The challenge of international mobility… beyond Europe
Over the last few weeks 17 students arrived in Pisa from Egypt, Morocco, Kirghizstan, Tajikistan, Uzbekistan and Serbia and presently the selection notice calling for lecturers and doctoral students from the University of Pisa will be published, offering the chance to spend a period of time studying or teaching in those countries which had previously been excluded from the Erasmus mobility program. “International Credit Mobility KA 107” is one of the major innovations introduced into the Erasmus+ program in which the University of Pisa is a forerunner in Italy. What may be defined as “Erasmus outside Europe” allows both the academic staff (lecturers and technicians) and students in higher education “beyond Europe” to participate in a mobility experience in Europe and vice versa.
“After almost 30 years of Erasmus we are now entering a new phase,” says Professor Ann Katherine Isaacs, the Dean’s delegate for the European programs. “With Erasmus+, the international mobility programs have taken a step forward opening up to other areas in the world. The University of Pisa can take credit for setting up mobility projects with 14 countries outside Europe with Central Asia taking first place. From here, mobility back and forth from the University of Pisa appears to be more than 6% of the entire European mobility. In a number of countries such as Tajikistan and Turkmenistan it is the first time that agreements of this nature have been made.”
The countries with which the University of Pisa has opened 145 mobility programs are Cambodia, China, Laos, Mongolia, Vietnam, Kazakhstan, Kirghizstan, Tajikistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Egypt, Israel, Morocco and Serbia. Over the last few weeks, the University of Pisa organized the first two Staff Training visits for this project: the first with the coordinators from universities in Uzbekistan (Tashkent Pediatric Medical Institute, Andjan State University, Namangan Institute of Engineering and Technology), Morocco (Cadi Ayyad University) and Egypt (Alexandria University).
The second with the coordinators from Qingdao Agricultural University (China), Zhejiang Ocean University (China), Vietnam National University of Agriculture Hanoi (Vietnam), Savannakhet University (Laos), Mongolian State University of Life Sciences (Mongolia), Mongolian University of Science and Technology (Mongolia), International Information Technology University (Kazakhstan), M. Auezov South Kazakhstan State University (Kazakhstan), International University of Kyrgyzstan (Kyrgyzstan), Naryn State University (Kyrgyzstan), Cadi Ayyad University (Morocco), Suez Canal University (Egypt), University of Novi Sad (Serbia).
The guest coordinators visited various departments and presented their universities at a meeting with the International Coordinators (CAI) from Pisa in order to create a broader, reciprocal acquaintance and facilitate future relations.
KA 107 mobility is managed centrally by:
International Mobility and Education Programs Section
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La ministra e il super acceleratore
In occasione del G7 dedicato alla scienza e tecnologia, lo scorso 16 maggio la ministra Stefania Giannini ha visitato il laboratorio KEK a Tsukuba, in Giappone, dove gli scienziati italiani dell’Università di Pisa e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) stanno conducendo degli importanti esperimenti nel campo della fisica delle particelle.
La ministra è stata accolta dal professore Francesco Forti dell’Università di Pisa in veste di capodelegazione dell’INFN ed ha incontrato il direttore generale del laboratorio KEK, Masanori Yamauchi visitando quindi la sala dove si trova l’acceleratore SuperKEKB e dove è in fase di installazione l’esperimento Belle-II.
“Lo scopo di Belle II, attualmente in costruzione, è la scoperta dei segnali sfuggenti delle particelle ancora ignote, cioè non contemplate dalla teoria del Modello Standard”- ha spiegato Francesco Forti.
Belle-II è infatti un sofisticato rivelatore di particelle frutto di una collaborazione internazionale formata da oltre 600 fisici e ingegneri provenienti da 23 nazioni diverse. In particolare, i gruppi italiani sono impegnati nella costruzione di tre elementi chiave dell’esperimento: il rivelatore di vertice (SVD), il sistema di identificazione di particelle (TOP), e il calorimetro elettromagnetico (ECL). Inoltre l’Italia assicura un notevole contributo ai mezzi di calcolo necessari per l’analisi dell’enorme quantità di dati che l’esperimento raccoglierà a partire dalla seconda metà del 2017 fino al 2023-2024.
