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Studiare gli effetti della gravità alterata sui processi biologici, come accade ad esempio agli astronauti quando stanno a lungo nello spazio, e capire come porvi rimedio contrastando l’aumento di produzione di radicali liberi responsabili dell’invecchiamento cellulare. L’Università di Pisa è partner del progetto “PlanOx2” dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA), insieme ad un consorzio internazionale di ricerca che comprende l’unità di ricerca di Gianni Ciofani dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), il CNR di Marsiglia e l’Università di Amsterdam.

“Il progetto contribuirà alla comprensione dei meccanismi alla base dello stress ossidativo ed alla possibile prevenzione del danno a cui sono sottoposti gli astronauti durante i viaggi spaziali – spiega Alessandra Salvetti del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’ateneo pisano – ma più in generale lo studio potrebbe avere importanti ricadute in ambito biomedico, poiché si tratta degli stessi meccanismi che contribuiscono all’insorgenza di molte patologie degenerative come la distrofia muscolare”.

 

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Nella foto, da sinistra: Andrea Degl'Innocenti, Alessandra Salvetti, Leonardo Rossi e sullo sfondo l’LDC, la “centrifuga” utilizzata per generareipergravità presso ilCentro Europeo di Ricerca Spaziale e Tecnologica dell’ESA, nei Paesi Bassi.


E proprio in queste settimane Alessandra Salvetti, insieme al collega dell’Università di Pisa Leonardo Rossi e ad Andrea Degl’Innocenti (IIT), si trova al Centro Europeo di Ricerca Spaziale e Tecnologica dell’ESA, a Noordwijk nei Paesi Bassi, per condurre una serie di test in condizioni di microgravità e di ipergravità. Gli esperimenti sono condotti su planarie, vermi di pochi millimetri con un corpo piatto che rappresentano un organismo modello molto studiato dagli scienziati per le loro considerevoli capacità rigenerative.

“In particolare – conclude Alessandra Salvetti – la nostra equipe sta cercando di capire come contrastare l’invecchiamento cellulare utilizzando uno smart material, le nanoparticelle di ceria, cioè ceramiche biocompatibili dall'eccezionale capacità antiossidante ed autorigenerante, in grado di contrastare l'insorgenza di radicali liberi”.

 

 

Poco più grande di 10 km2 e praticamente piatta, con un’altezza massima sul livello del mare di appena 29 metri. Sono queste le misure di Pianosa, una delle isole più caratteristiche dell’Arcipelago Toscano che inaspettatamente, nel sottosuolo, ospita un’importante riserva idrica oggi purtroppo a rischio. Proprio per tenere sotto controllo questa risorsa, in accordo con il Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, un team di geologi guidati da Roberto Giannecchini del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e da Marco Doveri dell’Istituto di Geoscienze e Georisorse del CNR dal 2014 ha avviato una rete di monitoraggio in continuo e svolge regolarmente tre o quattro campagne di campionamento e misurazioni annuali sull’isola.

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Ricercatori a lavoro su un pozzo


Nota sin dall’epoca romana, la falda acquifera di Pianosa ha da sempre dissetato gli abitanti dell’isola, anche più di 1.500 alla fine degli anni ‘80 del Novecento quando il penitenziario, oggi piccola sede distaccata di Porto Azzurro, raggiunse il suo massimo sviluppo. Ma il sovrasfruttamento e la pressione antropica hanno messo a rischio questa risorsa sia in termini di volume, sia per l’ingresso di acqua di mare e di contaminanti nella falda, in particolare nitrati, legati alle attività agro-zootecniche associate al penitenziario.

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Isola di Pianosa



“Pianosa oggi si regge praticamente su un unico pozzo vetusto, il solo superstite della trentina un tempo esistenti - spiega Roberto Giannecchini dell’Ateneo pisano - il nostro obiettivo è quindi quello di studiare il funzionamento di questo particolarissimo sistema acquifero, i suoi meccanismi di ricarica e la sua vulnerabilità rispetto allo sfruttamento e alla contaminazione del mare, grande nemica delle falde sotterranee, specialmente nelle aree insulari”.

Intanto, uno dei primi risultati è stato capire l’origine dell’acqua a Pianosa. Infatti, se da tempo molti ipotizzavano origini lontane (isola d’Elba o addirittura Corsica), i dati scientifici attualmente a disposizione suggeriscono che la risorsa idrica pianosina sia alimentata essenzialmente dalla poca acqua piovana che cade sull’isola e che trova un terreno permeabile per infiltrarsi e immagazzinarsi. Per il 2018 sono previste almeno 4 campagne, ciascuna di durata di circa una settimana.

