Analisi della semplicità

Laudatio di Mirella Freni
di Guido Paduano

  1. Chi volesse provarsi a dare in poche parole, e dunque con tutti i rischi di riduzione, imprecisione e grossolanità, un'idea emblematica della personalità artistica di Mirella Freni, potrebbe forse partire dalla sua epocale interpretazione di Adriana Lecouvreur (con la direzione di Gavazzeni e la regia di Puggelli, spettacolo scaligero del 1989). Adriana Lecouvreur, che rappresenta la vicenda di una grande attrice tragica del Settecento francese (il suo amore per Maurizio di Sassonia, e la sua morte, avvelenata da una rivale) ha infatti quella ricchezza aggiunta di senso che spetta sempre alle opere cosiddette metateatrali, dove cioè la tensione tra vero e finto, che consente l'identificazione insieme piena e controllata dello spettatore, occupa non solo la forma ma anche il contenuto della comunicazione scenica, con la conseguenza che l'interprete moderna è tanto più se stessa quanto più è Adriana. E come è Adriana, ce lo dice chiaramente il testo, anzi i testi: la commedia di Scribe e Legouvé le attribuisce "una vera rivoluzione nella tragedia: non declama, parla", il libretto di Colautti patetizza questo giudizio nella scena in cui il direttore di scena Michonnet, innamorato di Adriana, segue con trepidazione dietro le quinte la sua performance:

    Così...così...che fascino, che accento!
    Quanta semplicità! Com'è profonda e umana!
    Men sincera è la stessa verità!

    E così è la Freni fin dalla sua entrata in scena: recita due versi del Bajazet di Racine ("Del sultano Amuratte"); poi si ferma a constatare che "così non va bene": basta questa traccia umile e sapiente del mestiere a escludere qualunque orpello divistico. Poi, anziché riprendere "in tono più solenne", come pretenderebbe l'inconseguente libretto, scioglie la frase imperiosa in una morbida e intensa dolcezza, dove il significato delle parole "e ritorni al Serraglio l'augusta sua pace" travalica evidentemente il contesto della citazione.
    Se si tiene presente il codice paradossale, ma perfettamente coerente di questa opera, dove il canto esprime la relazione dialogica "normale", mentre mediato e artificioso è sempre il parlato, apprezzerà queste parole di Elvio Giudici a proposito del monologo di Fedra, che rappresenta sì una prestazione professionale di Adriana, ma insieme è quanto di meno finto ci sia, essendo il solo modo di aggredire la rivale concessole dalle convenienze sociali:

