Laurea honoris causa in Lingue e letterature straniere a Mirella Freni

Il 24 maggio del 2002 l'Università di Pisa, su proposta della Facoltà di Lingue e letterature straniere, ha conferito la laurea honoris causa in Lingue e letterature straniere a Mirella Freni.


Lectio doctoralis di Mirella Freni

In 47 anni di carriera ho provato tantissime emozioni, ma nessuna può paragonarsi a quella di oggi: sono abituata al palcoscenico e trovarmi qui a parlare in un'Università che ha visto fra i suoi studenti e fra i suoi docenti personaggi illustri, mi riempie di soggezione.
Sono quasi incredula, ma anche orgogliosa per il riconoscimento di un vita dedicata all'arte, spesa al servizio della musica, che amo tantissimo e che mi ha dato tanto. Un onore così grande, di rado attribuito a chi è solo esecutore-interprete musicale, mi è ancor più prezioso perché mi viene da un'Istituzione prestigiosa come la Vostra; quasi si avvalora una tesi ardita, di recente dettatura, del maestro Carlo Maria Giulini: "La grande musica è finita. Resta soltanto l'interpretazione".
Vi ringrazio di cuore.

Ho sempre pensato che l'interpretazione di un testo musicale sia una particolare forma di creazione, certo non paragonabile al lavoro del compositore, del grande artista che dal nulla fa emergere emozioni e sentimenti semplicemente accostando delle note. È però vero che la stessa musica può essere resa in molteplici modi, in diverse sfumature, capaci di toccare l'una o l'altra corda emotiva e del pensiero. Qui sta il lavoro creativo dell'esecutore: dare vita a quei puntini neri scritti sul pentagramma, comprensibili solo da chi è musicista, e farli arrivare all'orecchio o, meglio, al cuore e alla mente di chiunque ascolti, indipendentemente dalle differenze di cultura, di lingua, di strato sociale.
La grandezza della musica sta nel saper eliminare le barriere attraverso un impatto emozionale, capace di essere percepito da tutti; una lingua universale, comprensibile in ogni tempo e in ogni luogo. Ma per poter arrivare a tale risultato, occorre uno studio approfondito, una complessa elaborazione personale nella quale l'interprete, pur ponendosi al servizio di quelli che sono gli intenti musicali del compositore, metterà sempre qualcosa di sé.