 

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Alcuni componenti del gruppo di ricerca, da sinistra: Marco Doveri (IGG-CNR PI), Chantal Maglia (laureanda DST-UNIPI), Enrico Calvi (IGG-CNR PI), Sandra Trifirò (IGG-CNR PI), Roberto Giannecchini (DST-UNIPI), Luciano Giannini (IGG-CNR FI). La foto è di Matia Menichini (IGG-CNR PI)


“Dal punto di vista logistico, le campagne di studio a Pianosa sono sempre piuttosto avventurose, non ci sono infatti strutture ricettive specifiche per i ricercatori e anche il servizio marittimo è saltuario – racconta Giannecchini – ma nonostante le difficoltà, Pianosa rappresenta un luogo unico, pieno di fascino, un habitat pressoché incontaminato che fa dell’isola un laboratorio scientifico strategico nel contesto più ampio del Mediterraneo”.

“Per il sostegno alle nostre ricerche – conclude Giannecchini – è infine doveroso menzionare la direttrice Parco Naturale dell’Arcipelago Toscano Franca Zanichelli e il consigliere Alessandro Damiani, geologo elbano, e non ultimi i detenuti e l’Amministrazione della Casa di Reclusione di Porto Azzurro per l’indispensabile supporto logistico”.

 

A Castelnuovo Berardenga, nelle colline senesi, un’equipe di geologi e paleontologi ha rinvenuto un fossile dello squalo Lamna nasus, meglio noto come smeriglio o vitello di mare, il primo mai trovato sul territorio italiano e nell'intera regione mediterranea.

La scoperta dei ricercatori del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e del Gruppo AVIS Mineralogia Paleontologia Scandicci (GAMPS) è stata pubblicata sulla rivista scientifica internazionale Neues Jahrbuch für Geologie und Paläontologie e fornisce nuove indizi sull’evoluzione climatica del Mediterraneo.

“Lo smeriglio, un predatore veloce e vorace strettamente imparentato con il più famoso squalo bianco, è oggi molto raro nelle acque del Mar Mediterraneo, e come fossile è principalmente noto da pochi reperti rinvenuti in Belgio e nei Paesi Bassi”, spiega Alberto Collareta dell’Ateneo pisano.

 

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Il denti di Lamna nasus dal Pliocene di Castelnuovo Berardenga conservato presso l'esibizione permanente del “Gruppo AVIS Mineralogia e Paleontologia Scandicci) (Badia a Settimo, Scandicci, FI).



Secondo gli autori dello studio, il fossile di Lamna ritrovato nel senese e risalente al tardo Pliocene (da circa 5,3 a circa 2,6 milioni di anni fa) potrebbe testimoniare una delle prime fasi di raffreddamento del Mediterraneo, che solo poche centinaia di migliaia di anni prima era popolato da molte specie tropicali simili a quelle che oggi abitano le acque Indo-Pacifiche. Il rafforzamento della glaciazione artica avvenuto circa 3 milioni di anni fa avrebbe infatti mutato sensibilmente le acque toscane inducendo sia la scomparsa di specie tropicali sia l’arrivo di altre tipiche di ambienti temperati e freddi, come lo smeriglio, attraverso lo stretto di Gibilterra.

 

Il reperto di Lamna nasus dal Pliocene di Castelnuovo Berardenga conservato presso l'esibizione permanente del “Gruppo AVIS Mineralogia e Paleontologia Scandicci) (Badia a Settimo, Scandicci, FI).


“Durante il Pliocene, buona parte del territorio toscano era sommerso da un mare popolato da una grande varietà di organismi – dicono Simone Casati e Andrea Di Cencio del GAMPS – le centinaia di denti fossili di squali “esotici” rinvenuti negli anni a Castelnuovo Berardenga indicano che l’attuale campagna senese era un ambiente di mare profondo, il cui fondale era caratterizzato da acque fredde, come quelle degli strati più profondi dei moderni oceani”.

Da allora, i profondi mutamenti geologici e climatici intercorsi hanno rimodellato il territorio, rendendolo una “miniera a cielo aperto” ricca di indizi che, se debitamente interpretati, possono svelare le origini dell'ambiente attuale.

