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Particelle piccolissime, quasi indistinguibili dalla sabbia, le microplastiche nelle nostre spiagge sono una forma di inquinamento elusivo e pervasivo con cui è sempre più necessario fare i conti. A far luce sul fenomeno è arrivato un nuovo studio del dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Pisa pubblicato su Environmental Science and Technology, la rivista dell’American Chemical Society, tra le più autorevoli nel settore tecnologico-ambientale.

La ricerca coordinata dal professore Valter Castelvetro ha analizzato dei campioni di sabbia raccolti nei pressi delle foci dei fumi Arno e Serchio per determinare la quantità e la natura dei frammenti di plastica inferiori ai 2 millimetri. I risultati hanno evidenziato la presenza di notevoli quantità di materiale polimerico parzialmente degradato, fino a 5-10 grammi per metro quadro di spiaggia, derivante per lo più da imballaggi e da oggetti monouso abbandonati in loco, ma in prevalenza portati dal mare. Come tipologia si tratta prevalentemente di poliolefine, di cui sono fatti ad esempio gran parte degli imballaggi alimentari, e di polistirene, una plastica rigida ed economica usata anche per i contenitori dei CD o i rasoi usa e getta. Questi residui variamente degradati sono stati ritrovati in quantità diversa a seconda della distanza dal mare, più concentrati nella zona interna e dunale per effetto della progressiva accumulazione rispetto alla linea della battigia.

 

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Da sinistra: Tarita Biver, Virginia Vinciguerra, Antonella Manariti, Sabrina Bianchi, Francesca Modugno, Jacopo La Nasa, Andrea Corti, Valter Castelvetro, Rita Carosi, Alessio Ceccarini



“Le nostre ricerche stanno mettendo in evidenza quanto questa forma di contaminazione ambientale possa essere pervasiva e pressoché onnipresente anche nelle zone di intensa frequentazione turistico-balneare – spiega il professore Valter Castelvetro – uno dei principali rischi poi è che le microplastiche agiscano da collettori di sostanze inquinanti anche altamente tossiche come pesticidi e idrocarburi policiclici aromatici”.

La gestione dell’inquinamento marino e lacustre da plastica, in Italia e nel mondo, si è finora per lo più limitata a campagne di raccolta e conta (più raramente di identificazione) di frammenti plastici in mare. In genere viene utilizzata la cosiddetta “manta”, una specie di retino a maglia fine trainato da imbarcazioni, che cattura oggetti e frammenti galleggianti generalmente di dimensioni maggiori di 2 millimetri. Molto più sporadiche sono invece le campagne di raccolta di plastiche sulle spiagge costiere, così come gli studi scientifici sulla loro distribuzione e gli eventuali effetti sull’ecosistema.

 

microplastiche



La ricerca dell’Ateneo pisano mira proprio a colmare questa lacuna in modo da definire un modello analitico relativo alla distribuzione delle varie tipologie di microplastiche sulle coste italiane basato su analisi a campione. A partire da questi primi dati raccolti – giusto per dare un ordine di grandezza – i ricercatori ad esempio stimano che la quantità di microplastiche sulle spiagge italiane sia pari a 1.000/2.000 tonnellate.

“E’ importante sensibilizzare il mondo scientifico e delle istituzioni nazionali ed internazionali verso il problema delle microplastiche che sebbene potenzialmente di grande impatto è stato finora poco compreso – conclude Castelvetro – sono quindi necessarie nuove ricerche per valutare quale possa essere l’effetto di questa forma di inquinamento altamente pervasiva e, stando ai primi risultati, assai più massiccia di quanto non si credesse”.

La ricerca dell’Università di Pisa è stata finanziata con i fondi di Ateneo (PRA 2017). Fanno parte del gruppo ricerca insieme a Valter Castelvetro i professori Alessio Ceccarini, Francesca Modugno e la dottoressa Tarita Biver come personale docente; i dottori Andrea Corti, Sabrina Bianchi, Antonella Manariti e Rita Carosi come tecnici di ricerca; il dottor Jacopo La Nasa, assegnista di ricerca, e Virginia Vinciguerra, laureanda del dipartimento di Chimica e Chimica Industriale.

 

image copy copy copy copy copy copy copy copy copy copyL’Università di Pisa istituisce una borsa di dottorato in Scienze politiche intitolata a Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano dell’Università di Cambridge, torturato e ucciso al Cairo il 25 gennaio 2016. L’Ateneo pisano ha recepito l’invito della CRUI che, lo scorso gennaio, accogliendo la richiesta di numerose organizzazioni di dottorandi, ha avanzato la proposta di destinare in tutte le università italiane una borsa di dottorato alla memoria di Giulio Regeni, per ricordarne e commemorarne l’impegno, a costo della sua stessa vita, per la libertà della ricerca. 

