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In due dietro la cinepresa
L'Università di Pisa ha reso omaggio ai fratelli Taviani

L’11 marzo scorso i registi Paolo e Vittorio Taviani hanno ricevuto dall’Università di Pisa la laurea specialistica honoris causa in Cinema, teatro e produzioni multimediali.
Il professor Lorenzo Cuccu, ordinario di Cinema, fotografia e televisione, ha illustrato i grandi meriti artistici e culturali dei due maestri del cinema italiano, soffermandosi sugli aspetti più significativi che hanno influenzato la loro opera: dalla letteratura classica alla scoperta dei grandi autori cinematografici, dal ruolo della tradizione pittorica alla musica.
Al centro della lezione del professor Cuccu ci sono state le tematiche di fondo che emergono dalla produzione dei fratelli Taviani: il confronto dell’uomo con la storia, il rapporto tra uomo e natura, la consapevolezza della necessità di rifarsi a una classicità della forma e, soprattutto, il legame profondo con la Toscana e il suo paesaggio.

Paolo e Vittorio Taviani

Il mio compito, per me è un onore, è quello di indicare i grandi meriti culturali ed artistici che motivano il conferimento della laurea honoris causa a Paolo e Vittorio Taviani.
Potrò farlo definendo, sia pure sinteticamente, alcuni degli aspetti che fanno della loro opera un momento tanto significativo nella storia del cinema italiano e mondiale.

Il primo di questi aspetti è rappresentato dal fatto che quest’opera affonda le proprie radici in una tradizione artistica e culturale, che ne è il presupposto, il nutrimento, la fonte di ispirazione, il terreno di riflessione e di confronto.
Questo appare già chiaro quando si pensa al percorso della formazione, ai suoi snodi:

Il Maggio musicale fiorentino, la scoperta della grande musica e del grande teatro, che saranno all’origine di alcune delle scelte formali che distinguono il loro cinema: la importanza fondamentale assegnata al commento musicale, alla colonna sonora; il gusto della teatralità, della messinscena magniloquente, ma anche del “colpo di scena”.

Le letture appassionate dei grandi narratori, che porteranno i due fratelli alla individuazione di alcuni autori di elezione - Pirandello, Tolstoj, Goethe - che entreranno nei loro film, in modo più o meno esplicito, mai come deposito di trame da saccheggiare o da “illustrare”, ma come termine di riflessione e di confronto, rispettoso ma autonomo.

La scoperta del cinema - del neorealismo, di Rossellini, De Sica, Visconti, poi dei grandi autori del muto, dei sovietici, dei tedeschi degli anni Venti, di Dreyer - scoperta che avrà delle ricadute decisive: sul piano artistico (la forza che ha l’immagine del volto umano sullo schermo, l’importanza della composizione spaziale, il cinema come arte collettiva), ma anche sul piano delle scelte ideologiche e politiche, in modo che il “fare il cinema” verrà visto, almeno in un certo momento, come uno strumento per cambiare il mondo.

Più complesso e meno diretto è forse il ruolo della tradizione pittorica, in particolare quella della grande pittura rinascimentale toscana. Qualche tentativo di trovare dei riferimenti precisi è stato fatto, ma si è trattato di indicazioni suggestive e poco convincenti, “tirate per i capelli”, come si usa dire. Tuttavia una relazione c’è, legata all’esperienza concreta della visione, piuttosto che alla citazione. Gli autori hanno dichiarato, una volta, che l’essere nati in Toscana, a San Miniato, a pochi chilometri di distanza dal luogo dove è nato Leonardo, rende inevitabile non solo che i paesaggi dei loro film siano gli stessi dei quadri di Leonardo, ma che anche il loro sguardo ne sia spontaneamente condizionato. Insomma, quello che è in gioco è il “sentimento del paesaggio”- quello naturale e quello costruito - che lo fa diventare una dominante visiva, da una parte, un nucleo tematico, riflesso delle passioni, immagine dell’ambiguità della Natura, dall’altra.