    La Freni il monologo lo canta, guardandosi bene dal parlarlo: con risultato eccezionale non solo in termini di pura vocalità (risultati del genere sono il frutto d'una vita di studio) ma anche, ove si tenga nel dovuto conto la reale situazione drammatica del momento e del personaggio, in termini di verità d'accento e d'intensità espressiva. In questo e in numerosissimi altri casi, il risultato che una vera cantante riesce a ottenere è una massa sonora cospicua, ma la cui assenza di forzatura o d'apertura del suono evita ogni volgarità e consente d'essere morbida, elastica, per conseguenza duttilissima; da qui una gamma di colori ampia ma soprattutto "naturale", senza i manierismi e le leziosità che per questo repertorio sono stati - ma tuttora sono - nemici non meno micidiali della retorica del "gran gesto".
  2. Naturale, è scritto giustamente da Giudici tra virgolette: in effetti se torniamo alla frase di Michonnet "Men sincera è la stessa verità" possiamo leggervi, più ancora che l'iperbole dell'innamorato, l'eco della tesi aristotelica che il prodotto artistico è superiore alla storia (cioè alla realtà) perché non ne contiene le zone morte, le casualità, le insignificanze. Questo ci guida a cercare una definizione della semplicità come altissima formalizzazione, che è precisamente l'opposto della piattezza naturalistica, e che si fonda sul principio che l'esperienza teatrale non è la vita di tutti i giorni: è semmai qualcosa capace di illuminarla (giusta la presunzione all'universalità, sempre aristotelica) proprio a partire dalla sua diversità, dal carattere estremo o marginale che sollecita una ricerca creativa sulla condizione umana.
    Altro discorso è quello che concerne il modo di veicolare questa diversità, se cioè forzando tutti gli aspetti e gli strumenti del sistema rappresentativo, fino a farne un universo compattamente alienato, ovvero ospitandola come un gigantesco scarto dentro la norma del quotidiano, a esprimere il quale è utilizzato un solo strumento, la voce, nel suo costruire fraseggiando eventi e valori, mentre il comportamento gestuale e gli altri elementi del messaggio scenico restano discretamente nell'ombra, a ricordare che quanto accade accade a uomini come noi - che hanno un corpo e un habitat simile al nostro.
    La poetica che Mirella Freni ha sempre coerentemente perseguito è quella che considera l'evento, il fatto tragico, straordinario, o comunque rilevante, come una provincia contigua al quotidiano, o meglio ancora una voragine che si apre d'improvviso nella quiete apparente del vivere: il pathos che ne scaturisce insiste precisamente su questa zona di confine, e si arricchisce dei sentimenti "comuni" residuali: lo stupore, lo smarrimento, la nostalgia della normalità. Voglio dare un solo esempio, tratto dal celebre Otello con la direzione e la regia di Karajan: nella grande scena iniziale del III atto, quando si abbatte su Desdemona la furia già disperata di Otello, una furia che essa "sente e non intende", la Freni carica di peculiare intensità il momento diversivo in cui Desdemona cerca di allentare la minacciosa inchiesta del fazzoletto, riproponendo la sua intercessione per Cassio (e con ciò ottiene, naturalmente, l'esito opposto). Le parole "astuzia è questa del tuo pensier" si estendono in un sorriso e uno sguardo tentativo, come se la tenerezza e la confidenza amorosa, poco prima certezze consolidate, stessero a una distanza che insieme si spera impercettibile e si teme incolmabile.
  3. È da chiedersi se la medesima poetica della semplicità abbia relazioni significative con la fenomenologia dei personaggi e il loro ruolo drammaturgico. In altre parole: queste donne così prossime a donne comuni, sorprese da ignoti sconvolgimenti, sono sempre e comunque vittime? Condannano a una irredimibile passività se stesse o l'intero genere femminile, o magari il genere umano?
    Credo che al contrario la lucida e costante attenzione della Freni a investire di dignità il ruolo volta a volta impersonato si risolva in contributo euristico utile per il superamento di troppo facili antitesi: per esempio quella pur suggestiva formulata elaborata da Mosco Carner per il macrotesto pucciniano, dove si alternerebbero regolarmente storie di donne fragili (quasi opéra-comiques) e di donne forti (quasi grand-opéras), si dissolve davanti alla Butterfly della Freni - alludo particolarmente all'edizione diretta da Karajan con la regia di Ponnelle.
    Vittima ontogenetica e filogenetica (chi può dimenticare, dopo il 1945, che la scena è posta in Nagasaki?), la Butterfly della Freni proprio su questo piedestallo di umiliazioni eleva una fortissima affermazione di sé.
    La sua miniaturizzazione ("Vogliatemi bene - un bene piccolino") è presentata come il gioioso appropriamento di un codice amoroso, cui è straziante che il partner risponda con una brutale reificazione ("Pensar che quel giocattolo è mia moglie!"); del pari la rinuncia all'identità nazionale è una scelta rivendicata con orgoglio fin oltre le soglie della tragedia. Quando la "vera sposa americana" le chiede perdono, questa Butterfly si inchina nella cortesia rituale per poi risollevarsi lentamente, sorretta da una professione amorosa che per essere indiretta diventa più luminosa e squillante:

    Sotto il gran ponte del cielo non v'è
    donna di voi più felice.
    Siatelo sempre,
    non vi attristate per me.

