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Per la prima volta un team di ricercatori ha rivelato il meccanismo che permette alla quinoa di resistere all’esposizione ai raggi ultravioletti estremi consentendo a questa pianta di sopravvivere molto più a lungo rispetto ad altre specie erbacee.

Lo studio è stato finanziato dalla Schlumberger Foundation a Thais Huarancca Reyes, assegnista dell'Università di Pisa, nell’ambito del programma “Faculty for the Future”. A coordinare il gruppo è stato Lorenzo Guglielminetti del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa che ha lavorato insieme alle colleghe Antonella Castagna e Annamaria Ranieri e in collaborazione con Andrea Scartazza del CNR ed Eric Cosio Caravasi della Pontificia Università Cattolica del Perù. I risultati della ricerca sono stati appena pubblicati in un articolo su “Scientific Reports, una delle riviste del gruppo Nature.

 

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Pianta di quinoa (Chenopodium quinoa Willd)


“Negli ultimi anni gli studi incentrati sulla percezione e sulla risposta ai raggi ultravioletti sono decisamente aumentati, un interesse legato anche alla riduzione dello strato di ozono nell’atmosfera degli ultimi decenni – ha spiegato il professore Lorenzo Guglielminetti - ma ricerche approfondite sulla risposta di una pianta adattata a esposizioni ultraviolette estreme, come la quinoa, non erano ad oggi ancora disponibili”.

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Lorenzo Guglielminetti e Thais Huarancca Reyes

 

In particolare, i ricercatori hanno indagato le reazioni di difesa che la quinoa, una pianta sempre più utilizzata per le preziose qualità nutrizionali e nutraceutiche dei suoi semi, mette in atto per rispondere a dosi elevate di raggi ultravioletti di tipo B. Lo studio ha quindi messo in luce gli adattamenti metabolici e fisiologici grazie ai quali la quinoa riesce a rallentare i processi degenerativi (diretti ed indiretti) tipici dello stress da raggi ultravioletti e che garantiscono a questa pianta una sopravvivenza più lunga rispetto ad altre analoghe specie erbacee.

“La comprensione di queste caratteristiche – ha concluso Lorenzo Guglielminetti - non riveste solamente un interesse scientifico, ma apre anche scenari applicativi per il miglioramento genetico di altre colture agrarie in risposta allo stress da raggi ultravioletti”.

 

Un team internazionale ha identificato per la prima volta tutti i geni trascritti nella pianta di girasole “potenziata” grazie alla simbiosi con un fungo benefico che ne favorisce la crescita e lo sviluppo. La ricerca è stata condotta dai genetisti e microbiologi dell’Università di Pisa, coordinati rispettivamente dal professore Andrea Cavallini e dalla professoressa Manuela Giovannetti, e dai bioinformatici del Centro di ricerca inglese Rothamsted Research. Lo studio è stato appena pubblicato sulla rivista Scientific Reports del gruppo editoriale "Nature".

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Il gruppo di ricerca: da sinistra, in basso: David Hughes, Rodolfo Bernardi, Alberto Vangelisti, Alessandra Turrini, Cristiana Sbrana, Andrea Cavallini; da sinistra, in alto: Manuela Giovannetti, Lucia Natali, Tommaso Giordani

“Il girasole è una delle quattro più importanti piante produttrici di olio, il prezioso olio di girasole, ricavato dai suoi semi e ricco di acidi grassi insaturi e vitamina E, che è sempre più utilizzato nell’industria alimentare - spiega Andrea Cavallini - Noi con questo studio abbiamo dimostrato che l’espressione di alcuni geni, fondamentali per la crescita e l’assorbimento dei nutrienti nel girasole, aumenta a seguito dell’instaurarsi della simbiosi con un fungo benefico”.

La collaborazione tra i genetisti, microbiologi e bioinformatici ha dunque portato alla identificazione del “trascrittoma”, cioè di tutti i geni espressi nella radice del girasole micorrizato, ovvero quando la pianta si trova a vivere in simbiosi con il fungo Rhizoglomus irregulare.