Infine, il collegamento con una tradizione più recente e concreta, quella di una regione, come la Toscana, nella quale l’esperienza della guerra e della lotta contro i tedeschi e i fascisti si era tradotta in una forte radicalizzazione ideologica che si collocava nel quadro della situazione storica e politica degli anni Cinquanta: una situazione bloccata e al tempo stesso carica di attese, nella quale prendeva corpo, anche per i Taviani, la “passione rossa”- per riprendere una definizione di Remo Bodei - l’attesa della realizzazione dell’Utopia, la convinzione che spetti agli artisti anticiparla. Di qui nasce l’attenzione alla società e alla storia, che percorre, sia pure come un fiume carsico, l’opera dei Taviani, dal primo film, Un uomo da bruciare, del 1962, all’ultimo, La masseria delle allodole.

Paolo e Vittorio Taviani

Ebbene, nel riferimento ai diversi aspetti di una tradizione artistica, culturale e politica affondano le proprie radici i nuclei più significativi della poetica dei Taviani: il confronto dell’uomo con la storia, dell’utopia rivoluzionaria con quella che Marx definisce la “difficile questione dei tempi”; il confronto e lo scontro dell’uomo con la natura; la consapevolezza, sempre più nitida, della “necessità della Forma”. Si manifesteranno, tutti questi nuclei - in modo ricorrente, con maggiore o minore forza - nel lungo percorso dei Taviani, nelle fasi che lo scandiscono. La prima fase - che va da Un uomo da bruciare ad Allonsanfan, 1974 - è quella nella quale appare in modo più evidente l’intreccio del cinema dei Taviani con la situazione storica e politica, con ciò che all’inizio degli anni Sessanta si agita all’interno del mondo della politica e della cultura di sinistra. È il ciclo del “cinema dell’Utopia”, del “cinema poetico politico”. Al centro di questo ciclo è una figura che appartiene alla schiera di coloro che Lino Micciché definì a suo tempo gli “utopisti, esagerati”, portatori, insomma, di un progetto rivoluzionario. Il primo è appunto il protagonista di Un uomo da bruciare, ispirato alla vicenda del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, assassinato dalla mafia.
Volontè, al suo esordio nel cinema, incarna un personaggio carico di energia e di passione civile ma anche di un narcisismo contraddittorio che lo porta a credersi un messia e ad abbandonarsi a momenti di furiosa esaltazione. La figura dell’ “esagerato” sarà una figura centrale - per la sua natura, la sua dialettica, la sua dinamica - nel cinema dei Taviani.
Sarà una dinamica che nella rappresentazione degli eroi dei film successivi (i protagonisti di Sovversivi (1967), di Sotto il segno dello Scorpione (1969), il Giulio Manieri rivoluzionario sconfitto di San Michele aveva un gallo (1971), il Fulvio Imbriani, l’Ingannatore, il Traditore, di Allonsanfan (1974) - porterà alla progressiva rivelazione della fragilità del portatore del progetto utopico, alla coscienza della crisi. Porterà alla scoperta che la “passione rossa” può essere forse nient’altro che una manifestazione della “passione di sé”: positiva e produttiva come possibile movente profondo del “Soggetto della Modernità”, come è stato definito, della sua azione creativa, che lo fa pensare di essere e di voler essere il nuovo Prometeo, il costruttore di un mondo nuovo; ma anche minata da un male interno che è all’origine del suo declino, che lo fa essere anche una reincarnazione di Narciso, rivolto alla contemplazione di se stesso e della propria passione.

L’aggettivo “poetico”, poi, voleva indicare la presenza di un lavoro sulla forma che andava oltre il modello del neorealismo, prima verso una sorta di “neorealismo espressionista”, se mi è concesso l’ossimoro, poi alla ricerca di una teatralità della rappresentazione, nella forma della grande messinscena melodrammatica, come in Allonsanfan, soprattutto.