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Foto: la ministra Giannini, accanto al professor Forti, osserva uno dei moduli di rivelatore a silicio di SVD, prodotti in parte presso i laboratori delle alte tecnologie dell'Università e INFN, Pisa
La ministra e il super acceleratore
In occasione del G7 dedicato alla scienza e tecnologia, lo scorso 16 maggio la ministra Stefania Giannini ha visitato il laboratorio KEK a Tsukuba, in Giappone, dove gli scienziati italiani dell’Università di Pisa e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) stanno conducendo degli importanti esperimenti nel campo della fisica delle particelle.
La ministra è stata accolta dal professore Francesco Forti dell’Università di Pisa in veste di capodelegazione dell’INFN ed ha incontrato il direttore generale del laboratorio KEK, Masanori Yamauchi visitando quindi la sala dove si trova l’acceleratore SuperKEKB e dove è in fase di installazione l’esperimento Belle-II.
“Lo scopo di Belle II, attualmente in costruzione, è la scoperta dei segnali sfuggenti delle particelle ancora ignote, cioè non contemplate dalla teoria del Modello Standard”- ha spiegato Francesco Forti.
Belle-II è infatti un sofisticato rivelatore di particelle frutto di una collaborazione internazionale formata da oltre 600 fisici e ingegneri provenienti da 23 nazioni diverse. In particolare, i gruppi italiani sono impegnati nella costruzione di tre elementi chiave dell’esperimento: il rivelatore di vertice (SVD), il sistema di identificazione di particelle (TOP), e il calorimetro elettromagnetico (ECL). Inoltre l’Italia assicura un notevole contributo ai mezzi di calcolo necessari per l’analisi dell’enorme quantità di dati che l’esperimento raccoglierà a partire dalla seconda metà del 2017 fino al 2023-2024.
Un dispositivo elettronico dello spessore di un singolo atomo
Un dispositivo elettronico basato su di una eterostruttura bidimensionale, ovvero dello spessore di un singolo atomo, è stato realizzato per la prima volta nell’ambito di una ricerca internazionale che vede l’Ateneo pisano fra i protagonisti. Lo studio è frutto di una collaborazione internazionale tra l’Università di Pisa, il CNR, l’Istituto Catalano delle Nanoscienze e delle Nanotecnologie e l’Università di Tokyo, ed è stato recentemente pubblicato sulla rivista Nano Letters, giornale di riferimento nel settore delle nanotecnologie.
In particolare, il dispositivo è stato realizzato per mezzo di una tecnologia sviluppata dall’Università di Tokyo, in grado di modificare le proprietà elettriche del Bisolfuro di Molibdeno da semiconduttore a metallo, tramite un raggio di elettroni ad alta energia. Le simulazioni a livello atomistico effettuate dall’Università di Pisa (da Teresa Cusati, Gianluca Fiori e Giuseppe Iannaccone) e dal CNR di Pisa (Alessandro Fortunelli), oltre a fornire spiegazioni sugli effetti osservati a livello macroscopico, hanno permesso di prevedere il comportamento elettrico del dispositivo fabbricato, infine corroborato dagli esperimenti.
“La tecnologia sviluppata, sia dal punto di vista della fabbricazione, che di quello della simulazione – spiega Gianluca Fiori del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa - mette le basi per il raggiungimento di nuovi traguardi nel campo dell’elettronica bidimensionale, considerata sia in ambito scientifico che industriale come una tecnologia promettente al fine di ottenere transistor flessibili e a basso consumo”.
Un dispositivo elettronico dello spessore di un singolo atomo
Un dispositivo elettronico basato su di una eterostruttura bidimensionale, ovvero dello spessore di un singolo atomo, è stato realizzato per la prima volta nell’ambito di una ricerca internazionale che vede l'Ateneo pisano fra i protagonisti. Lo studio è frutto di una collaborazione internazionale tra l’Università di Pisa, il CNR, l’Istituto Catalano delle Nanoscienze e delle Nanotecnologie e l’Università di Tokyo, ed è stato recentemente pubblicato sulla rivista Nano Letters, giornale di riferimento nel settore delle nanotecnologie.