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“La disponibilità del trascrittoma del girasole così potenziato potrà portare in futuro alla selezione di piante più resistenti agli stress ambientali e all’attacco dei patogeni da impiegare in sistemi produttivi più sostenibili e resilienti - conclude Manuela Giovannetti – oltre che promuovere ulteriori studi sui meccanismi molecolari che sono alla base degli incrementi di crescita e di assorbimento dei nutrienti da parte del girasole per prodotti destinati all’alimentazione umana con elevate proprietà nutritive”.

 

Più di sei mesi, è questo il tempo che serve al mare per “smaltire” le cosiddette buste ecologiche di nuova generazione. Senza dimenticare poi che la plastica biodegradabile di cui sono fatte può comunque alterare lo sviluppo delle piante e modificare alcune importanti variabili del sedimento marino come ad esempio ossigeno, temperatura e pH. Sono queste alcune delle conclusioni di uno studio condotto da un team di biologi dell’Università di Pisa e pubblicato sulla rivista scientifica “Science of the Total Environment”. Il gruppo composto da Elena Balestri, Virginia Menicagli, Flavia Vallerini, Claudio Lardicci ha ricreato un ecosistema in miniatura per analizzare i potenziali effetti diretti o indiretti dell’immissione nell’ambiente marino delle nuove buste in bioplastica, la cui diffusione si prevede possa aumentare nei prossimi anni fino a raggiungere livelli simili a quelli delle buste tradizionali.


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Il gruppo di ricerca, da destra Flavia Vallerini, Virginia Menicagli, Claudio Lardicci, Elena Balestri


“La nostra ricerca si inserisce nel dibattito sul “marine plastic debris”, cioè sui detriti di plastica in mare, un tema globale purtroppo molto attuale – spiega il professore Lardicci dell’Ateneo pisano – quello che abbiamo potuto verificare è che anche le buste biodegradabili di nuova generazione attualmente in commercio hanno comunque tempi di degradazione lunghi, superiori ai sei mesi”.


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Andamento della degradazione


Come specie modello i ricercatori hanno selezionato due piante acquatiche tipiche del Mediterraneo, la Cymodocea nodosa e la Zostera noltei, valutando quindi la loro risposta a livello di singola specie e di comunità rispetto alla presenza nel sedimento di della bioplatica compostabile. Lo studio ha quindi esaminato il tasso degradazione delle buste e alcune variabili chimico/fisiche del sedimento che influenzano lo sviluppo delle piante.

“Ad oggi la nostra ricerca è l’unica ad aver valutato i possibili effetti della presenza di bioplastiche sui fondali marini e sulla crescita di organismi vegetali superiori – conclude Lardicci – i rischi di una possibile massiccia immissione di plastiche cosiddette “biodegradabili” nei sedimenti marini e gli effetti diretti e indiretti del processo di degradazione sull’intero habitat sono aspetti in gran parte ignorati dall’opinione pubblica e non ancora adeguatamente indagati dalla letteratura scientifica”.

 

Per otto anni, dal 2008 al 2016, un’equipe di etologi dell’Università di Pisa ha monitorato gli spostamenti nel Mediterraneo di otto tartarughe comuni (Caretta caretta) per capire preferenze e abitudini di questa specie. E così ha scoperto che Crudelia, Obelix, Olivia e Honolulu (questi i nomi di alcuni esemplari) amano nuotare soprattutto nel golfo di Napoli, ma spaziano anche nell'area compresa tra la Campania, la Calabria e la Sicilia e se possono soggiornano volentieri nelle immediate vicinanze delle “seamounts”, cioè le montagne sottomarine la cui sommità può arrivare a poche centinaia o decine di metri dalla superficie.

La ricerca, finanziata dall’Università di Pisa con i fondi PRA, dalla Regione Toscana e dalla Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli e condotta in collaborazione con il Centro per la conservazione delle tartarughe marine di Grosseto, è stata appena pubblicata sulla rivista scientifica “Marine Biology” ed è uno dei pochi studi che fornisce informazioni dirette sull’ecologia e i movimenti delle tartarughe comuni nei mari a ovest della nostra penisola.