Il secondo ciclo vede invece emergere un altro dei grandi nuclei tematici dei quali si parlava sopra, quello che riguarda la concezione del rapporto dell’Uomo con la Natura, che nella visione dei Taviani oscilla fra la convivenza felice e la trasformazione armoniosa, da una parte, e, dall’altra, il condizionamento feroce da parte di una natura matrigna che è fuori e dentro di noi, fonte di bisogni e di passioni primordiali, regno della necessità e del sangue tiranno. Questo tema si esprime in Padre padrone (1977) liberamente ispirato al libro autobiografico di Gavino Ledda: la storia della liberazione, attraverso la cultura, dall’oppressione di una società patriarcale arretrata e violenta, radicata in una natura ostile, che solo la felicità della musica sembra poter dominare.
Si esprime poi, nel 1979, con Il prato. Qui la visione del paesaggio toscano trapassa da immagine della bellezza e dell’armonia a immagine del dolore, del male di vivere: Il prato ci avverte che dietro lo splendore che lo sguardo stupito coglie nel paesaggio si nasconde un lato oscuro, che fa di quello stesso paesaggio un mandante di morte. Sarà un tema che tornerà, in forma diversa, in Kaos e nei film degli anni Novanta.

Prima però, seguendo la scansione cronologica del percorso dei Taviani, è il momento del ciclo dominato da quello che Goethe chiama lo “spirito del racconto”, è il momento del ciclo della “favola e della Visione incantata”, che comprende La notte di San Lorenzo (1982), per certi aspetti lo stesso Kaos (1984) e Good Morning Babilonia! (1987). Gli autori non rinunciano certo a mettere in scena il confronto tragico dell’uomo con la potenza terribile della natura e con la “totalità” liberatoria ma anche devastante delle passioni, ma in una prospettiva nella quale sembra dominare il lato felice, solare, della loro visione del mondo. La prima manifestazione si ha con La notte di San Lorenzo (1982), ritorno della memoria e della fantasia al paesaggio dell’infanzia e della giovinezza, ai fatti tragici che vi si svolsero. Un film dove gli orrori della guerra, e della guerra civile, si convertono in immagini mitologiche, evocate dai versi di Omero; dove la volontà di ricordare assume la forma della favola; dove, d’altra parte, emerge in modo forte la tendenza alla composizione, alla stilizzazione.

Paolo e Vittorio Taviani

Poi è la volta di Kaos (1984).
È un viaggio - sollecitato dall’amore per Pirandello - verso la Sicilia, verso un paesaggio che è il secondo di elezione per Paolo e Vittorio Taviani.
È un paesaggio primordiale, solare eppure carico di mistero, è un’apparizione dietro la quale si intuisce la presenza di forze ancestrali.
È l’immagine del “regno della necessità naturale”, teatro di una feroce lotta per l’esistenza, percorso e percosso dalla manifestazione violenta e diretta delle passioni primordiali e di forze che sono naturali e soprannaturali ad un tempo: la luna, che incanta e marchia in modo indelebile Batà bambino, l’ombra notturna che passando sull’aia sembra produrre, come in un sortilegio, la rottura della giara…
Ma è anche un paesaggio, è un universo nel quale si genera e si rigenera la fantasia poetica colta nel suo stato sorgivo, un universo che si pone sulla linea di confine fra il mondo della natura e il mondo della cultura, una scena “vichiana” nella quale il “bestione tutto sensi”, posseduto dalle pulsioni del vitale, dalla carnalità, dalla ferocia, comincia a dominarle con la “fantasia”: che si esprime nel canto, nel gesto, nella figurazione, nel rito.

Infine, Good Morning Babilonia (1987) è ancora una favola - anche se il finale è apparentemente tragico, ma rovesciato positivamente dalla promessa di immortalità che il Cinema assicura ai due fratelli protagonisti del racconto - è forse addirittura la rappresentazione di un sogno, come sembrerebbe far pensare l’irreale scenario del finale. È una favola condotta con piena felicità narrativa, trapunta di momenti nei quali la visione incantata dispiega la sua capacità di fare affiorare delle apparizioni meravigliose: l’immagine iniziale della Chiesa dei Miracoli, la visione notturna di New York, il grande elefante bianco, impennato in mezzo al bosco.

Con gli anni Novanta una nuova svolta: si torna a cercare, dietro lo splendore figurativo del paesaggio, il lato oscuro della luna, l’immagine di Thanatos, che segretamente sempre accompagna il cammino di Orfeo, che sempre si nasconde dentro il paesaggio della favola. È questa la nuova tappa del viaggio dei Taviani, che comprende quattro film: Il sole anche di notte (1990), Fiorile (1993), Le affinità elettive (1996), Tu ridi! (1998). Al centro del discorso è sempre di più il paesaggio, la sua ambiguità che coniuga la Bellezza e la Morte. Contemporaneamente, in particolare nel film goethiano, prosegue e si rafforza il lavoro di composizione e di stilizzazione iconografica, anche attraverso un’accentuazione del valore simbolico del colore, che carica di senso i luoghi e i corpi: come se, quanto più forte si fa il sentimento del ruolo mortifero della Natura e delle Passioni, tanto più si senta il bisogno di comporre e riscattare la rappresentazione degli uomini nella nobiltà della forma.