Il valore dell'interpretazione si può forse capire con un esempio banale, anche se non del tutto calzante, perché tiene conto solo dell'aspetto tecnico: pensiamo di ascoltare un disco con un vecchio mangianastri, poi di riascoltarlo con un sofisticatissimo impianto Hi-Fi; l'effetto sarà senz'altro diverso! La musica non cambia, è sempre quella; cambia il modo di eseguirla. Perciò ogni produzione, operistica o concertistica, è un prototipo, e perfino ogni serata di un medesimo spettacolo può dare esiti diversi anche se gli interpreti sono gli stessi: è questa la magia del teatro.
L'esecutore dovrebbe riunire in sé diverse doti. Innanzitutto, per quel che riguarda i cantanti, ci vuole la "materia prima", la voce, ma non è tutto: occorre una sensibilità istintuale innata, una ricchezza emotiva che devono sempre essere accompagnate da qualità tecniche e competenze storico-filologiche, che possono perfezionarsi solo con uno studio costante, nella continua ricerca di quelle espressioni, di quegli accenti, che più rispondono all'evoluzione del gusto musicale, al modo di sentire del pubblico contemporaneo. La bella voce non è dunque che un elemento, oserei dire nemmeno il più importante, perché un cantante possa definirsi un vero e proprio artista. Si pensi a Maria Callas, a mio parere il più grande soprano del Novecento, che - a dire la verità - aveva una voce particolare, ma riusciva a muovere incredibili emozioni in chi ascoltava.
La ricchezza umana è, a mio parere, quasi più importante della voce; come si può, infatti, parlare in modo credibile di amore, morte, tradimento, onore, amicizia... di tutti quei sentimenti sempre presenti nell'opera lirica, se non si conoscono, se non si sono vissuti? Un interprete si forma una certa idea del personaggio, cerca di penetrarne il carattere, di mettersi nei suoi panni, di pensare come agirebbe se, nella realtà, venisse a trovarsi in condizioni analoghe alle sue, soprattutto come si sentirebbe psicologicamente: lavora quindi da un punto di vista strettamente soggettivo. Ma poi occorre verificare queste impressioni, accertarsi che l'idea che ci si è fatta abbia un riscontro reale nella musica, nei suoi tratti espressivi, soprattutto nei colori e nelle indicazioni dinamiche. Se, per esempio, sulla partitura c'è scritto un "piano", non sarà stato messo lì a caso. Vi sarà una ragione precisa, che va individuata, capita, inserita nel ritratto psicologico globale del personaggio.
A mio avviso, poi, tutto deve esprimersi con la massima naturalezza, la massima spontaneità; la spontaneità non invecchia mai, è sempre attuale, "comunica" sempre; soprattutto consente a ciascuno di essere se stesso, di potersi esprimere con la propria voce, con il proprio talento, secondo la propria sensibilità. È inutile cercare di copiare le interpretazioni di altri esecutori, per quanto grandi possano essere. Occorre invece trovare in sé le ragioni del personaggio, farlo cantare come se si raccontasse una storia personale, come se il carattere fosse il proprio. Solo così si potrà essere convincenti. Io ho sempre pensato, fin da giovane, che preferivo essere una piccola Freni, piuttosto che la brutta copia di qualcun altro.
Non è però sempre facile accettare il carattere di un personaggio e riuscire a fonderlo con quelle che sono le proprie sensibilità. Ricordo, ad esempio, le grosse difficoltà che incontrai con Desdemona nell'Otello di Verdi: mi sembrava talmente lontana dal mio sentire, che mi dava quasi fastidio. Ingenua al punto da sembrare stupida; una donna che mai si rende conto della rabbia crescente del Moro, anzi la alimenta; insomma, non riuscivo proprio a rappresentarmela come un personaggio credibile. Alla fine ho trovato una chiave interpretativa che mi convinceva: ho pensato che esistono persone straordinarie che non vedono mai il male da nessuna parte e che, quindi, non sono in grado di capirlo, non lo concepiscono nemmeno. Nella musica ho trovato poi conferma di questa mia lettura: l'anima di Desdemona si rispecchia nel puro cristallo del canto, nella sua chiarissima linea musicale, che ne esprime la semplicità, l'estrema bontà d'animo.

La conoscenza del testo letterario, da cui sono tratte le opere liriche, aiuta moltissimo a capire il personaggio; ma talvolta la medesima storia è colta in diverse sfaccettature quando viene affrontata da compositori diversi, sarà allora importante conoscere la personalità dell'autore, la sua vita, il suo ambiente, le sue opere. È il caso di Manon, personaggio scaturito dalla fantasia letteraria dell'abate Prevost, trasposto in musica da Auber, Massenet e Puccini, naturalmente attraverso la mediazione dei librettisti; ognuno ha colto aspetti particolari del carattere dell'eroina e della sua storia d'amore e di morte. Ho interpretato sia l'opera di Massenet, sia quella di Puccini e, al di là della conoscenza del testo, ho dovuto calarmi nelle intenzioni e nel mondo dei due musicisti. Lo stesso Puccini, a proposito dell'opera di Massenet, aveva commentato: "Lui la sentirà alla francese, con la cipria e i minuetti. Io la sentirò all'italiana, con passione disperata". E in effetti ho dovuto praticamente affrontare due personaggi diversi.
Per chi vuole confrontarsi con un repertorio universale, sarà importante compenetrarsi nelle poetiche letterarie dei singoli autori e del loro mondo culturale; nelle tradizioni e nella storia dei loro paesi. È per questo che il mio interesse si è volto a un repertorio senza confini, che va dalla musica barocca, al Settecento, all'opera romantica, fino al verismo di Puccini, di Cilea, di Mascagni, di Giordano; ai compositori russi, Cajkovskij in particolare; alla concertistica francese, tedesca e spagnola con Francis Poulenc, Franz Schubert, Richard Strauss, Manuel de Falla... in un abbraccio di lingue e di linguaggi musicali senza confini.

