’impronta idrica ed ecologica globale”. La recessione ambientale cui assistiamo da anni avrebbe richiesto misure più efficaci e tempestive di quelle scarsamente attuate e coinvolge responsabilità individuali, sociali e politiche. Ognuno di noi può contribuire alla sostenibilità in modalità diverse e solo un clima di cooperazione politica e di attiva partecipazione di tutti, produttori e consumatori, associato a un’espansione delle conoscenze scientifiche e delle innovazioni tecnologiche, consentirà che l’agricoltura del XXI secolo possa essere sostenibile.

Quantità e qualità: carenza idrica e inquinamento
L’acqua è continuamente purificata nel ciclo idrologico, ma la sua quantità resta perennemente fissa. È un bene limitato, si rinnova ma non aumenta né diminuisce, il che implica che il peggioramento della sua qualità ne riduca la quantità utilizzabile. A questo proposito vale la pena soffermarsi brevemente sulle caratteristiche del ciclo dell’acqua in relazione alle attuali condizioni ambientali. Questo ciclo naturale reintegra l’acqua mediante fasi di evaporazione da mari, fiumi e laghi, condensazione in nuvole e precipitazione di piogge, con restituzione ai corsi d’acqua superficiali e tramite il suolo al sottosuolo; il mare diventa la destinazione finale da cui riparte il ciclo. Il processo sarebbe perfetto senza interferenze antropiche, che comportano immissione di inquinanti nell’aria e nel suolo. La quantità e la qualità dell’acqua sono sì rinnovabili nel ciclo idrologico, ma ai ritmi della natura; l’inquinamento infatti ne riduce l’efficienza di purificazione, in quanto la potenzialità di rinnovo del ciclo è infinitamente più lenta del tasso di inquinamento antropico. In mari, laghi e fiumi si accumulano tutti i rifiuti che la società produce, come scarichi urbani, agricoli e industriali, riducendo la quantità di acqua pulita.

Un aspetto della crisi idrica troppo spesso sottovalutato è proprio il problema della disponibilità idrica, che non si risolve nella semplice questione della quantità di acqua utilizzabile, ma richiede che si facciano i conti anche con la sua qualità e con la sua accessibilità. L’inquinamento rende spesso l’acqua inutilizzabile, anche quando abbondante, non solo per il consumo umano ma addirittura per usi industriali o agricoli.

Consumi idrici
Un panorama della situazione europea relativa ai consumi idrici è reperibile nell’Archivio 2007 dei dati Enel. Considerando che la ripartizione negli usi della risorsa prelevata dipende strettamente dalle caratteristiche del sistema produttivo, in Europa mediamente si consuma il 30% per l’agricoltura, il 14% per scopi civili, il 10% per l’industria ed il 46% per la produzione e gli usi energetici. L’Italia però presenta una situazione abbastanza lontana dalla media europea, in particolare per il ruolo predominante degli usi irrigui.

Anche il Dossier 2007 presentato da Legambiente sull’emergenza idrica in Italia conferma questa tendenza. Si sostiene infatti che, nonostante gli innegabili effetti dei cambiamenti climatici sulla disponibilità della risorsa idrica, le captazioni produttive, a partire da quelle per fini agricoli, incidono in misura predominante sui consumi idrici. L’agricoltura in Italia si “beve” 20 miliardi di metri cubi all’anno di acqua, ossia il 49% del totale disponibile, una percentuale altissima che ci pone ben oltre la media europea fissa al 30%; al secondo posto si trova l’industria che usa il 21%, quindi gli utilizzi civili per il 19%, infine il settore energetico, che tra produzione idroelettrica e raffreddamento delle centrali arriva all’11% delle risorse idriche totali.

Da queste considerazioni emerge chiaramente l’esigenza di una gestione dei sistemi agricoli volta all’ottimizzazione dei consumi idrici.