Poi, ancora una svolta, un ritorno allo “spirito del racconto”, alle “grandi storie appassionanti”, con Resurrezione (2001), che trascura la componente religiosa e filosofica del libro di Tolstoj per esaltarne la componente romanzesca, melodrammatica, e Luisa Sanfelice (2004), che segue la trasformazione compiuta da Dumas di un personaggio di scarso rilievo e di dubbia moralità, elevando la “puttana delatrice”, la “martire per caso” della vicenda storica a Eroina di un grande romanzo popolare. Anche se va detto che questa “rappresentazione esagerata delle passioni in forma di feuilleton” è bilanciata da un rafforzamento dello “spirito della composizione e della stilizzazione figurativa”.

Questa ibridazione, questa combinazione di contenuti narrativi “bassi” e di pratiche formali “alte” è legata ad una riflessione e ad una scelta consapevole, relativa al canale comunicativo, ad un genere, quello della “fiction televisiva”, al suo sterminato pubblico. In questa attenzione, in questa curiosità, in questa ricorrente tentazione di uscire dai canoni consolidati del “cinema di autore” si esprime il gusto per la sperimentazione e per lo studio dei linguaggi, dei modelli di rappresentazione, di produzione, di fruizione, si esprime dunque la dimensione “riflessiva” del cinema dei Taviani.

Cuccu legge la Laudatio

Il professore Lorenzo Cuccu legge la Laudatio in onore dei fratelli Taviani

Infine, l’ultimo approdo, La masseria delle allodole, un ritorno alle misure e al pubblico della sala cinematografica. Un ritorno alla Storia, anche, alle vicende e ai problemi del nostro tempo. Ma è un ritorno carico di tutto ciò che nel corso del tempo si è scoperto, acquisito e costruito: la necessità della rielaborazione dei fatti storici nella rappresentazione, nella affabulazione melodrammatica, nella vicenda di amore e di sangue; la necessità della composizione, drammaturgica e figurativa; la permanente significatività e forza del confronto dell’uomo con il paesaggio, che in questo film è il luogo dell’alleanza, nella ferocia, della natura e della politica.

Per concludere. Nel suo sviluppo nel tempo, abbiamo seguito un percorso ricco di svolte, di oscillazioni. Abbiamo visto proporsi via via delle dominanti, secondo un movimento governato da una matrice profonda, che a mio parere consiste in una polarità, nella quale uno dei poli è positivo, euforico, solare, l’altro è negativo, disforico, notturno. Ne derivano tensioni, oscillazioni, variazioni. Con l’emergere sempre più chiaro però di due tendenze rettilinee che attraversano la sinusoide delle svolte e delle oscillazioni: la tendenza a fare del confronto dell’Uomo con il Paesaggio il centro tematico ed espressivo del discorso; la tendenza sempre più forte al conseguimento di una classicità della forma, della rappresentazione.

Vengono così creativamente rielaborati gli elementi del radicamento in una tradizione dei quali parlavo all’inizio. Ne deriva l’originalità, l’autonoma produttività di un discorso che, d’altra parte, da quel radicamento trae profondità e coerenza. Deriva anche un altro aspetto, al quale fa cenno la parte conclusiva della “Motivazione”.

Un Maestro che con i Taviani abbiamo avuto in comune - sia pure in ambiti e in tempi diversi - Carlo Ludovico Ragghianti, ci ha insegnato che ogni opera d’arte contiene anche un nucleo di riflessione, di teoria intrinseca e implicita.

Anche per questo il ripercorrimento dell’esperienza artistica di Paolo e Vittorio Taviani sarà una Lezione sulla quale dovremo riflettere, dalla quale potremo tanto imparare.

 

Lorenzo Cuccu
Docente di Cinema, Fotografia e Televisione
l.cuccu@arte.unipi.it