L’iniziativa è stata presentata in rettorato mercoledì 11 luglio dal rettore Paolo Mancarella, dalla prorettrice vicaria Nicoletta De Francesco, presidente della Fondazione premi, borse di studio e provvidenze dell’Università di Pisa che ha finanziato la borsa, dalla professoressa Marcella Aglietti, delegata per il dottorato di ricerca, e dalla professoressa Elena Dundovich, coordinatrice del dottorato di ricerca in Scienze Politiche.

«Da subito ho ritenuto l’iniziativa della CRUI importante e degna di essere recepita – ha commentato il rettore Paolo Mancarella – Ho proposto di istituire anche a Pisa una “borsa di dottorato Giulio Regeni”, così come avevano già fatto molti altri atenei italiani (solo per ricordarne alcuni Bologna, Milano Statale, Napoli Federico II) e proprio in analogia con quanto fatto altrove, ho suggerito che la borsa fosse dedicata ai temi dei quali Regeni si occupava, e quindi di bandire un progetto di ricerca a tematica vincolata, a carattere internazionale e interdisciplinare di area politico-sociale, da assegnare al dottorato di Scienze politiche. La particolarità di Pisa è che la borsa istituita è totalmente nuova e va ad aggiungersi alle altre già attive al dipartimento».

La borsa di dottorato “Giulio Regeni”, il cui oggetto è “Attori e dinamiche nazionali e internazionali nei cambiamenti di regime politico in un mondo globalizzato”, è rivolta a progetti di ricerca dedicati all’approfondimento del complicato intreccio tra istituzioni nazionali e internazionali, nonché tra soggetti politici e religiosi, al fine di giungere a una migliore comprensione della trasformazione dei sistemi politico-istituzionali. L’ambito geopolitico di ricerca potrà riguardare il Medio Oriente e il Nord Africa così come altre aree interessate da questo tipo di fenomeni.

«Dal punto di vista scientifico la borsa di studio intitolata a Giulio Regeni si inserisce in maniera armonica nel contesto degli studi e delle ricerche scientifiche condotti dal dottorato di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, caratterizzato da un taglio multidisciplinare che incentiva la ricerca nel campo delle discipline attinenti alla sociologia, alla storia e alla cultura politica», ha aggiunto la professoressa Elena Dundovich.

«L’auspicio è che la borsa “Giulio Regeni” possa essere assegnata ogni anno a un settore disciplinare diverso – conclude la professoressa Marcella Aglietti – Il miglior modo di ricordare Giulio Regeni è incentivare i nostri giovani nello studio di tematiche affini ai suoi ambiti di interesse. Per questo la borsa sarà destinata a progetti di dottorato dedicati alla ricerca in ambito di cooperazione e sviluppo in Paesi extraeuropei, di diritti umani, di risoluzione dei conflitti».

Il bando per presentare il proprio progetto di ricerca è disponibile sul portale dei dottorati di ricerca http://dottorato.unipi.it. La scadenza è il 25 luglio.

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Nella foto, da sinistra: Elena Dundovich, Paolo Mancarella, Marcella Aglietti e Nicoletta De Francesco.

Una ricerca dell’Università di Pisa ha rivelato per la prima volta il meccanismo che favorisce la diffusione di una delle specie aliene più presenti nel Mediterraneo, Caulerpa cylindracea. Il segreto sta infatti nella capacità di questa macroalga verde di origine Indo-Pacifica, tipica delle zone tropicali, di modificare i fondali che colonizza in modo da garantirsi un vantaggio competitivo rispetto alle specie native. La scoperta arriva da uno studio pubblicato sul Journal of Ecology, la rivista della British Ecological Society, e condotto dai ricercatori del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano in collaborazione con i colleghi australiani della University of New South Wales e del Sydney Institute of Marine Science, insieme agli italiani delle Università di Cagliari e Politecnica delle Marche e della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli.

“La diffusione di alghe invasive rappresenta un’importante minaccia per la biodiversità marina – spiega il professore Fabio Bulleri dell’Università di Pisa – e se sulla terraferma le interazioni tra suolo e piante sono ben documentate ed ampiamente riconosciute tra i processi che regolano l’insediamento di specie non native, questa è la prima volta che il fenomeno viene osservato in un ambiente marino”.

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Caulerpa cylindracea (crediti foto: Stefano Guerrieri)


La sperimentazione è stata condotta a Capraia, un'isola inserita nella rete del Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano e caratterizzata da condizioni ambientali incontaminate. Qui, sui fondali sabbiosi, i ricercatori hanno potuto osservare la “lotta” fra la specie aliena Caulerpa e la pianta nativa Posidonia (Posidonia oceanica), presente in rigogliose praterie che in virtù della trasparenza dell'acqua possono estendersi fino a profondità di oltre 30 metri.