In particolare, il dispositivo è stato realizzato per mezzo di una tecnologia sviluppata dall’Università di Tokyo, in grado di modificare le proprietà elettriche del Bisolfuro di Molibdeno da semiconduttore a metallo, tramite un raggio di elettroni ad alta energia.
Le simulazioni a livello atomistico effettuate dall’Università di Pisa (da Teresa Cusati, Gianluca Fiori e Giuseppe Iannaccone) e dal CNR di Pisa (Alessandro Fortunelli), oltre a fornire spiegazioni sugli effetti osservati a livello macroscopico, hanno permesso di prevedere il comportamento elettrico del dispositivo fabbricato, infine corroborato dagli esperimenti.
“La tecnologia sviluppata, sia dal punto di vista della fabbricazione, che di quello della simulazione – spiega Gianluca Fiori (nella foto a destra, insieme a Teresa Cusati) del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa - mette le basi per il raggiungimento di nuovi traguardi nel campo dell’elettronica bidimensionale, considerata sia in ambito scientifico che industriale come una tecnologia promettente al fine di ottenere transistor flessibili e a basso consumo”.
Trasferta a Palermo per il master APC dell’Università di Pisa
Un fine settimana di lezioni del tutto particolare quello che si preparano a vivere gli allievi della VI edizione del master in Analisi, prevenzione e contrasto (APC) della criminalità organizzata e della corruzione. Per la prima volta, infatti, non saranno le aule dell’Università di Pisa il palcoscenico, ma la Sicilia: un programma fitto e denso, che si articolerà da venerdì 20 maggio fino a lunedì 23 maggio, con incontri, approfondimenti, testimonianze e visite a luoghi simbolo di Palermo e dintorni. Un appuntamento sentito, che vedrà presenti l’intera classe e l’equipe di gestione del Master, guidati naturalmente dal direttore Alberto Vannucci.
Si inizia venerdì 20 maggio alle 9.30 presso l’Auditorium RAI di Palermo: dopo i saluti di Fabrizio Micari, rettore dell’Università di Palermo, Maricetta Di Natale, direttrice dipartimento Cultura e Società, e di Guido Nicolò Longo, questore di Palermo, gli allievi del master assisteranno alla proiezione del documentario “Nella terra degli infedeli” di Salvatore Cusimano. A introdurre l’incontro ci saranno il presidente di Libera, Don Luigi Ciotti, Alessandra Dino, docente dell’Università di Palermo e del Master APC, e il direttore del Master APC, Alberto Vannucci. Interverranno Salvatore Cusimano, direttore RAI Sicilia, Leonardo Guarnotta, già presidente del Tribunale di Palermo, Vincenzo Gervasi, avvocato, e Gioacchino Natoli, presidente della Corte di Appello di Palermo. Una mattinata che si concluderà con la visione del filmato “Giovanni Falcone”, a cura di Arci Sicilia.
Nel pomeriggio, invece, gli allievi faranno visita agli uffici della Squadra mobile di Palermo per parlare con il Questore dell’evoluzione degli strumenti di indagine per il contrasto alla mafia, per poi incontrare insieme a Luigi Lombardo, segretario generale SIAP di Palermo, gli agenti dell’Ufficio scorte della Polizia di Stato.
Il giorno seguente, sabato 21 maggio, l’appuntamento è presso la Sala Conferenze dell’Associazione Siciliana della Stampa, per l’incontro dal titolo “Come si racconta la mafia che cambia: etica e deontologia del giornalista di cronaca“. Tra gli ospiti spiccano Riccardo Arena, presidente Ordine giornalisti di Sicilia, Maurizio de Lucia, Magistrato della Direzione Nazionale Antimafia, Salvatore Caradonna, Addiopizzo, Roberto Ginex, segretario provinciale Assostampa di Palermo, il professor Alberto Vannucci e, ad aprire la giornata, Salvo Palazzolo, giornalista di Repubblica e docente del Master APC.