Sistemi sostenibili nel settore agroalimentare
Secondo la Società Americana di Agronomia, l’agricoltura sostenibile è quella che fornisce cibo per i bisogni umani, risulta economicamente valida, migliora le risorse naturali dell’azienda agraria e la qualità complessiva dell’ambiente, migliora la qualità della vita per gli agricoltori e l’intera società.

Il concetto di sviluppo sostenibile è molto cambiato durante gli ultimi vent’anni: la Conferenza ONU di Rio de Janeiro (1992) ha aggiunto a una sostenibilità, vista prevalentemente in termini economici, la dimensione ambientale, e il vertice mondiale sui problemi della società (Copenhagen, 1995) vi ha associato quella sociale. La sostenibilità è, dunque, una delle inevitabili regole dell’attività economica e sociale, una vera sfida globale. Sotto il profilo dell’agricoltura e delle attività connesse, oggi la sostenibilità è però insidiata da molti eventi, tra i quali un’accelerata distruzione di risorse naturali (2⁄3 dei terreni coltivati sono stati colpiti dal degrado negli ultimi 50 anni), agrobiodiversità in evidente declino, consumo eccessivo di risorse idriche per l’irrigazione, aumento dell’inquinamento di suolo, acqua e atmosfera. Eppure l’agricoltura deve evolversi: per tanti paesi emergenti è il motore della crescita economica; in tutti i paesi deve garantire la sicurezza alimentare, fondamentale diritto naturale dell’umanità.

Occorre pertanto ricercare e sperimentare modelli di equilibrio fra produttività e funzionalità dell’agricoltura (Scarascia Mugnozza, 2001).

Nell’ambito delle Conferenze Mondiali sul Futuro della Scienza, annualmente organizzate a Venezia, per la IV edizione (24–27 settembre 2008) è stato scelto il tema “Cibo e Acqua per la vita”, in risposta all’emergenza derivata dal continuo incremento della popolazione mondiale. Ampio spazio è stato dedicato alle proposte scientifiche per combattere la carenza idrica, in particolare allo sviluppo di strategie innovative per un uso più sostenibile delle risorse idriche. Soluzioni più immediate possono comunque essere attuate a livello di scelte di produzione e di consumo, che hanno un impatto determinante sulla eco–sostenibilità, come ad esempio l’orientamento verso la filiera corta, i prodotti stagionali e in generale un consumo responsabile.

Allo scopo di ridurre contemporaneamente l’impatto ambientale e i costi, è necessario limitare al minimo le fasi di conservazione, trasformazione, distribuzione e commercializzazione dei prodotti alimentari: ad esempio la preparazione di precotti o di cibi lavorati pronti all’uso, il confezionamento (vaschette, pellicole, sacchetti non sempre riciclabili), il trasporto su gomma, tutti aspetti della produzione e della distribuzione altamente inquinanti.

In effetti il problema è stato recepito anche a livello di politiche locali; di seguito sono riportati alcuni esempi di scelte che vanno in questa direzione.

Con la deliberazione della Giunta regionale n.335 del 14 maggio 2007, la Regione Toscana ha approvato il Progetto “Filiera corta – Rete regionale per la valorizzazione dei prodotti agricoli toscani”.

La Regione Veneto ha approvato il disegno di legge n. 225 del 10.7.2008, che incentiva il consumo di prodotti ortofrutticoli locali. La norma, meglio nota come “legge del km zero”, è stata presentata da Coldiretti Veneto, con il sostegno di 25mila firme di consumatori, a vantaggio della salute dell’ambiente e del risparmio. Tra gli obiettivi della legge c’è la promozione del patrimonio agroalimentare regionale, che valorizza le tipicità locali consentendo ai consumatori di fare scelte consapevoli, sostenibili in termini di prezzo e meno impattanti sull’ambiente. La Coldiretti Lombardia ha organizzato, nel luglio 2008, il convegno “Filiera corta: una concreta opportunità per imprese e consumatori” rivolto al mercato alimentare lombardo.

La Federazione Nazionale delle Cooperative Agricole e Agroalimentari (Fedagri), la maggiore organizzazione italiana nel settore, nell’ottobre 2008 ha lanciato un appello a favore dei prodotti stagionali, validi contro il caro prezzi e per una maggiore eco–sostenibilità.