Dallo studio è emerso che le due specie influenzano i fondali in modo diverso: nel caso della Caulerpa i sedimenti sono caratterizzati da comunità microbiche e processi metabolici che riflettono condizioni anaerobiche, mentre nel caso della Posidonia riflettono condizioni aerobiche. I ricercatori hanno inoltre dimostrato che la capacità di insediamento della Caulerpa è più elevata nelle aree che ha precedentemente colonizzato. La macroalga sarebbe infatti capace di modificare le caratteristiche dei sedimenti, in termini di comunità microbica, quantità e qualità della materia organica, in modo da rendere i fondali più favorevoli alla propria diffusione e impedendo contemporaneamente l’avanzata delle specie native.

“I risultati dello studio– conclude Fabio Bulleri - incrementano la nostra comprensione dei meccanismi che regolano l’insediamento di specie aliene in ambiente marino e contribuiscono quindi ad aumentare la nostra capacità di far fronte al problema delle invasioni biologiche e, quindi, di conservazione della biodiversità marina”.

 

Cattedrale cover.jpgFacciate continue e svettanti che anticipano le soluzioni dei moderni grattacieli, città con camminamenti e sistemi di trasporto su più livelli dove il senso della velocità ed il movimento sono insiti nelle forme. Sono questi alcuni tratti che caratterizzano il lavoro di Mario Chiattone (1891-1957), architetto futurista legato a Umberto Boccioni e ad Antonio Sant’Elia, i cui progetti sono oggi conservati nel Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi. Si tratta di oltre quaranta opere che nel 1965 furono donate dalla famiglia Chiattone al Gabinetto Disegni e Stampe all’Università di Pisa allora diretto da Carlo Ludovico Ragghianti. Un corpus che sarà accuratamente analizzato e restaurato grazie al progetto europeo “Cattedrali della modernità. Progetti e colori delle metropoli ‘futuriste’ di Mario Chiattone” coordinato dal Dipartimento di Civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa e realizzato in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Ottica del CNR di Firenze e con l’Istituto di Scienze e Tecnologie Molecolari del CNR di Perugia.

“La possibilità di studiare l’intero corpus di opere di Chiattone costituisce un’occasione unica per far luce su un protagonista delle avanguardie italiane – spiega Mattia Patti professore dell’Ateneo pisano, che sta seguendo le indagini insieme ai colleghi Denise Ulivieri e Alessandro Tosi, quest’ultimo direttore scientifico del Museo della Grafica – in particolare ci occuperemo della produzione compresa tra il 1914 e il 1917, l’importanza dei progetti e dei dipinti è tale da imporre un esame approfondito delle loro caratteristiche tecniche e materiali non solo per conoscere meglio le modalità realizzative di queste opere, ma anche per elaborare un piano di conservazione”.

Tra le analisi realizzate, la riflettografia infrarossa multispettrale ha dato ad esempio importantissimi risultati anche per quanto riguarda lo studio dei metodi costruttivi seguiti da Chiattone, rivelando una fitta trama di linee e segni tracciati a matita durante la fase preliminare di lavoro e precedente all’applicazione del colore che caratterizza la maggior parte delle opere della collezione.


Alla fine del progetto, i risultati delle indagini confluiranno in una grande retrospettiva e in un catalogo scientifico delle opere di Mario Chiattone che l’Università di Pisa e il Museo della Grafica hanno programmato per il 2020. L’ultima mostra su Chiattone è stata realizzata in Italia nel 1965 in occasione della donazione all’Ateneo pisano e all’epoca fu redatta una prima schedatura delle opere molto sintetica, ad oggi l’unica esistente.

“Attraverso la nostra ricerca – conclude Mattia Patti – cerchiamo di colmare una clamorosa lacuna nel panorama degli studi sull’architettura d’avanguardia italiana di inizio Novecento. La collezione di progetti e dipinti di Mario Chiattone dell’Università di Pisa è un nucleo di eccezionale importanza nel panorama dell’architettura futurista, sono opere continuamente richieste da tutto il mondo per esposizioni temporanee, non ultimo dal Guggenheim di New York, opere che ora finalmente vorremmo valorizzare anche in Italia”.

 

Un team di ricercatori è riuscito a ricostruire le fasi del meccanismo di funzionamento della serotonina, la cosiddetta molecola della felicità, a livello dei circuiti neuronali dei gangli della base, in particolare del circuito talamo-striatale. Questi circuiti sono importanti per il controllo del movimento e della flessibilità comportamentale, ossia la capacità di adattarsi ai cambi di contesto da un punto di vista emotivo e motorio, e non funzionano correttamente nel caso di patologie come il morbo di Parkinson o i disturbi ossessivi-compulsivi.