Nel pomeriggio di sabato, invece, ci trasferiremo a Brancaccio, presso l’Auditorium comunale Di Matteo, di Via San Ciro 15, per un incontro dal titolo “Dall’inchiesta sul giudice Borsellino al caso Padre Pino Puglisi. Fra sottovalutazioni ed errori, il giornalismo in tema di mafia“. In collaborazione con il Centro di accoglienza Padre Nostro Onlus, interverranno Francesco Puglisi, fratello di Don Pino Puglisi, Angelo Mangano, inviato di Mediaset, Angela Randazzo, dirigente scolastico Educandato Maria Adelaide di Palermo, Maurizio Artale, presidente del Centro di accoglienza Padre Nostro Onlus, e il direttore del Master, Alberto Vannucci. A coordinare i lavori sarà Salvo Palazzolo.
Domenica 22 maggio gli studenti si trasferiranno ad Agrigento per incontrare Rosario Di Legami, avvocato e amministratore giudiziario che da anni è docente del Master APC. In quell’occasione, oltre a godere delle bellezze storico-artistiche di quella terra, gli allievi avranno la possibilità di visitare un plesso turistico posto sotto amministrazione giudiziaria, potendo vedere in prima persona quanto già appreso durante le lezioni frontali pisane.
La trasferta siciliana non poteva che concludersi lunedì 23 maggio, anniversario della strage di Capaci. Quel giorno, di concerto con la Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, gli allievi del Master APC parteciperanno alle cerimonie di commemorazione della strage: una delegazione sarà presente all’Aula Bunker del carcere dell’Ucciardone di Palermo, dove interverranno, tra gli altri, il Presidente del Senato, Pietro Grasso, altri studenti, invece, prenderanno parte agli altri numerosi incontri sparsi per la città.
Il libreria la storia della scoperta dell’Homo naledi
Il 13 settembre 2013 due speleologi sudafricani scesi nel vasto sistema di gallerie di Rising Star, nei dintorni di Johannesburg, individuarono casualmente una «camera segreta», colma di ossa fossili, risultate poi essere circa 1550. È così, in modo del tutto fortuito, che avviene la scoperta di Homo naledi («naledi» significa «stella» in lingua locale sotho), una nuova specie ominine dalle caratteristiche uniche. Dall’eccezionale ritrovamento prende il via un’entusiasmante avventura scientifica e umana, che apre scenari inediti sulla nostra storia più antica e ci spinge a guardare con occhi diversi anche il presente. A raccontarla - nel volume da pochi giorni in libreria “Il mistero di Homo naledi. Chi era e come viveva il nostro lontano cugino africano: storia di una scoperta rivoluzionaria” (Mondadori) - è uno dei suoi protagonisti, Damiano Marchi, paleoantropologo del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, l’unico studioso italiano chiamato a partecipare al workshop scientifico internazionale su Homo naledi.
Venerdì 20 maggio, alle ore 18.15, Damiano Marchi sarà ospite della trasmissione di Rai Tre Geo&Geo per presentare il suo volume.
Esperto nello studio degli arti inferiori e dell’evoluzione della locomozione, Marchi, insieme ad altri quaranta paleoantropologi provenienti da tutto il mondo, ha analizzato i fossili rinvenuti a Rising Star, tracciando ipotesi sulle abitudini e il comportamento di questo nostro remoto cugino. Alto circa un metro e mezzo, dotato di mani adatte ad arrampicarsi sugli alberi e, insieme, di gambe perfettamente in grado di camminare in posizione eretta, con un cervello piccolo come un’arancia, Homo naledi unisce caratteristiche arcaiche e moderne.
Nella Camera di Dinaledi, dove Homo naledi è stato trovato, giacevano i corpi di almeno quindici individui di varie età. Come e perché erano giunti in un luogo così remoto? Possibile che la presenza di tanti resti testimoni la più antica forma di deposizione intenzionale dei morti mai scoperta? E quando è realmente vissuto Homo naledi: 2 milioni o 500.000 anni fa, visto che entrambe le ipotesi sono tuttora aperte? In questo libro, Marchi ricostruisce il complesso lavoro del paleoantropologo che, con la pazienza di un detective scrupoloso, esamina ogni minimo frammento fossile per trovare nuove risposte alle domande che gli scienziati si pongono sull’origine del genere umano. In qualsiasi epoca sia vissuto, l’«uomo stella» ci costringe infatti a rivedere consolidate teorie sull’evoluzione e a riconsiderare anche noi stessi non più come rappresentanti privilegiati di un «mondo a parte», ma come il frutto di un processo che, attraverso gli stessi meccanismi, ha portato sia all’Homo sapiens sia a tutti gli esseri viventi con cui condividiamo il pianeta.