Ma, dopo aver elaborato il disegno psicologico del personaggio, anche attraverso un'attenta lettura dello spartito musicale, affinché le intenzioni non rimangano solo sulla carta, l'esecutore dovrebbe possedere una totale padronanza della voce, modulare il proprio "strumento naturale" in modo da esprimere tutta una gamma di sfumature, capaci di rendere i più diversi stati d'animo.
Per arrivare a una perfetta conoscenza della propria muscolatura e del proprio corpo, occorrono anni di studio; è una continua "messa a punto" del fisico, che non sempre risponde in modo eguale. Se un giorno non ti senti bene, devi saper cantare in modo diverso, non forzando sulla muscolatura, in questi casi più rigida. Io poi, che fortunatamente ho avuto una lunga carriera, ho dovuto affrontare varie fasi di trasformazione fisica, e ogni volta sono stata costretta a correggere la tecnica del canto. È una bella fatica, ma senza questo continuo lavoro non si possono ottenere risultati soddisfacenti.
La buona tecnica sostiene l'espressività. Mio nipote Mattia, che mi ha vista e ascoltata nella Bohème, nella Fedora, nell'Adriana Lecouvreur e nella Manon di Puccini (opere che, come quasi sempre nel melodramma, finiscono tragicamente per l'eroina femminile), mi dice spessissimo: "Tu, nonna, muori così bene!" Ma come potrei morire bene, se non riuscissi a "governare" la voce in modo da poter emettere dei "pianissimo", tali da essere sentiti dal pubblico? Ciò nonostante il pathos dello svolgimento scenico, che a volte è tanto forte da toglierti quasi il fiato? Se, invece che far "spegnere" la voce fino a un sussurro, fossi costretta a cantare più forte, non "morirei" così bene.
Da giovane cantavo più istintivamente, poi con gli anni e, soprattutto, dopo un "incidente di percorso", fortunatamente l'unico, nella Traviata alla Scala, mi sono trovata a una svolta della mia carriera. Sull'onda di un successo generale, raggiunto in breve tempo, avevo accettato troppo presto una parte per la quale non ero matura e che non rispondeva, in quel momento, alle mie potenzialità vocali; una lezione che mi ha indotta a studiare ulteriormente, per impadronirmi di una tecnica più solida e, soprattutto, più consapevole; per conoscere, insomma, completamente il mio strumento.
La voce non ha tasti o corde visibili, con i quali avere un rapporto tangibile, concreto: sei tu, con la tua intelligenza e la tua sensibilità, che agisci sulla muscolatura, distribuisci il fiato, "appoggi" il suono e lo proietti in avanti, diventando tu stesso uno strumento che crei lì per lì. Alla fine ero in grado di sapere quello che potevo o non potevo fare, di dominare completamente la voce, ciò che ha permesso l'evolversi della mia carriera; di interpretare molto più compiutamente i personaggi che mi venivano affidati.
La piena padronanza della tecnica di canto si acquisisce con gli anni e, comunque, è legata al patrimonio naturale: se io suono un violoncello, non potrò esibirmi ne La Campanella di Paganini; l'artista deve quindi avere una forte capacità autocritica e l'umiltà di riconoscere i propri limiti, selezionando il repertorio in base alle sue caratteristiche e nel rispetto della propria naturale evoluzione. Quanti giovani talenti, purtroppo, si perdono dopo pochi anni di carriera, per le scelte sbagliate, per la fretta nel voler affrontare ruoli che non sono loro, ruoli da riservare alla piena maturità! Rischio che ho corso anch'io, come ho detto, ma che, fortunatamente, sono riuscita a evitare.