La ricerca, pubblicata sulla rivista internazionale Neuron, è stata coordinata da Raffaella Tonini del dipartimento di Neuro Modulation Cortical e Subcortical Circuits dell’IIT- Istituto Italiano di Tecnologia, con la collaborazione del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e di un partenariato internazionale di enti di ricerca fra cui la Sorbonne Université di Parigi.

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“Ricostruire in maniera molto accurata i meccanismi molecolari con cui la serotonina funziona nel cervello – spiega Raffaella Tonini, coordinatrice del team di ricerca - è importante anche per capire cosa avviene in condizioni patologiche in cui la serotonina non viene prodotta o in cui mancano i recettori specifici a cui legarsi”.

Nel corso dello studio, i neuroscienziati hanno utilizzanto approcci sperimentali avanzati, tra cui l’optogenetica e la chemogenetica, per accendere e spegnere i neuroni attraverso la luce o l’attivazione di proteine geneticamente ingegnerizzate. Manipolando i livelli di serotonina, i ricercatori hanno così potuto definire per la prima volta il meccanismo d’azione di un suo specifico recettore, il recettore 5-HT4, e il tipo di connessioni neuronali che modula. Tale meccanismo d’azione sembrerebbe dipendere dalla localizzazione di questo recettore in regioni specifiche del neurone.

“Questo è stato possibile – spiega il professore Massimo Pasqualetti dell’Ateneo pisano - grazie alla possibilità che oggi abbiamo in laboratorio di generare modelli animali in cui l'attività di una specifica popolazione neuronale, in questo caso quella dei neuroni che producono la serotonina, può essere modulata in remoto, così da verificare in tempo reale le conseguenze della riduzione di rilascio di serotonina a livello dello striato”.

La serotonina è un neuromodulatore fino ad oggi noto per aver funzione nel regolare l’umore, l’appetito e altre funzioni legate all’aspetto emozionale. Il team IIT con questo studio ha dimostrato che la comunicazione tra neuroni del talamo e quello dello striato è ridotta se avviene in assenza di serotonina. Studi attualmente in corso nel laboratorio di Raffaella Tonini suggeriscono che bloccando l’azione del recettore 5-HT4, la capacità di adattarsi ad una nuova situazione, cambiando strategia d’azione, è più lenta.

Questo studio getta dunque le basi per comprendere patologie come la depressione, in cui il recettore per la serotonina 5-HT4 non viene prodotto in normale quantità, avvalorando recenti teorie neuropsichiatriche che evidenzierebbero nei pazienti affetti da depressione un’incapacità di adattarsi ai cambiamenti imposti dall’ambiente.

“Capire i meccanismi molecolari con cui la serotonina opera in determinati circuiti neuronali è importante anche per il trattamento di patologie che hanno sintomi di comorbidità, tra cui i disturbi cognitivi e dell’umore associati al morbo di Parkinson, consentendo di migliorarne la terapia” – conclude Raffaella Tonini.

 



 

pane viola ricercatrici2Un pane viola a lievitazione naturale, con tre “super ingredienti” che lo rendono un prodotto in grado di coniugare gli elementi dell’innovazione e quelli della tradizione: è nato “Well-Bred”, il pane dal caratteristico colore dato dalle patate viola, ricco di antiossidanti, a prolungata conservabilità e adatto a consumatori con esigenze particolari (intolleranti al glutine, vegani, ipertesi, ecc.). Il prodotto è il frutto degli studi del gruppo di Tecnologie alimentari, in collaborazione con alcuni ricercatori di Biochimica Agraria dell’Università di Pisa, in particolare della laureanda Anna Valentina Luparelli e della dottoranda Isabella Taglieri, coordinate dalla loro professoressa Angela Zinnai. Il pane viola è stato uno dei progetti che ha partecipato alla finale del PhD+, il corso dell’Università di Pisa che insegna a pensare innovativo e a trasformare le idee in impresa.

«“Well-Bred” rappresenta un prodotto in grado di sintetizzare una serie di aspetti positivi per un alimento, quali l’elevato valore nutraceutico, le migliorate caratteristiche tecnologiche e sensoriali, nonché la maggiore sostenibilità ambientale – spiegano le ricercatrici - Il prodotto può rappresentare un modello per l’intero comparto dei prodotti da forno, che prevedrebbe la rivisitazione delle ricette sia di merende o snack, per uno spuntino nutrizionalmente bilanciato, sia di quei dolci che fanno parte a pieno titolo della grande tradizione dolciaria italiana (panettone, pandoro, colomba, schiacciata pasquale, ecc.). Abbiamo scelto il nome “Well-Bred” (cresciuto bene), giocando sull’assonanza con il termine bread (pane), per valorizzare allo stesso tempo le sue caratteristiche altamente salutari».