Costo idrico del cibo: impronta idrica e acqua virtuale
Nel 2007 Jacques Diouf, direttore generale della FAO, definisce l’acqua “la sfida del secolo” e aggiunge: “Il pianeta ha sete perché ha fame: senz’acqua non si può produrre né mangiare”. Perciò è decisamente urgente migliorare le pratiche agricole, per preservare e fare un uso più produttivo delle risorse idriche del pianeta. Un parametro importante per poter fronteggiare la scarsità idrica è la stima reale della quantità di acqua consumata in un processo o da un ente oppure da una nazione: l’impronta idrica del processo, dell’ente o della nazione. In realtà la questione solleva interrogativi per noi alquanto insoliti: Quanta acqua serve per un cibo che ci troviamo a tavola? Quanta se ne nasconde dietro una maglietta di cotone? Quanta ne consuma una persona in un anno, inclusa quella intrappolata nei beni in uso (come cibo, computer, auto)? L’Istituto di Educazione per l’Acqua dell’UNESCO (UNESCO–IHE) ha sviluppato un apposito calcolatore dell’impronta idrica.

La rilevanza di questa valutazione è dimostrata dal fatto che nel Planet Living Report 2008, pubblicato da WWF International, Società Zoologica di Londra e Global Footprint Network, è stata utilizzata quest’anno per la prima volta l’impronta idrica come un indicatore analogo all’impronta ecologica.

L’impronta idrica di una nazione corrisponde al volume totale dell’acqua utilizzata per produrre i beni e i servizi consumati dai suoi abitanti. Poiché non tutti i beni consumati sono prodotti all’interno dei confini nazionali, l’impronta idrica tiene conto sia delle risorse idriche domestiche sia dell’acqua utilizzata in altri paesi, definita acqua virtuale in relazione al flusso di acqua che accompagna lo scambio tra le nazioni.

Lo Stockholm Water Prize 2008 è stato assegnato al professore John Anthony Allan per aver introdotto il concetto di “acqua virtuale” (Allan, 1998), che definisce il volume totale di acqua dolce usata per produrre un bene, la somma cioè dei consumi idrici nelle varie tappe di produzione, trasformazione e distribuzione del bene. Il termine “virtuale” si riferisce al fatto che la maggior parte dell’acqua usata non è più contenuta nel prodotto.

La teoria formulata da Allan sottolinea i benefici in termini economici e ambientali dei flussi di acqua virtuale tra paesi. Una nazione può conservare le sue risorse idriche importando un prodotto idro–intensivo. Di conseguenza il commercio internazionale può implicare un risparmio globale, se un bene è esportato da un’area ad alta produttività idrica, quindi a basso contenuto di acqua virtuale, verso un’area con bassa produttività idrica. A livello globale, però, il traffico di acqua virtuale ha implicazioni geopolitiche che non vanno sottovalutate, come ha dichiarato nel 2008 il Consiglio Mondiale dell’Acqua. Esso induce una dipendenza tra i paesi, che può diventare uno stimolo alla cooperazione, ma può anche innescare potenziali conflitti.

Infine nell’ottobre 2008 è stata fondata la Water Footprint Network (Rete dell’Impronta Idrica), una fondazione non–profit, costituita da una rete internazionale di partner fondatori, tra i quali l’Università di Twente (Olanda), WWF, UNESCO–IHE (Istituto per l’Educazione all’Acqua), la Corporazione della Finanza Internazionale (parte del Gruppo della Banca Mondiale).

Sul sito reso disponibile dalla Water Footprint Network (www.waterfootprint.org) si trova una valutazione specifica dell’impronta idrica degli alimenti di più largo consumo ed è possibile calcolare l’impronta idrica individuale (link: your footprint calculator).

Mariarosaria Vergara
ricercatore di Fisiologia vegetale
rvergara@agr.unipi.it

Bibliografia e sitografia