 

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“L’identificazione di una zona marina utilizzata preferenzialmente dalle tartarughe comuni giovani, fornisce informazioni utili non solo per migliorare la conoscenza scientifica di fasi poco conosciute del ciclo di questa specie – spiega il professor Paolo Luschi dell’Ateneo pisano - ma anche per suggerire possibili misure di conservazione e tutela nella stessa area, ad esempio attraverso la diffusione di informazioni tra i pescatori sul tipo di reti e ami da impiegare per la pesca”.

Per ricostruire i movimenti delle otto tartarughe i ricercatori hanno applicato delle piccole trasmittenti sul carapace di ogni esemplare e utilizzato tecniche di telemetria satellitare tramite Argos, un sistema franco-americano di rilevazione a distanza della posizione degli animali, che si avvale di satelliti posti in orbita polare.


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Le tartarughe protagoniste della ricerca, tutte di taglia medio grande (con un carapace lungo più di 60 cm) e quindi in fase giovanile avanzata, erano state catturate accidentalmente, soprattutto da pescatori, e riabilitate in centri di recupero in Toscana e Campania. Dopo il rilascio, avvenuto vicino alle rispettive località di cattura, hanno raggiunto con movimenti veloci e diretti l’area marina compresa tra la Sicilia, la Sardegna e la costa occidentale della penisola Italiana, nella quale sono rimaste per l’intero periodo di osservazione.

“E’ di rilievo – conclude Luschi - il fatto che gli individui studiati, che erano rimasti in riabilitazione nei centri di recupero per vari mesi prima del rilascio, non abbiano mostrato alcuna evidente alterazione del loro comportamento a seguito del periodo di degenza”.

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Nelle foto il rilascio di due delle tartarughe studiate dai biologi dell'Università di Pisa

Per divulgare la scienza ci vuole anche un po’ di sano umorismo. E’ questa una delle conclusioni che emerge da uno studio condotto da Elisa Mattiello ricercatrice di Lingua Inglese al dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa che ha analizzato i TED Talks di ambito medico-scientifico tenuti fra il 2010 e il 2015. La ricerca, pubblicata sull’«International Journal of Language Studies», ha indagato le caratteristiche linguistiche dei TED Talks, un genere di comunicazione a metà strada fra una lezione universitaria e una conferenza che riflette anche degli influssi del Web per gli aspetti multimodali e l’ampia fruibilità su una piattaforma globale.

L’indagine si è concentrata in particolare su tre aspetti: la ridotta tecnicità dei contenuti e del lessico, l’utilizzo di un registro informale tipico della conversazione, incluso il tono umoristico, e l’uso della narrazione, attraverso esperienze o aneddoti personali, per introdurre gli argomenti specialistici.

 

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“Nei TED Talks i relatori usano raramente la terminologia medica o scientifica, se non accompagnata da spiegazioni o parafrasi e questo per comunicare anche ai non specialisti e ridurre la distanza con l’ascoltatore – spiega Elisa Mattiello - i TED Talks sono inoltre ricchi di parti narrative che permettono ai relatori di suscitare reazioni di simpatia o empatia da parte dell’audience, una loro peculiarità è poi l’umorismo, che può derivare da elementi di incongruenza, da autoironia e che soprattutto è utilizzato per alleggerire le tensioni derivanti da argomenti seri, delicati, come patologie o malattie”.

“Queste caratteristiche – aggiunge Elisa Mattiello – hanno contribuito ad affermare il successo dei TED Talks sia verso il grande pubblico sia verso gli specialisti e in particolare l’umorismo emerge come uno strumento di attrazione e persuasione, capace di confermare, anche rispetto ad una audience di esperti, la competenza del relatore e la sua familiarità con gli argomenti trattati”.