I tre “super ingredienti” utilizzati dal gruppo di ricerca sono il lievito madre, antiossidanti naturali e pectine. Il primo è il più antico metodo di lievitazione al mondo che permette di incrementare sapore, valore nutrizionale e conservabilità del pane, apportando composti probiotici e sali minerali. L'uso di pasta madre permette inoltre di ridurre o eliminare la quantità di sale aggiunta nell’impasto e ritardare il processo di raffermamento, proteggendolo dalle muffe e dal deterioramento organolettico. Inoltre, questo pane a lievitazione naturale è stato prodotto sostituendo parte della farina con un’equivalente aliquota di patate viola liofilizzate (Vitelotte) che conferisce al prodotto finale un peculiare colore viola associato a un maggior livello di composti antiossidanti. Infine le pectine, sostanze naturali contenute nella buccia della frutta (ad es. albedo degli agrumi), che essendo in grado di assorbire acqua, garantiscono migliore struttura, sofficità e serbevolezza del prodotto finale. Questi composti possono essere ricavati da altre filiere alimentari, come ad esempio quella dei succhi di frutta, contribuendo a ridurre e valorizzare gli scarti di produzione.

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«L’insieme di queste considerazioni rendono “Well-Bred” un prodotto nuovo, in grado di soddisfare le esigenze di un segmento di consumatori in continua crescita, non solo in Italia, ma anche all’estero, soprattutto in quei Paesi che sono i principali importatori dei prodotti della filiera agro-alimentare italiana, come gli Stati Uniti o la Germania – concludono le ricercatrici - Inoltre, questo tipo di prodotto, che ancora è in fase di studio, potrebbe rappresentare una risorsa economica per tutti gli operatori della filiera, in particolare per i produttori primari, perché potrebbe diventare uno strumento di valorizzazione del territorio di produzione, analogamente a quanto accade spesso nel settore vitivinicolo. Un’adeguata retribuzione dei produttori di varietà di grano tradizionali (grani antichi) costituirebbe un valido aiuto per arginare la continua perdita crescente di superficie agricola utilizzabile».

Nelle foto: le ricercatrici Isabella Taglieri (a sinistra) e Anna Valentina Luparelli e un'immagine del pane viola.

Trasformare le vecchie ‘rotonde’ stradali in moderne rotatorie più efficienti e sicure, dove il traffico scorre in modo più fluido, con tempi di ingresso inferiori, file più corte e meno incidenti. Un obiettivo però non sempre raggiungibile senza interventi complessi ed onerosi, almeno sino ad oggi. Dall’Università di Pisa arriva infatti una nuova metodologia capace di ridurre tempi e costi dei lavori rispetto agli approcci attuali. Lo studio condotto dal Antonio Pratelli e Paolo Sechi del dipartimento di Ingegneria civile e industriale in collaborazione con Reginald R. Souleyrette della University of Kentucky è stato pubblicato sulla rivista internazionale “Traffic & Transportation” e documenta due casi di reale applicazione in Toscana.

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“Abbiamo messo a punto una nuova procedura di conversione delle vecchie rotonde stradali in incroci a rotatoria moderna – spiega il professore Pratelli – la nostra proposta risulta più economica e rapida grazie all’utilizzo di un modello accoppiato dinamico-analitico, i test che abbiamo realizzato su due casi reali, uno a Sesto Fiorentino e l’altro a Lucca, confermano la superiorità della nostra soluzione rispetto ad altri approcci esistenti”.

Secondo gli ingegneri dell’Ateneo pisano ad esempio è possibile ammodernare le vecchie rotatorie senza cambiare troppo l’impianto originario assicurando comunque gran parte dei vantaggi delle rotatorie moderne. Come è accaduto nel caso di Lucca, dove la trasformazione della rotonda posta fuori Porta Santa Maria realizzata nel 2010 si è giocata su una riduzione del diametro dell’isola centrale da 78 a 55 metri. Questo ha consentito un allargamento della carreggiata, sia dell’anello centrale che nelle zone di confluenza, con la possibilità di ricavare 80 nuovi parcheggi che di fatto hanno ripagato l’intervento. Contemporaneamente anche la circolazione è migliorata e le code sono passate da più di 180 metri a 12 e i tempi di attesa da oltre un minuto a pochi secondi.

 

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Da sinistra, Antonio Pratelli, Paolo Sechi e Reginald R. Souleyrette

Le moderne rotatorie sono state introdotte nel Regno Unito negli anni ’60 e si sono diffuse negli anni ’90 rispetto alle vecchie rotonde la differenza è che la precedenza spetta ai veicoli che transitano nell’anello - sottolinea Pratesi - In Italia come negli Stati Uniti esistono oggi molte rotonde stradali, cioè di vecchia generazione, che se convertite permetterebbero di conseguire importanti miglioramenti sia sul piano della sicurezza che su quello dell’efficienza della circolazione. I risultati della nostra ricerca sono un contributo in questo senso che mettono a disposizione uno strumento nuovo tanto per l’impiego tecnico, quanto per scopi di studio”.