Non è comunque facile resistere alle proposte di teatri come la Scala o il Metropolitan, da sempre considerati "templi" della lirica, o di direttori d'orchestra importanti. Quante pressioni ho ricevuto da Herbert von Karajan, perché accettassi d'interpretare il Trovatore, o Tosca, o Madama Butterfly in teatro: richieste lasciate cadere, perché ho sempre preferito mantenere il massimo rispetto per il mio organo vocale e per i tempi della sua evoluzione, piuttosto che lasciarmi allettare da soddisfazioni personali o di carattere economico.
Penso che, nel tempo, questa si sia dimostrata una scelta vincente, visto che la critica, all'inizio della carriera, mi considerava interprete dei ruoli cosiddetti dell'"ingenua": brio, spigliatezza, appello fisico, lacrima e sorriso. Tipologia che richiama i personaggi femminili dell'Elisir d'amore, della Figlia del reggimento, delle Nozze di Figaro e del Don Giovanni; e, nel versante più strettamente sentimentale, di Mimì, di Liù, di Manon di Massenet, di Margherite e di Juliette di Gounod; venature del teatro "larmoyant" di memoria settecentesca e francese.
Da questa linea iniziale nascono le figure successive: Desdemona, Elisabetta del Don Carlos, Aida, Amelia-Maria del Simon Boccanegra, Elvira dell'Ernani, Alice del Falstaff, fino all'approdo, diciamo della maturità, che mi ha portata a interpretare le opere russe di Cajkovskij e il repertorio verista italiano: Manon di Puccini, Fedora, Adriana Lecouvreur e il trittico pucciniano, eseguito in disco, come altre opere affidate soltanto alla discografia. Un'esperienza, questa, molto diversa rispetto alle esecuzioni teatrali, perché manca la tensione data dalla presenza del pubblico, l'atmosfera del teatro. In sala di registrazione devi restare pressoché immobile, per non alterare l'equilibrio sonoro delle apparecchiature elettroniche; è quindi molto difficile, da quella posizione obbligata, riuscire a trovare le giuste espressioni: devi astrarti da quell'ambiente e immaginare di essere in teatro. Facile a dirsi, ma assai difficile a farsi.

Sono inevitabilmente passata a parlare della mia esperienza personale e chiedo scusa. Devo riconoscere che - al di là del grosso lavoro individuale di compenetrazione nell'opera - mi è stato sempre di enorme aiuto il rapporto, che ho stabilito con grandi direttori d'orchestra: von Karajan, Giulini, Kleiber, Maazel, Osawa, Levine, Gavazzeni, Abbado, Muti, per citarne alcuni. Con questi ho sempre trovato una grande intesa. Non ho memoria di scontri per imporre l'uno o l'altro modo di sentire la musica. Con il maestro Karajan, poi, c'era un rapporto del tutto particolare durato vent'anni. Si faceva musica perfettamente all'unisono; eravamo un tutt'uno. Quando si lavora così, si creano quegli spettacoli "storici" il cui ricordo è difficile da cancellare anche dopo anni e anni.
Analoghe considerazioni e tanti episodi avrei da riferire sugli altri eminenti direttori d'orchestra sopra ricordati, ma dovrei dilungarmi troppo. Voglio, però, ricordare il grande aiuto, nell'approfondimento del repertorio russo, che mi ha dato il maestro Vladimir Delman. Delman mi ha fatta entrare appieno nel personaggio di Tatiana nell'Evgenij Onegin, trasmettendomi quegli aspetti della cultura e del sentire slavo, che ho ritrovato anche in Andrej Konchalovskij, regista dell'Evgenij Onegin, e della Pikovaja dama alla Scala. I loro insegnamenti mi sono ritornati, in questi ultimi mesi, come preziosi suggerimenti nello studio e nella preparazione di un'altra opera di Cajkovskij, La pulzella d'Orleans (Orleankaja deva), nuovo ruolo che debutterò al Regio di Torino nel luglio prossimo. Spero di accontentare, ancora una volta, il mio amico Nikita Michalkov, "Leone d'oro" al Festival di Venezia per la regia del film Oci ciornie che - nel repertorio russo - mi ritiene una cantante di casa sua.