Damiano Marchi, paleoantropologo del Dipartimento di Biologia dell’università di Pisa, per sei anni visiting assistant professor alla Duke University di Durham (Stati Uniti) e per un anno ricercatore all’Università del Witwatersrand di Johannesburg, è il solo italiano chiamato a far parte del team guidato dal paleontologo Lee Berger a cui si deve lo straordinario ritrovamento di Homo naledi.
«Il mistero di Homo naledi. Chi era e come viveva il nostro lontano cugino africano»
Il 13 settembre 2013 due speleologi sudafricani scesi nel vasto sistema di gallerie di Rising Star, nei dintorni di Johannesburg, individuarono casualmente una «camera segreta», colma di ossa fossili, risultate poi essere circa 1550. È così, in modo del tutto fortuito, che avviene la scoperta di Homo naledi («naledi» significa «stella» in lingua locale sotho), una nuova specie ominine dalle caratteristiche uniche.
Dall’eccezionale ritrovamento prende il via un’entusiasmante avventura scientifica e umana, che apre scenari inediti sulla nostra storia più antica e ci spinge a guardare con occhi diversi anche il presente. A raccontarla - nel volume da pochi giorni in libreria “Il mistero di Homo naledi. Chi era e come viveva il nostro lontano cugino africano: storia di una scoperta rivoluzionaria” (Mondadori) - è uno dei suoi protagonisti, Damiano Marchi, paleoantropologo del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, l’unico studioso italiano chiamato a partecipare al workshop scientifico internazionale su Homo naledi.
Venerdì 20 maggio, alle ore 18.15, Damiano Marchi sarà ospite della trasmissione di Rai Tre Geo&Geo per presentare il suo volume.
Nel suo libro, Marchi ricostruisce il complesso lavoro del paleoantropologo che, con la pazienza di un detective scrupoloso, esamina ogni minimo frammento fossile per trovare nuove risposte alle domande che gli scienziati si pongono sull’origine del genere umano. In qualsiasi epoca sia vissuto, l’«uomo stella» ci costringe infatti a rivedere consolidate teorie sull’evoluzione e a riconsiderare anche noi stessi non più come rappresentanti privilegiati di un «mondo a parte», ma come il frutto di un processo che, attraverso gli stessi meccanismi, ha portato sia all’Homo sapiens sia a tutti gli esseri viventi con cui condividiamo il pianeta.
Qui di seguito pubblichiamo le prime pagine del volume, che introducono il lettore nell'avventura di una scoperta scientifica rivoluzionaria.
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Avere l'opportunità di studiare ossa fossili mai viste prima, contribuendo a una scoperta che potrà rivoluzionare la storia dell'uomo, è il sogno di ogni paleoantropologo. Di solito, è destinato a restare tale. Io, invece, quel sogno ho avuto la fortuna di realizzarlo, per un mese, in un laboratorio blindato come una cassaforte, fianco a fianco con una cinquantina di colleghi elettrizzati quanto me, ho ricostruito, classificato e analizzato i resti fossili di una specie lontana cugina dell'uomo moderno. Una specie finora sconosciuta, l'Homo naledi, la cui scoperta dischiude inediti scenari sulle nostre origini, ma riserva anche affascinanti misteri irrisolti, costituendo una sfida tuttora aperta per noi scienziati.