 

Un innovativo approccio di ricerca sviluppato all’Istituto Italiano di Tecnologia di Rovereto e dall’Università di Pisa potrà aiutare a capire come alterazioni genetiche compromettono la regolare funzione del cervello, aprendo nuove frontiere nella comprensione delle cause dei disturbi dello spettro autistico.

Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Brain, è stato condotto dal team di ricercatori guidato da Alessandro Gozzi dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Rovereto e dal professore Massimo Pasqualetti del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa in collaborazione con cinque altri gruppi di ricerca distribuiti sul territorio nazionale. La ricerca, interamente italiana, è stata finanziata dalla fondazione statunitense Simons Foundation for Autism Research Initiative, un ente che seleziona e premia le ricerche più innovative nel campo dell’autismo a livello mondiale.


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“Sebbene sia noto che l’autismo sia altamente ereditario, - spiega Alessandro Gozzi, coordinatore del team di ricerca e ricercatore all’IIT - il ruolo che i geni hanno nel determinare questa sindrome non è ancora chiaro. Questo studio rappresenta un’importante dimostrazione di come specifiche alterazioni del DNA possano compromettere le connessioni cerebrali e la regolare funzione del cervello, causando una delle forme più diffuse di autismo.”

Utilizzando la risonanza magnetica funzionale, una tecnica di neuroimmagine totalmente non invasiva che permette di ricostruire digitalmente il cervello dei pazienti in tre dimensioni, i ricercatori IIT hanno analizzato le scansioni cerebrali di 30 bambini affetti da disturbi dello spettro autistico, tutti portatori della stessa mutazione genetica conosciuta con il termine scientifico di “delezione 16p11.2”. L’analisi di questi segnali ha permesso di scoprire che la corteccia prefrontale nei bambini portatori della mutazione oggetto di studio, rimane isolata e non riesce a comunicare efficacemente con il resto del cervello, generando sintomi specifici dell’autismo, come un ridotto interesse ad instaurare relazioni sociali e problemi nella comunicazione.

Lo studio ha previsto una ricerca parallela su modelli animali in cui è stata riprodotta la mutazione 16p11.2. Sempre grazie alla risonanza magnetica, anche nelle cavie sono stati riscontrati gli stessi deficit di connettività e una riduzione del dialogo fra le medesime aree corticali come nei bambini affetti da autismo. I ricercatori dell’Università di Pisa hanno quindi studiato il cervello dei topi portatori della delezione 16p11.2 per cercare di capire se vi fossero alterazioni strutturali capaci di spiegare i deficit di connettività funzionale osservati.

“Grazie a questa analisi parallela – spiega il professore Massimo Pasqualetti – siamo riusciti ad esaminare le connessioni neuronali a livello neuroanatomico fine, cioè con un dettaglio estremo, scoprendo, attraverso lo studio sui modelli animali, quali siano le anomalie strutturali potenzialmente all’origine dei difetti di connettività cerebrale riconducibili allo specifico disturbo dello spettro autistico riscontrato nei bambini portatori della delezione 16p11.2”.

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Il professore Massimo Pasqualetti del Dipartimento di Biologia

Alla luce di questi risultati i ricercatori stanno ora studiando altri geni per capire come le mutazioni nel DNA associate all’autismo alterino le funzioni del cervello e individuare le diverse categorie che compongono lo spettro dell’autismo.

“Ci aspettiamo che questo tipo di approccio permetta di identificare in maniera oggettiva quante e quali forme di autismo esistano – conclude Alessandro Gozzi - un prerequisito fondamentale per l’identificazione di future terapie mirate”.

Oltre all’IIT e all’Università di Pisa hanno partecipato allo studio le Università di Torino e Verona, il Laboratorio europeo di biologia molecolare a Monterotondo, il Consiglio Nazionale delle Ricerche di Catanzaro e il S. Anna Institute and Research in Advanced Neuro-Rehabilitation a Crotone.

 

 

Pisa diventa “RoboTown”, la città dei robot, grazie alla seconda edizione del Festival Internazionale della Robotica, ospitato per la seconda edizione, dal 27 settembre al 3 ottobre 2018, nella città toscana che vanta una delle più alte concentrazioni al mondo di addetti e di attività per la ricerca, lo sviluppo, l’applicazione di sistemi robotici verso settori sempre più ampi, che ormai arrivano a coinvolgere (e migliorare) ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Dopo l’esordio del 2017, caratterizzato da un successo record con oltre 10 mila presenze, si conferma estesa e rilevante la rete delle istituzioni di Pisa che hanno confermato il valore e la rilevanza del Festival come elemento chiave per pianificare l’ulteriore sviluppo territoriale, per aumentarne la notorietà a livello mondiale e, soprattutto, per dimostrare come la robotica, in tutte le sue declinazioni, sia una tecnologia amichevole per l’uomo. I sistemi robotici, infatti, sono a servizio dell’uomo per aiutarlo e per agevolarlo, mai per sostituirlo, a meno che non si tratti di compiere incarichi pesanti e pericolosi. 