“Il riscaldamento globale a cui assistiamo oggi e, più in generale, una pressione antropica solo in parte sostenibile stanno contribuendo a invertire nuovamente la rotta - conclude Alberto Collareta - Pesci tropicali provenienti dall'Oceano Indiano sono sempre più frequentemente pescati nel Mar Mediterraneo, mentre molte popolazioni caratteristiche di questo bacino sono in forte sofferenza. Sono tante dunque le prospettive di ricerca ancora aperte, con le colline toscani che si riconfermano un eccezionale scrigno naturalistico per chi cerca di redigere la storia biologica del bacino mediterraneo”.

 

Un tumore osseo di mille anni fa, il più antico nel suo genere mai rinvenuto, è stato scoperto dall’équipe della divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa coordinata dalla professoressa Valentina Giuffra. Si tratta di un osteoblastoma che ricercatori hanno diagnosticato nel seno frontale del cranio in uno scheletro datato al X-XII secolo e portato alla luce durante gli scavi archeologici condotti nel 2004 presso il grande cimitero medievale della pieve di Pava (Siena).

 

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Sezione istologica dell’osteoblastoma (Blu di Toluidina, 100x)

 

La scoperta, appena pubblicata sulla rivista scientifica internazionale “The Lancet Oncology”, getta nuova luce sull’antichità dei tumori ossei e pone le basi per nuove ricerche nel campo della paleoncologia.
L’individuo, un giovane maschio di 25-35 anni, presentava in corrispondenza dell’osso frontale una rottura post mortale che ha permesso di osservare la presenza di una piccola neoformazione ovalare all’interno del seno frontale destro del cranio. Grazie all’ausilio di moderne tecniche radiologiche ed istologiche, gli studiosi sono riusciti a chiarire che la natura patologica della lesione era proprio un osteoblastoma.

 

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Particolate della lesione ovalare nel seno frontale destro


“L’osteoblastoma è un raro tumore benigno dell'osso che rappresenta attualmente circa il 3,5% di tutti i tumori primitivi benigni dell'osso e l'1% di tutte le neoplasie ossee - afferma il professore Gino Fornaciari dell’Università di Pisa e coautore della pubblicazione – di solito colpisce prevalentemente i giovani adulti, prediligendo la colonna vertebrale e le ossa lunghe, la localizzazione nel cranio e nei seni paranasali è invece estremamente inconsueta e pochissimi sono i casi noti nella letteratura clinica moderna”.

“E’ stato estremamente sorprendente essere riusciti a trovare testimonianza di questa condizione addirittura nei resti scheletri umani. Ad oggi infatti, il caso medievale di Pava risulta essere la prima attestazione paleopatologica di osteoblastoma del seno frontale, confermando l'esistenza di questo raro tumore osseo benigno a quasi 1000 anni fa” conclude la dottoressa Giulia Riccomi, dottoranda dell’Ateneo pisano e primo autore della pubblicazione.

 

FioriUn foglio di carta e una semplice stampante a getto d’inchiostro: è tutto quello che, in uno scenario futuribile, potrebbe servire per fabbricare dispositivi di elettronica di consumo – come un telefonino o una radio – con il vantaggio di poter avere sistemi “personalizzati”, a basso impatto ambientale, facilmente smaltibili e riciclabili. Parlando con il professor Gianluca Fiori, docente di Elettronica al dipartimento di Ingegneria dell’informazione dell’Università di Pisa, tutto questo appare vicino e realizzabile, in particolare grazie a un progetto di ricerca finanziato dall’Europa con un ERC Consolidator Grant, che nei prossimi 5 anni sarà portato avanti dal suo gruppo.

Lo studio, condotto in collaborazione con l’Università di Manchester, riguarda le applicazioni di materiali bidimensionali, come il grafene, nel campo dell’elettronica per la costruzione di circuiti elettronici contenuti per esempio nei nostri computer e smartphone, e che in futuro potranno essere stampati su supporti flessibili come la carta.

“Grazie alla collaborazione con l’Università di Manchester, insignita del premio Nobel 2010 per le ricerche sul grafene – spiega Fiori – possediamo degli inchiostri ricavati da questo materiale del tutto simili agli inchiostri delle nostre stampanti, ma con proprietà elettroniche eccellenti. Questa tecnologia può aprire la porta a innumerevoli applicazioni, che vanno da etichette intelligenti per l’industria 4.0 a dispositivi biomedicali per l’analisi dei segnali biometrici, a metodi smart anti contraffazione, giusto per citarne alcune”.