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Elisa Mattiello ricercatrice di Lingua Inglese al dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica


Lo studio della ricercatrice dell’Ateneo pisano, svolto nell’ambito del Programma di ricerca scientifica di rilevante interesse nazionale 2015 ‘Knowledge Dissemination across Media in English’, ha quindi dimostrato come Internet abbia rivoluzionato il discorso specialistico e i suoi partecipanti, passando dalla comunicazione a senso unico dei generi monologici ad una conversazione pubblica con molteplici partecipanti. I TED Talks, infatti, non si rivolgono soltanto ad un pubblico di esperti co-presenti alle conferenze, ma anche ad un pubblico internazionale di partecipanti più vasto e variegato che accede ai talks sul Web.

 

Riferimenti all’articolo scientifico:
Elisa Mattiello, “The popularisation of specialised knowledge via TED Talks”, in "International Journal of Language Studies", Volume 11, Num. 4., Ottobre 2017, Numero speciale intitolato “English for Specific Purposes: Redefining the State of the Art”, curato da Emilia Di Martino, Gabriella Di Martino e Christopher Williams.

Due spedizioni del dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Pisa sono in partenza per l'Antartide, una per contribuire a definire la storia geologica e ambientale di quel continente e l'altra per raccogliere meteoriti in grado di aiutarci a capire le origini del sistema solare. Entrambe fanno parte della XXXIII Campagna Antartica del Programma Nazionale delle Ricerche finanziata dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca.

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Il primo gruppo, formato dai ricercatori Chiara Montomoli e Stefano Casale, è partito dall'Italia martedì 5 dicembre, con arrivo previsto tre giorni dopo. L’area di studio è situata nel Convoy Range, a sud della base italiana "Mario Zucchelli", e rappresenta il punto di raccordo tra le ricerche geologiche italiane e tedesche nella Terra Vittoria Settentrionale e le ricerche geologiche neozelandesi nella Terra Vittoria Meridionale. In particolare, gli studiosi dell'Ateneo pisano lavoreranno sulle Montagne Transantartiche, che costituiscono un punto nodale per la ricostruzione dell’evoluzione geologica e geodinamica dell’intero continente e sono particolarmente significative anche per la ricostruzione della storia glaciale della Calotta Est Antartica.

I ricercatori si occuperanno del rilevamento geologico-strutturale nel tentativo di comprendere attraverso quali processi geologici l'Antartide abbia acquisito la sua attuale configurazione e di ricostruirne la storia nelle varie ere geologiche. Tra le attività previste durante la campagna, vi è lo studio dei depositi glaciali, al fine di ricostruire le principali tappe dell’evoluzione della Calotta Orientale, l’elemento più rilevante del complesso sistema antartico. La caratterizzazione e la datazione delle principali fasi della storia glaciale del Continente Bianco contribuisce, infatti, a fornire gli elementi necessari alla modellizzazione dei comportamenti futuri in risposta ai profondi cambiamenti ambientali indotti dal riscaldamento del clima. L’attività di ricerca, svolta nell’ambito di collaborazioni internazionali, consentirà di colmare una lacuna nella cartografia geologica di questo settore del Mare di Ross e di fornire nuovi dati rilevanti per l’avanzamento delle conoscenze sulla storia geologica e ambientale del continente Antartico.

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Nella foto Chiara Montomoli e Stefano Casale.

La seconda spedizione, composta dai ricercatori Luigi Folco, Maurizio Gemelli e Matteo Masotta, a cui si aggregherà Jerome Gattacceca, del "Centre de Recherche et d’Enseignement de Géosciences de l’Environnement" di Aix en Provence-Marseille, si muoverà dall'Italia domenica 10 dicembre per rimanere circa due mesi in Antartide a caccia di meteoriti.

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Nella foto, da sinistra: Maurizio Gemelli, Luigi Folco e Matteo Masotta.