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Ego, il robot del Centro di Ricerca “E.Piaggio” dell’Università di Pisa in grado di intervenire e lavorare in zone inaccessibili e pericolose

 

In questi giorni si rinnova il protocollo di intesa che vede impegnarsi nell’organizzazione e nel sostegno del secondo Festival Internazionale della Robotica Regione Toscana, Comune di Pisa, Provincia di PisaUniversità di PisaScuola Normale SuperioreScuola Superiore Sant'Anna, Consiglio Nazionale delle Ricerche di PisaIstituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna, Centro di Ricerca “E.Piaggio” dell’Università di Pisa, Centro di Eccellenza Endocas dell’Università di Pisa, Irccs Fondazione Stella MarisCamera di Commercio, Azienda Ospedaliero-Universitaria PisanaFondazione Arpa. Confermata la direzione del Festival di Franco Mosca, presidente della Fondazione Arpa e professore emerito di chirurgia generale all’Università di Pisa. Alla direzione artistica è stato riconfermato Renato Raimo, che curerà la regia e condurrà l’evento clou, in programma il 3 ottobre al Teatro Verdi di Pisa, con la partecipazione di Andrea Bocelli. 

Aumentano le sedi che ospitano gli eventi dell’edizione 2018 del Festival Internazionale della Robotica, per rispondere alle esigenze di un programma dove sono più numerose le aree di interesse e che si distribuisce sul territorio, dalla Versilia a Pontedera, lungo l’Arno Valley. A Pisa, tra le sedi, si ricordano gli Arsenali Repubblicani, il convento delle Benedettine e il palazzo della Sapienza dell’Università di Pisa, la Stazione Leopolda, la Scuola Normale Superiore, la Scuola Superiore Sant’Anna, i Navicelli, l’Opera della Primaziale, la Camera di Commercio, il Centro di Ricerca Enel, l’Unione Industriale Pisana, la Domus Mazziniana, le Officine Garibaldi, il Parco Naturale Migliarino San Rossore Massaciuccoli, la Torre Guelfa della Cittadella, il Museo e il Cantiere delle Navi Antiche, il Centro di Restauro del Legno Bagnato. Con la nuova edizione si aggiungono il Teatro Puccini a Torre del Lago (Lucca) e la Fondazione Piaggio di Pontedera (Pisa).  

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La mano robotica SoftHand, che replica i meccanismi di funzionamento della mano umana. progettata dal Centro Piaggio in collaborazione con IIT

 

Il programma si sta delineando e comprende già decine di eventi di carattere scientifico, divulgativo, musicale e culturale, per rispondere alle esigenze di un pubblico ampio e variegato, proprio come ampia è la presenza della robotica – intesa nel senso più ampio del termine – nella vita quotidiana. Sono previsti eventi sul contributo della robotica in sanità, nella cooperazione umanitaria, nella nautica da diporto, anche per permettere alle persone differentemente abili di affrontare un viaggio in mare in sicurezza, nello sport, nell’industria e nel mercato del lavoro. La riflessione si soffermerà sulle implicazioni etiche, sociali, economiche legate alla sempre più massiccia diffusione della robotica, senza tralasciare aspetti che coinvolgono la “green economy”, il recupero e la conservazione dei beni culturali, la medicina, esplorando anche il ruolo di professioni come quella dell’infermiere nella gestione delle nuove tecnologie. 
 
Attenzione particolare riservata alla robotica educativa, che permette al Festival di avviare una collaborazione con Internet Festival, in programma dall’11 al 14 ottobre 2018, sempre a Pisa. All’interno dell’Internet Festival, saranno proposti laboratori di robotica educativa pensati per gli studenti delle scuole, dalle elementari alle superiori. Grazie a questa partnership, Internet Festival e Festival Internazionale della Robotica propongono laboratori che vedono protagoniste le nuove generazioni, per facilitare il coinvolgimento degli studenti, dei docenti e di tutti coloro che vorranno entrare in contatto con la robotica o approfondire la conoscenza delle tecnologie che stanno ridisegnando il futuro dell’educazione e della didattica. A proposito di collaborazioni, da segnare quella con BRIGHT 2018, la Notte dei Ricercatori, che in particolare nella città di Pisa prevede eventi diffusi di divulgazione scientifica, con particolare attenzione per la robotica.