Il professor Fiori e il suo gruppo di ricerca stanno dunque lavorando per rendere reale quello che ora, nell’immaginario collettivo, sembra un film di fantascienza: “La nostra è una ricerca di base, ma in quanto scienziati siamo chiamati a “sognare” e ipotizzare scenari futuri in cui i nostri studi trovino un’applicazione concreta nella realtà: i finanziamenti che vengono dall’Europa ci aiutano proprio in questo”.

Intanto il 6 aprile un po’ di Bruxelles si trasferirà a Pisa per una giornata dedicata all’FP9, il Programma Quadro europeo per la Ricerca e l’Innovazione che dal 2021 subentrerà a Horizon 2020. Rappresentanti del mondo della politica, della ricerca e delle imprese saranno chiamati a confrontarsi sul ruolo della ricerca di base per lo sviluppo delle società e delle economie dei Paesi europei. L’incontro, voluto e organizzato dall’Università di Pisa, sarà anche l’occasione per mostrare le eccellenze del sistema toscano della ricerca che, come nel caso di Gianluca Fiori.

Ne hanno parlato: 
Focus
Repubblica Firenze
Askanews 
InToscana.it
Nazione Pisa 
Greenreport
Qui News Pisa

Come si è originata la vita e come si trasmette da cellula madre a cellula figlia? Un nuovo tassello per la comprensione di questi meccanismi arriva da uno studio delle Università di Pisa, Bari e Salento che si è guadagnato la copertina della rivista scientifica “Integrative Biology” della American Chemical Society. Il gruppo di ricerca, coordinato dal professore Roberto Marangoni dell’Ateneo pisano e composto da Alessio Fanti, Leandro Gammuto, Fabio Mavelli e Pasquale Stano, ha simulato in laboratorio i processi di riproduzione grazie a delle “protocellule” che si usano per studiare alcune proprietà delle cellule biologiche vere.

“Tra i tanti problemi che concernono la comprensione di come si sia sviluppata la vita sulla terra, c’è anche il rapporto tra membrane cellulari e contenuto della cellula – racconta Roberto Marangoni - infatti, per assicurare un ambiente chimicamente stabile e governabile, le cellule hanno bisogno di una divisione tra il contenuto interno, l’insieme delle molecole necessarie alla vita, e l’ambiente esterno, e tale divisione è data dalla membrana cellulare”.

 

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Uno dei punti fondamentali su cui si è interrogata la scienza è quindi se sia nato prima il contenuto cellulare o la membrana, in altre parole, una sorta di problema “dell’uovo e della gallina” su scala microscopica. Una possibile soluzione a questo apparente paradosso è venuta circa dieci anni fa, quando gli scienziati hanno osservato il cosiddetto “supercrowding effect”. Si tratta infatti di un fenomeno in base al quale nel processo di formazione delle protocellule di piccolissime dimensioni, la stragrande maggioranza risulta completamente vuota al proprio interno, ma allo stesso tempo se ne trovano alcune (assai rare, ma esistono) che, al contrario, risultano completamente piene, avendo incorporato moltissime molecole. L’esistenza di queste rare protocellule “piene” mette le basi per sciogliere il paradosso della formazione della membrana e del contenuto cellulare: nessuno si forma prima dell’altro perché il meccanismo è simultaneo e si formano insieme, seguendo un processo di organizzazione spontanea.

“A partire da questa scoperta, nel nostro studio ci siamo occupati del passo successivo – spiega Marangoni - cioè abbiamo cercato di capire come queste protocellule ricche di contenuti si comportano durante la riproduzione, un processo che comporta la rottura e la ricostituzione delle membrane e che potrebbe quindi causare la perdita di materiale interno pregiudicando la funzionalità delle protocellule ‘figlie’. La nostra ricerca indica che questo non accade e che la perdita di materiale fra protocellula ‘ricche’ è molto basso”.

“Questo meccanismo insieme al “supercrowding effect” – conclude Maragnoni - rafforza l’idea di una organizzazione spontanea dei primi e rudimentali proto-organismi della storia della vita, il cui punto di forza è l’interazione, certamente complessa e ancora non completamente compresa, tra le membrane e le macromolecole”.



Dimmi come giochi e ti dirò chi sei e, soprattutto, come stai con gli altri. Il gioco è infatti una cartina di tornasole fondamentale per comprendere la qualità delle relazioni che legano gli individui fra loro. A svelare i risvolti sociali dei comportamenti ludici arriva una nuova ricerca di un team di etologi delle Università di Pisa e Torino appena pubblicata sulla rivista PlosOne.