Le vaste distese di ghiaccio della calotta polare Antartica, infatti, sono un terreno straordinario per la raccolta di meteoriti, che vengono concentrate dalla dinamica glaciale in particolari aree di ghiaccio blu dette "trappole per meteoriti” dove se ne possono trovare a decine. Le meteoriti sono frammenti di asteroidi, comete e pianeti e lo studio delle loro proprietà chimiche e fisiche permette di esplorare le origini del sistema solare, circa 4.5 miliardi di anni fa e la sua successiva evoluzione. L’Antartide costituisce quindi una sorta di Eldorado per le scienze planetarie.

I tre ricercatori del dipartimento pisano di Scienze della Terra e quello francese istalleranno un campo remoto a Butcher Ridge, al limite tra la calotta e le vette più interne delle Montagne Transantartiche, che servirà da base per le ricerche che verranno condotte a piedi e in skidoo Il supporto sarà fornito dalla base estiva italiana "Mario Zucchelli", 550 km più a nord. Ad attenderli a 80 gradi di latitudine sud ci sarà luce cristallina, temperature medie di -30 gradi e venti di 25 nodi. Il sito del progetto sulle "Meteoriti Antartiche" è raggiungibile all'indirizzo: http://meteoant.dst.unipi.it/index.php.

I due gruppi di ricercatori terranno un diario di viaggio dall'Antartide, con racconti, immagini e video pubblicati sulla pagina facebook "L'Università di Pisa in Antartide".

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Gianluca Fiori, professore associato di elettronica al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa, è tra i 329 scienziati europei che hanno ottenuto il prestigioso ERC Consolidator Grant, attribuito ogni anno a ricercatori con 7-12 anni di esperienza post dottorato i quali ricevono così sino a 2 milioni di euro di finanziamento sulla base di un elevato curriculum scientifico e di un progetto di ricerca altamente innovativo.

Il progetto presentato riguarda le applicazioni di materiali bidimensionali, come il grafene, nel campo dell’elettronica, per la costruzione di circuiti elettronici contenuti per esempio nei nostri computer e smartphone, e che in futuro potranno essere stampati su supporti flessibili come la carta.

“Grazie alla collaborazione con l’Università di Manchester, insignita del premio Nobel 2010 per le ricerche sul grafene – spiega Fiori – possediamo degli inchiostri ricavati da questo materiale, che sono del tutto simili agli inchiostri delle nostre stampanti, ma con proprietà elettroniche eccellenti. La ricerca finanziata ha lo scopo di utilizzare questa tecnologia per stampare circuiti integrati e transistor. Magari, in un futuro non lontano, potremmo arrivare a stampare da soli il nostro ipad o il nostro smartphone, con una semplice stampante a getto di inchiostro e un foglio di carta. Potremo quindi progettare e stampare dispositivi “personalizzati”, che rispondono alle nostre esigenze specifiche, a basso impatto ambientale e facilmente smaltibili”.

 

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Gianluca Fiori, professore associato di elettronica al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione

Responsabili di questo scenario futuristico sono le proprietà degli inchiostri composti da materiali bidimensionali (sottili come un singolo strato atomico), a base d’acqua, biocompatibili e adatti a una tecnologia a basso costo come la stampa a getto di inchiostro. Questa tecnologia può aprire la porta a innumerevoli applicazioni, che vanno da etichette intelligenti per l’industria 4.0 a dispositivi biomedicali per l’analisi dei segnali biometrici, a metodi smart anti contraffazione.

“Al momento – aggiunge Fiori – il livello di integrazione dei circuiti bidimensionali a cui possiamo arrivare è simile a quello che la tecnologia basata sul silicio (tuttora utilizzata per costruire i nostri processori) aveva negli anni settanta, quando la potenza di calcolo dei computer era immensamente inferiore all’attuale. Ma poi le cose sono progredite in modo sorprendentemente veloce: il primo processore, realizzato agli inizi degli anni 70, conteneva solo 2000 transistor: ora i chip ora ne contengono miliardi".

Nei prossimi 5 anni, il professor Fiori e il suo gruppo di ricerca lavoreranno per rendere reale quello che ora, nell’immaginario collettivo, sembra un film di fantascienza.