    Ma si pensi anche al congedo del console che ha osato proporle di risposarsi, effettuato con tanta più controllata violenza perché fatto discendere non dalla collera, ma dalla dolorosa meraviglia della sofferenza ("Voi, signor, mi dite questo!"), o al riappropriamento del codice d'onore giapponese, sussurrato con fissità angosciosa e incrollabile: "Con onor muore - chi non può serbar vita con onore" (dove è suggestivo notare che il presunto giocattolo giapponese ripete all'incirca le parole che costituivano l'iniziazione alla morte dell'Aiace di Sofocle, la più gigantesca immagine del mito greco).
    Né infine la Freni si sottrae alla crudeltà candida e intera con cui Butterfly respinge il suo pretendente, il principe Yamadori: una pagina enigmatica che solo per il suo carattere episodico non arriva a proporre come asse dell'opera il sopruso dell'amore unilaterale, piuttosto che quello coloniale e interculturale.
  4. Non è meno rilevante il successo ottenuto dalla Freni nell'avvalorare personaggi la cui conclamata tenuità dipende invece dalla loro sanità morale, dal rappresentare i valori accettati dal gruppo sociale in modo che riduce o annulla l'interesse della personalità individuale, sia quando si trova a competere col fascino della trasgressività destabilizzante, come capita a Micaela nei confronti di Carmen, sia quando si trova a trionfare, per assenza di avversari (Suzel nell'Amico Fritz, ruolo splendidamente cantato nel 1968 con Gavazzeni; Cecchina di Piccinni, di cui esiste una registrazione del 1969, diretta da Caracciolo). La possibilità di "prendere sul serio" questi personaggi deriva dalla convinzione empatica dell'interprete (vale a dire, dalla concezione morale del proprio compito), ma anche dalla sua capacità di organizzare quella che vorrei chiamare una loro micro-dialettica interiore, nel rendere significativa un'ombra, un turbamento, una civetteria.
    Peraltro non a caso si fondano su un'eticità schietta e integra i personaggi dominanti, invece, nella cui interpretazione la Freni ha lasciato il segno: basta ricordare la Susanna delle Nozze di Figaro e Madame Sans-Gêne, su cui volentieri concludo.
    L'ex-lavandaia Caterina che ha sposato l'ex-sergente Lefevbre, poi maresciallo di Francia e duca, a motivo della sua inadeguatezza alla vita di corte si vede imporre il divorzio dall'onnipotente volontà dall'imperatore Napoleone: si salverà ricordandogli la loro amicizia di un tempo, tra la lavandaia e lo squattrinato tenentino corso.
    In Madame Sans-Gêne, Mirella Freni fa brillare un intero sistema di valori. Prima di tutto, s'intende, l'amore, che rivendica il diritto di assumere in un linguaggio ruvidamente e superbamente plebeo le mitologie più aristocratiche ("Siamo impastati, inchiodati, uno stesso / cuore, uno stesso sangue"). Poi una pulsante passione civile, pronta a trasformarsi umanamente nella pietà per i vinti, che la porta a salvare due volte un nobile asburgico, la prima volta dalla furia rivoluzionaria, la seconda dalla gelosia di Napoleone. Poi l'amicizia, che da questa situazione fiorisce inattesa, facendo prevalere la comunanza di rischi e sofferenze sulla incompatibilità delle educazioni e delle opinioni.
    Ma la solennità di questi valori è sciolta nell'allegria vitale della Freni, e alleggerita dalla sua ironia (ricordo solo un ossimoro incomparabilmente scandito, quando la protagonista fa notare a Napoleone che per la nuova aristocratica moglie che gli vuol dare suo marito resterà sempre "un villan rifatto come Vostra Maestà").
    Ma al disopra dell'ironia, un'altra dimensione concettuale stabilisce il dominio del personaggio sull'orizzonte dell'opera: la coscienza e direi quasi il controllo del tempo.
    Passano 19 anni (e quali anni!) dal 1792 del primo atto al 1811 degli altri due: ma la protagonista fa di questa distanza una forza attiva e vivificante del presente, attraverso la durata della memoria storica (che ripercorre con sofferente partecipazione l'odissea delle campagne napoleoniche), ma anche attraverso l'irrevocabilità delle soglie, che colora di sottilissima malinconia le potenzialità inesplorate. Agli splendori della giovinezza la maturità sapiente e appassionata si rivolge non per rivestirsene incongruamente, ma per salvaguardarne l'immagine come patrimonio intellettuale ed emotivo. Come fa l'arte, come fa l'artista.


Ultimo aggionamento documento: 27-Jun-2006