Giada Cordoni, Ivan Norscia, Maria Bobbio ed Elisabetta Palagi hanno studiato come giocano scimpanzé e gorilla, due specie che condividono con noi il 98-99% del DNA e che rappresentano un ottimo modello per capire qualcosa di più anche sull’evoluzione del nostro comportamento. La fase sperimentale del lavoro si è svolta in Francia, nello ZooParc de Beauval a St. Aignan sur Cher, dove i ricercatori per tre mesi hanno osservato le colonie di 15 scimpanzé e 11 gorilla e stilando dei report giornalieri.

 

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Da sinistra Giada Cordoni, Ivan Norscia, ed Elisabetta Palagi


“Abbiamo messo in relazione il gioco con la propensione a costruire rapporti attraverso comportamenti di affiliazione e supporto – racconta Elisabetta Palagi del Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa - quello che è emerso è che gorilla e scimpanzé sono profondamente diversi per l’organizzazione sociale e il modo di creare amicizie e alleanze”.

Da un lato c’è quindi la società degli scimpanzé, unita e coesa, dove i soggetti hanno molti contatti affiliativi come ad esempio la pulizia reciproca (il cosiddetto “grooming”). Questo si rispecchia in sessioni di gioco allargate che coinvolgono molti membri del gruppo, giovani e adulti, e sebbene ci possano essere momenti concitati il gioco raramente sfocia in situazioni di vero scontro. La società dei gorilla invece è organizzata ad harem: le femmine stanno semplicemente vicine al maschio, ma senza mostrare particolari interazioni sociali. In questo caso a giocare sono soltanto i giovani gorilla mentre gli adulti non lo fanno praticamente mai. Nonostante poi le sessioni ludiche nei gorilla siano molto caute ed equilibrate, è molto più probabile che il gioco di lotta si trasformi in un vero e proprio conflitto aperto.


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 Una sequenza di gioco fra gorilla


“Il gioco è un comportamento attraverso cui si costruiscono legami sociali che possono durare nel tempo non saper giocare di fatto ostacola la formazione di relazioni positive e la capacità di mantenerle – conclude Elisabetta Palagi – Nell’uomo, unendo l’approccio etologico-naturalistico a quello psicologico, sarebbe interessante capire se chi è più competente nel gioco da bambino o ha semplicemente avuto più opportunità di giocare è anche un adulto socialmente più competente ed integrato”.




 

Dopo un lavoro durato quasi dieci anni è stato appena pubblicato sulla rivista internazionale “Plant Biosystems” l’elenco aggiornato delle piante aliene (o esotiche) che si sono diffuse spontaneamente in Italia. Si è trattato di una ricerca corale realizzata grazie alla collaborazione di 51 ricercatori italiani e stranieri e coordinata da un gruppo di studiosi fra cui Lorenzo Peruzzi, professore di Botanica sistematica dell’Università di Pisa.

A fare da contraltare alle 8195 specie e sottospecie autoctone, vi sono 1597 specie aliene. Anche relativamente a questa biodiversità 'negativa', l'Italia si colloca purtroppo tra le nazioni con i maggiori numeri in Europa. Tra queste specie aliene, 221 risultano invasive su scala nazionale, con 14 specie incluse nella 'lista nera' della Commissione Europea (regolamento EU 1143/2014 e suoi aggiornamenti periodici), che elenca una serie di piante e animali esotici, la cui diffusione in Europa va assolutamente tenuta sotto controllo.

 

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Da sinistra, Fabrizio Bartolucci, Gabriele Galasso e Lorenzo Peruzzi, tre dei coordinatori dello studio.


Fra i problemi causati dalle specie aliene, in particolare se invasive, vi sono quelli legati alla salute come nel caso delle allergie e delle irritazioni cutanee anche piuttosto gravi causate dall’ambrosia o dalla panàce di Mantegazza; oppure danni all’agricoltura e ancora la minaccia alla biodiversità come nel caso del fico degli Ottentotti sulle nostre coste rocciose e le pesti d’acqua in canali e laghi.

La diffusione di specie aliene è un fenomeno legato al processo di globalizzazione che va attentamente monitorato – spiega Lorenzo Peruzzi – le regioni che presentano il maggior numero di esotiche (e potenzialmente i maggiori problemi legati a fenomeni di invasione biologica) sono: Lombardia (776, di cui 111 invasive), Veneto (618, di cui 67 invasive) e Toscana (580, di cui 51 invasive)”.