Circa 3.000 sono stati i progetti presentati per ottenere il riconoscimento. I 329 selezionati riceveranno un finanziamento complessivo di 630 milioni di euro. 33 gli Italiani, di cui però solo 14 condurranno la propria ricerca in Università e strutture italiane. Oltre all’Università di Pisa, con il Grant di Fiori, nella lista dei premiati figurano l’Università di Milano, l’Università di Padova, la Sissa di Trieste, il Politecnico di Torino, la Sapienza di Roma, l’Inaf, l’Infn, l’Università Sacro Cuore, il Laboratorio Europeo di Spettroscopie, l’Università di Torino e il CNR.

Approfondire la conoscenza delle proprietà nutritive e farmaceutiche del baobab per contribuire alla lotta contro la malnutrizione in Africa, favorendo anche la sua produzione e commercializzazione fra la popolazione locale. Con questi obiettivi ha ufficialmente preso il via a novembre il progetto “Il frutto del Baobab come fonte di sostanze nutritive e di molecole bioattive” finanziato dalla Regione Toscana nell’ambito degli interventi di cooperazione internazionale. Il progetto, che durerà un anno, è coordinato dalla professoressa Alessandra Braca e dalla dottoressa Marinella De Leo del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa, in collaborazione con l’organizzazione non governativa Aidemet e il Dipartimento di medicina tradizionale di Bamako, la capitale del Mali.

 

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Da sinistra la professoressa Alessandra Braca e la dottoressa Marinella De Leo, il dottor Sergio Giani di Aidemet ONG e la professoressa Rokia Sanogo del DMT, Bamako, Mali


“Il Baobab è un alimento base della dieta quotidiana in molte zone dell’Africa centrale e occidentale, nelle zone rurali del Mali ad esempio è consumato sia in forma solida che come bevanda - spiega Alessandra Braca - e tuttavia le sue proprietà nutritive, e potenzialmente anche farmaceutiche, sono ancora poco conosciute”.

Nell’ottica di incrementare la conoscenza scientifica sul Baobab, e contribuire così alla lotta contro la malnutrizione, il progetto prevede quindi l’indagine chimica della polpa del frutto per definire il suo valore nutrizionale e le sue potenzialità come fonte di sostanze biologicamente attive a scopo medicinale.

“Nei nostri laboratori effettueremo le analisi del frutto per l’identificazione dei polifenoli ed eventuali altre molecole bioattive – aggiunge la professoressa Braca – quello che sappiamo finora è che la polpa del baobab è particolarmente ricca di fibre, sali minerali, amminoacidi, vitamina C, mentre ha un basso tenore di zuccheri, tutte proprietà che lo rendono un alimento ad alto potere nutrizionale”.

Da parte loro i partner del Mali si occuperanno principalmente del controllo di qualità di frutti e della formulazione di prodotti a base di baobab. Un altro ramo di intervento del progetto sarà infatti quello di cercare di promuovere la produzione del baobab, la sua trasformazione ed il commercio fra le popolazioni locali al fine di valorizzare le risorse del luogo e di favorire l’educazione a un regime alimentare sano e sicuro.


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L'albero del Baobab, il frutto e il logo del progetto



 

Cosa ci rende umani? Un team internazionale di ricercatori ha scoperto nella corteccia cerebrale dell’uomo un particolare tipo di neuroni, gli interneuroni dopaminergici, che sono invece assenti in quella delle grandi scimmie, i nostri parenti più prossimi esistenti. Lo studio, durato sei anni, è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista «Science» e come unico italiano fra gli autori c’è Marco Onorati, ricercatore al Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e “visiting scientist” alla Yale University, nel laboratorio del professore Nenad Sestan.

“Il nostro cervello possiede capacità cognitive che lo rendono unico – spiega Onorati – e l’identificazione nella corteccia cerebrale umana degli interneuroni dopaminergici, non presenti in quella delle grandi scimmie africane come scimpanzé, bonobo e gorilla, costituisce un passo importante nella comprensione di cosa ci rende umani”.