Ogni grande avventura è conseguenza di una serie di avvenimenti che l'hanno resa possibile. Eppure, c'è sempre un singolo evento che determina il punto di svolta decisivo. Se, dunque, mi guardo indietro per ripercorrere a ritroso l'impresa cui ho contribuito, non posso fare a meno di visualizzare la schermata del mio portatile dove campeggia l'avviso di un nuovo messaggio di posta elettronica in arrivo. Sono le 11.15 di mattina del 24 febbraio 2014 e mi trovo nel mio ufficio di ricercatore nella sede del dipartimento di Biologia dell'Università di Pisa, dove lavoro da circa un anno e mezzo. La email proviene da Johannesburg, una città che conosco bene perché ci ho vissuto tra il 2011 e il 2012, quando ho avuto un contratto sempre come ricercatore presso la locale Università del Witwatersrand, familiarmente chiamata Wits da studenti e professori, dove si trova uno dei più prestigiosi istituti di antropologia evolutiva del mondo, l'Evolutionary Studies Institute. Il testo della email è breve ma esauriente: la mia candidatura al workshop per lo studio dei fossili rinvenuti nelle caverne di Rising Star è stata accettata! Mi chiedono, dunque, se intendo confermare la mia partecipazione.
Il tempo di assimilare la notizia e di condividerla con i colleghi, e all'una confermo. Quindi, chiudo il portatile e me ne torno a casa. Riprendere quello che stavo facendo prima, ovvero preparare la mia prossima lezione del corso sull'evoluzione dei primati, mi risulta impossibile: quel giorno non sarei più riuscito a pensare ad altro.
Il sogno di ogni paleoantropologo nel mio caso si sarebbe dunque presto realizzato, e in più avendo la straordinaria opportunità di studiare una quantità considerevole (si parlava di centinai adi reperti, eccezionalmente ben conservati) di fossili appartenenti a una specie che, stando agli esami preliminari, pareva essere del tutto nuova e la cui scoperta, avvenuta solo pochi mesi prima, stava già tenendo con il fiato sospeso l'intera comunità scientifica mondiale. Ed è così che attraverso un breve messaggio online, una tipica comunicazione del mondo temporaneo, ho compiuto il primo passo verso la conoscenza di Homo naledi, affascinante ed enigmatica creatura emersa delle viscere della terra per fare nuova luce sul nostro più remoto passato. Del resto, naledi (che deriva dal nome del sito Rising Star) significa “stella” nella lingua locale sotho. Una stella nascente i cui misteri ancora insoluti portano a interrogarci sulle origini dell'uomo e a mettere in discussione convinzioni che fino a ieri sembravano assodate.
Damiano Marchi
Ne hanno parlato:
Corriere della Sera "La Lettura"
il Giornale
Geo&Geo
QN
National Geographic
Tirreno
Il Centro
Archeologia Viva
ArcheologiaViva.it
Radio 3 Scienza
Selezione per un contratto di cat. B presso il Sistema Museale - Orto Botanico
L’Italia a bordo del “treno del futuro” con la start up fondata dagli studenti di Unipi e Sant'Anna
L’Italia sale a bordo di Hyperloop, per realizzare il “treno del futuro” che con le sue “navicelle” al posto delle carrozze raggiungerà i mille chilometri all’ora e coprirà in meno di 30 minuti una distanza come quella tra Milano e Roma. Il sogno di contribuire al progetto lanciato da Elon Musk, fondatore e amministratore delegato di aziende innovative come SpaceX e Tesla passa per una start-up, un’azienda innovativa italiana con sede a Pisa, la Ales Tech, l’unica azienda tricolore selezionata per cimentarsi nell’impresa e fornire, in questa fase propedeutica, le sospensioni in grado di garantire il comfort dei passeggeri e di ridurre le forti vibrazioni provocate dall’elevata velocità.
La start-up Ales Tech nasce da Hyperloop Team Pisa, il gruppo di studenti in ingegneria dell’Università di Pisa e della Scuola Superiore Sant’Anna che nei mesi scorsi sono stati selezionati (unici in Italia e fra i pochi in Europa) per partecipare alla “SpaceX Hyperloop Pod Competition”, gara universitaria a livello globale indetta da Elon Musk, per presentare il “concept” della “navicella”, l’elemento paragonabile all’attuale carrozza ferroviaria, con design e tecnologia più avanzate, fondamentale nella composizione di Hyperloop.