Insieme a Lorenzo Peruzzi, il coordinamento nazionale della ricerca è stato svolto da Gabriele Galasso ed Enrico Banfi (Museo di Storia Naturale di Milano), Fabrizio Bartolucci e Fabio Conti (Centro Ricerche Floristiche dell’Appennino, Università di Camerino - Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga), Nicola Ardenghi (Università di Pavia) e Laura Celesti-Grapow (Università La Sapienza di Roma). Il professore Peruzzi, in collaborazione con Brunello Pierini e Francesco Roma-Marzio, ha inoltre curato la parte dello studio relativo alla flora toscana.

 

 

Andrea Milani and Daniele Serra, two mathematicians from the University of Pisa have published the study in the journal “Nature” which has, for the first time, measured the asymmetrical component in the north-south gravitational field of Jupiter. This is one of the fundamental elements for the modeling of the internal structure of the planet.

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Jupiter (Image credit: NASA/JPL-Caltech/SwRI/ASI/INAF/JIRAM)


The research is part of Juno, a NASA mission whose goal is to explore Jupiter. A spacecraft with nine instruments needed to carry out the experiments, is orbiting around the giant planet to determine its internal structure and composition, study the atmosphere, and map the magnetosphere. In particular, the research group from the University of Pisa, in collaboration with La Sapienza University of Rome, the University of Bologna-Forlì and the NASA Jet Propulsion Laboratory, has worked on determining the gravitational field through the analyses of Doppler data sent from the probe.

“Thanks to funding from the Italian Space Agency we have developed software which implements high-precision, refined mathematical models,” explains Daniele Serra. “Consequently, we are now able to determine the symmetrical part of Jupiter’s gravitational field a thousand times more accurately than in the past, and for the first time also the asymmetrical part, i.e. the part determined by a diverse distribution of the mass with respect to the equator. We have discovered that Jupiter’s northern hemisphere has a different mass distribution than the southern hemisphere; in other words Jupiter is pear shaped.

“Given that Jupiter has played a fundamental role in the evolution of the Solar System,” concludes Andrea Milani, ”a complete and in-depth knowledge of the planet and how it was formed can provide clues as to the formation of the planet Earth and further our understanding of the origin of life on Earth.”

 

C’è la firma di due matematici dell’Università di Pisa, Andrea Milani e Daniele Serra, nello studio pubblicato sulla rivista «Nature» che ha misurato per la prima volta la componente asimmetrica in direzione nord-sud campo gravitazionale di Giove, uno degli elementi fondamentali per modellizzare la struttura interna del pianeta.

La ricerca fa parte di Juno, una missione della NASA che ha come obiettivo l’esplorazione di Giove. Una sonda spaziale, con nove strumenti usati per eseguire gli esperimenti, orbita attorno al pianeta gigante allo scopo di determinarne la struttura e la composizione interna, di studiarne l’atmosfera e di mapparne la magnetosfera.

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Un'immagine di Giove (Image credit: NASA/JPL-Caltech/SwRI/ASI/INAF/JIRAM)


In particolare, il gruppo di ricerca dell’Ateneo pisano, in collaborazione con le università La Sapienza di Roma, di Bologna-Forlì e il Jet Propulsion Laboratory della NASA, ha lavorato alla determinazione del campo di gravità attraverso l’analisi di dati Doppler inviati dalla sonda.

“Grazie a finanziamenti dell’Agenzia Spaziale Italiana abbiamo sviluppato un software che implementa raffinati modelli matematici ad altissima precisione – spiega Daniele Serra – come conseguenza ora possiamo determinare con una accuratezza almeno mille volte migliore del passato la parte simmetrica del campo di gravità di Giove e per la prima volta anche la parte asimmetrica, cioè quella dovuta a una diversa distribuzione della massa rispetto all'equatore. Abbiamo scoperto che l’emisfero nord di Giove ha una distribuzione di massa diversa rispetto all’emisfero sud; per dirla in parole semplici: Giove ha la forma di una pera”.

“Poiché Giove ha avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione del Sistema Solare – conclude Andrea Milani - avere una conoscenza completa e approfondita del pianeta e di come si è formato può fornire indizi sulla formazione del pianeta Terra e permetterebbe di fare un passo in avanti nella comprensione dell’origine della vita sulla Terra”.


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