 

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L’analisi comparativa del profilo genico del cervello umano e di quello degli altri primati ha dunque rivelato la presenza di alcuni geni specificamente arricchiti nel nostro cervello fra cui quelli per la sintesi della dopamina. I neuroni dopaminergici si trovano infatti nella sostanza nera del mesencefalo sia dell’uomo che degli altri primati, ma solo nell’uomo sono presenti anche nella corteccia cerebrale. E proprio capire la loro funzionalità è stato il compito del ricercatore dell’Ateneo pisano che li ha generati in laboratorio grazie all’utilizzo di cellule staminali pluripotenti.

“Per quanto riguarda i numeri, questi interneuroni sono rari, meno dell’1% – conclude Onorati – e tuttavia, essendo coinvolti nella sintesi della dopamina, possono regolare funzioni cognitive superiori tipiche dell’uomo, come la memoria e il comportamento, oltre ad essere coinvolti in malattie come il Parkinson o alcune forme di demenza, per le quali questo studio potrà in futuro fornire nuove prospettive”.

Qui i link all’articolo su «Science» di cui sono primi autori i ricercatori Andre M. M. Sousa e Ying Zhu della Yale University e al press release della Yale University.

Dal riciclo degli scarti della produzione agroalimentare, realizzati innovativi bio rivestimenti edibili per proteggere più a lungo il valore nutritivo della frutta senza alterarne il gusto. La novità arriva dall’Università di Pisa dove il gruppo di ricerca coordinato della professoressa Annamaria Ranieri del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali ha condotto una sperimentazione i cui risultati sono stati recentemente pubblicati su due riviste scientifiche, il “Journal of Food Processing and Preservation” e il “LWT – Food, Science and Technology”.

Docente di Chimica agraria, Annamaria Ranieri ha indirizzato da tempo le sue ricerche sull’utilizzo di biopolimeri naturali ed edibili per mantenere le proprietà nutraceutiche della frutta durante la conservazione.

“Come comunità scientifica ci poniamo il problema della gestione virtuosa e sostenibile degli scarti della produzione agroalimentare – dice la professoressa dell’Ateneo pisano - dall’altra parte l’obiettivo è di dare ai consumatori prodotti che, dalla raccolta alla tavola, riescano a mantenere l’aspetto e le proprietà organolettiche e salutistiche”.

 

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In alto a sinistra Mela Fuji senza rivestimento, a destra rivestita con gelatina di collagene, in basso a sinistra Pomodoro Sir Elyan senza rivestimento, a destra rivestito con chitosano

 

In particolare, uno dei due studi ha riguardato le mele Fuji: per conservarle i ricercatori hanno utilizzato come rivestimento la gelatina, un polimero a base di collagene ottenuto dalla lavorazione di tessuti connettivi e largamente utilizzato per i rivestimenti di capsule nell’industria farmaceutica. Il secondo studio ha riguardato invece il frutto del pomodoro che è stato rivestito con il chitosano, un polimero derivante dalla chitina, una sostanza presente negli esoscheletri dei crostacei e nelle pareti cellulari dei funghi.

I due rivestimenti, che possono essere eliminati lavando i frutti prima di cibarsene hanno rallentato di 3 giorni la maturazione, come evidenziato dal posticipato picco di accumulo di importanti composti nutraceutici, come carotenoidi, acidi fenolici e flavonoidi. Nella mela, poi l’efficacia dell’impiego del rivestimento edibile nel rallentare la maturazione è testimoniato dalla minore concentrazione di alcuni aromi presenti nel frutto maturo, a fronte del mantenimento dei principali composti aromatici che caratterizzano il frutto

“La maggiore conservabilità nel tempo – ha quindi concluso la professoressa Ranieri – potrebbe inoltre contribuire ad evitare lo spreco alimentare in differenti punti della filiera dalla raccolta al consumo”.

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