Il sistema su cui si muoverà sarà costituito da tubi di acciaio sui quali le “navicelle”, chiamate “Pod”, si muoveranno sino a sfiorare la velocità del suono, in maniera ecologica, sicura, confortevole. Sembra di leggere il soggetto di un film di fantascienza, si tratta invece della rappresentazione di uno sforzo ingegneristico mondiale, di cui l’Italia fa parte e che presto potrebbe trasformarsi in realtà, soprattutto all’indomani dei test condotti nel deserto del Nevada (Usa) e che hanno dato esiti positivi.
L’approccio italiano per contribuire alla realizzazione di quello che Elon Musk ha presentato come il quinto mezzo di trasporto - dopo l’auto, l’aereo, il treno, la nave – è stato caratterizzato da una forte componente innovativa. Anziché concentrarsi sulla progettazione dell’intero veicolo, gli ingegneri hanno rivolto l’attenzione sulle sospensioni della “navicella” e sulle vibrazioni, conseguente criticità che esse presentano, legata alle grandi velocità in gioco. Per superare il problema che avrebbe potuto vanificare gli sforzi per realizzare in tempi brevi il prototipo di Hyperloop, è nata l’idea di realizzare un innovativo sistema, oggi brevettato, di sospensioni smart, capaci di leggere anche la minima imperfezione del tracciato, di massimizzare il comfort per i passeggeri e di garantire la stabilità delle “navicelle”, anche quando raggiungono altissime velocità.
Il progetto teorico di queste sospensioni è stato presentato in Texas, in occasione della competizione universitaria a cui il team italiano è stato invitato a partecipare. Per il grande apprezzamento i due team leader, Luca Cesaretti (nella foto in basso a sinistra) e Lorenzo Andrea Parrotta, entrambi allievi dell’Università di Pisa e della Scuola Superiore Sant’Anna, hanno trasformato nella tesi il lavoro svolto sul campo, per prepararsi alla gara. La partecipazione italiana alla nascita di Hyperloop poteva terminare con la discussione e invece è successo il contrario: il gruppo si è trasformato in una start-up, la cui nascita è stata sancita in queste ore davanti a un notaio di Pisa ed è stato scelto da diversi team di grandi università americane finalisti alla “SpaceX Hyperloop Pod Competition” il cui vincitore fornirà il concept di Hyperloop.
Al gruppo di ingegneri – del team originale è rimasto anche Tommaso Sartor - si sono ora aggiunti allievi di altre discipline come l’economia e la giurisprudenza tra i quali Andrea Paraboschi e Antonio Davola, nei rispettivi ruoli di responsabile strategia e innovazione e responsabile legale. Ales Tech è pronta al debutto sul mercato, forte dei consensi di alcuni investitori. “Imprenditori con un’importante storia industriale alle spalle – commenta Andrea Paraboschi - stanno credendo come noi alle possibilità di coronare il sogno di fornire le sospensioni ad Hyperloop e di proseguire la crescita. Gli investitori apprezzano la volontà di innovare nel mondo dell’ingegneria meccanica e il fatto che la nostra soluzione sia trasferibile e applicabile con facilità in contesti e mercati, anche tradizionali”.
Ales Tech sta già contattando i fornitori per acquistare le parti meccaniche con le quali realizzare le sospensioni. L’obiettivo è individuare tutti i componenti tra quelli prodotti in Italia. “Nel nostro paese – spiega l’ingegnere Luca Cesaretti - sono tantissime le piccole e medie imprese di eccellenza che operano nel campo della meccanica e che possono offrirci i componenti che fanno al caso nostro”.
Il dialogo con gli studenti universitari resta aperto. “Siamo felici di constatare come numerosi studenti di tutta Italia ci contattino per collaborare con noi. Hyperloop è una grande sfida che stimola ricerca e innovazione in numerosi settori e fa piacere vedere che a volerla cogliere siano tantissimi giovani, proprio come noi”, sottolinea Lorenzo Andrea Parrotta. “Stiamo predisponendo un grande programma - aggiunge Antonio Davola – che abbiamo ribattezzato ‘Hyperloop Team Italia’, e che vogliamo lanciare con le più grandi università italiane per stimolare la ricerca su Hyperloop".