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Squadre di veicoli sottomarini autonomi per azioni di montoraggio e intervento in mare, progettati dal team di ricerca in robotica subacquea del Centro Piaggio

 

Anche la seconda edizione del Festival presenta un cartellone culturale con concerti, spettacoli e un occhio particolare per il cinema, proponendo il nuovo concorso cinematografico “Pisa Robot Film Festival”, rassegna per scoprire quanto sia saldo il legame tra il mondo della celluloide e quello della robotica. 

In un programma in continuo aggiornamento, con decine di appuntamenti, ecco alcune date da non dimenticare: 27 settembre inaugurazione al Teatro Verdi; 28 settembreBRIGHT 2018, la Notte dei Ricercatori; 29 settembre (pomeriggio) concerto “LOLA”, nell’aula magna della Sapienza, Università di Pisa (pomeriggio), “ROBOTopera” al Teatro Puccini di Torre del Lago (sera); 30 settembre concerto con la chitarra appartenuta a Giuseppe Mazzini, presso la Domus Mazziniana; 1 ottobre concerto di strumenti antichi presso la Domus Mazziniana (pomeriggio) “Totentanz” di Franz Liszt al Camposanto Monumentale del Duomo di Pisa (sera); 2 ottobre opera “Don Cristobal” alla Gipsoteca di arte antica dell’Università di Pisa; 3 ottobre concerto con Andrea Bocelli e Maria Luigia Borsi al Teatro Verdi di Pisa.  
 
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L’assistenza al parto, come evento sociale tutto al femminile, non è una caratteristica esclusiva degli umani come sinora ritenuto, ma un comportamento che condividiamo con i bonobo, una specie “cugina” molto vicina a noi dal punto di vista evolutivo. La scoperta arriva da una ricerca pubblicata sulla rivista americana “Evolution and Human Behavior” e condotta da Elisabetta Palagi dell’Università di Pisa, Elisa Demuru dell’Università di Parma e Pier Francesco Ferrari del CNRS francese.

Le studio etologico è stato realizzato presso il Parco Primati Apenheul nei Paesi Bassi e La Vallée des Singes in Francia dove i ricercatori sono riusciti a filmare tre nascite nel bonobo fin dalle prime fasi del travaglio, un’opportunità eccezionale che ha permesso di documentare non solo il comportamento della mamma, ma anche quello dell’intero gruppo sociale. Mai prima d’ora i comportamenti legati al parto in una grande scimmia erano stati descritti e analizzati in modo così dettagliato.

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La femmina Lucy e la sua piccolina di due giorni (Foto di Elisa Demuru)



“Durante il parto di una loro compagna, le femmine di bonobo le si stringono intorno e mettono in atto comportamenti per proteggerla e supportarla in un momento di massima vulnerabilità, fino ad arrivare ad aiutare la partoriente a sorreggere il piccolo durante la fase espulsiva – spiega Elisabetta Palagi – Inoltre, gli scambi di espressioni facciali, vocalizzazioni e gesti raccontano una storia di intensa partecipazione emotiva che i ricercatori non hanno mai registrato in altre situazioni”.

L’assistenza al parto è sempre stata considerata una peculiarità che ci distingue dagli altri animali e la principale ragione è che per le donne il parto è reso estremamente difficoltoso dall’evoluzione che ci ha reso bipedi e “cervelloni”, abbiamo cioè un cranio molto voluminoso che però deve passare da un canale reso angusto per soddisfare le esigenze dettate dalla postura eretta. Queste condizioni però non valgono per le grandi scimmie, bonobo compreso, dove tuttavia il travaglio è comunque un evento sociale ed emotivo. Secondo i ricercatori, le somiglianze nelle dinamiche sociali attorno alla partoriente osservate nel bonobo e nell’uomo sono legate agli alti livelli di coesione femminile che caratterizzano queste due specie “cugine”. I bonobo, infatti sono considerati dagli etologi una specie estremamente tollerante e “femminista” dove il ruolo di comando spetta alle femmine che cooperano e formano forti alleanze e amicizie che vanno al di là dei semplici legami di parentela.

 

Da sinistra, Elisabetta Palagi, Elisa Demuru e Pier Francesco Ferrari


“La nostra ricerca dimostra quindi come l’assistenza al parto nei bonobo sia presente anche se l’evento non risulta particolarmente complicato – conclude Palagi – il che potrebbe suggerire addirittura il ribaltamento di un paradigma evolutivo che ci riguarda direttamente. In altre parole, potrebbe non essere stata la difficoltà dell’evento in sé a determinare l’assistenza al parto ma, al contrario, la socialità nel momento al parto potrebbe aver favorito l’evoluzione di quelle caratteristiche morfo-anatomiche, dalla misura del cranio all’andatura bipede, che hanno reso la nostra specie così peculiare”.

 

 

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