In un'epoca nella quale la parte visiva ha assunto una sempre maggiore importanza nella spettacolarità di vario genere, è fondamentale l'apporto del regista. Per essere credibile l'opera lirica non può più prescindere dall'impatto visivo: questo aspetto che nell'Ottocento e (in parte) nel Novecento, veniva quasi del tutto trascurato, è invece determinante agli effetti della miglior riuscita di una rappresentazione. L'Opera è nata come "melodramma", dunque teatro in musica e così si esprime anche nella concezione contemporanea. Di qui l'importanza di collegare questi due aspetti in una simbiosi equilibrata.
Nella Bohème alla Scala, Franco Zeffirelli interpretava la morte di Mimì, annunciata da un accordo minore in orchestra, facendomi scivolare un braccio dal letto; il manicotto, che prima mi scaldava, cadeva a terra, e la sensazione di gelo che si riceveva da quell'immagine, unita ai toni della musica, dava un'idea agghiacciante di morte. Quando la regia, come in questo caso, si sposa con la musica, sottolineandola anche con emozioni visive, si ottiene quell'effetto che si chiama arte.

Un altro incontro determinante è stato quello con Jean Louis Barrault. Mi ha insegnato come si possono trasmettere le emozioni anche solo con l'incedere in scena, con i movimenti del corpo - mai plateali o melodrammatici - ma contenuti, misurati: una gestualità raffinata. Anche grazie a lui ho migliorato molto le mie capacità espressive.
Durante le prove del Simon Boccanegra, ancora alla Scala, Giorgio Strehler mi piazzò seduta e ferma su una lunghissima scalinata. Dal fondo della scena dovevo intonare la romanza "Come in quest'ora bruna". Sentivo appena l'orchestra e il suono mi arrivava una frazione di secondo dopo che aveva cominciato a suonare. In questo modo, chi ascoltava avvertiva una fastidiosissima sfasatura, originata appunto dal ritardo della voce. La cosa non andava proprio, mi sembrava antimusicale, ma quando ho visto la scena dalla platea, con una comparsa messa al mio posto, mi son resa conto che l'effetto di quella figurina lontana era straordinario. Una figura avvolta dal chiarore di un'alba sul mare era quanto di più suggestivo si potesse immaginare e, per di più, assolutamente in linea con la musica. Strehler aveva ragione, ero io che dovevo trovare la soluzione musicale. Ma fu Claudio Abbado, che dirigeva l'opera, a darmi l'aiuto decisivo: anticipavo l'orchestra di una frazione di secondo e guardavo il direttore: "Se sorrido vuol dire che stiamo andando insieme", mi disse, e Abbado sorrideva sempre.
A volte le scelte registiche possono comportare difficoltà pratiche sul piano musicale, ma ascoltando le ragioni degli altri, si possono risolvere i problemi; questo, s'intende, e non mi stancherò mai di pensarlo, purchè ci si ponga tutti al servizio della musica.

Ecco, quindi, che nel teatro lirico chi vuole essere un buon interprete deve saper sviluppare le proprie qualità di cantante e di attore in tutti i modi, sia quando è chiamato a cantare nella lingua madre, sia quando deve esprimersi in una lingua straniera e ha il compito di dare un senso, il più calzante possibile, al rapporto parola-musica, alla completezza drammatica e musicale. Tutto ciò che scorre sul palcoscenico è, alla fine, frutto di un duro lavoro, ampiamente ripagato dalla soddisfazione di "arrivare" al pubblico, di trasmettere forti emozioni, di sentirlo ridere, piangere, trepidare, pensare con te, nel comune amore per la musica.


Ultimo aggionamento documento: 20-Dec-2006