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Barriere invisibili
Primo monitoraggio delle carriere femminili nell'Ateneo pisano

 

foto di studentessa

 

L’aumento della scolarizzazione e l’inserimento nel mercato del lavoro sono fra i più importanti elementi di innovazione che hanno portato alla realizzazione dei cambiamenti avvenuti nelle identità femminili. A partire dagli anni ’70 i corsi di vita si sono modificati e le donne hanno potuto scegliere di uscire da un destino sociale imposto loro dalla divisione dei ruoli, all’interno della famiglia, per acquisire una maggiore autonomia nella costruzione delle proprie biografie. Questi mutamenti hanno avuto effetti significativi sia sul piano normativo che culturale e hanno messo in evidenza le contraddizioni di un modello tradizionale patriarcale dove la separazione tra sfera produttiva e sfera riproduttiva, tra pubblico e privato, era anche il riflesso di una divisione gerarchica e valoriale tra i sessi.

Tali asimmetrie continuano, tuttora, a influenzare la qualità dell’occupazione femminile e, in particolare, comportano discriminazioni nell’accesso alle carriere in tutti i settori (dirigenti maschi 83,4%, femmine 16,6%), oltre a consistenti differenziali salariali accompagnati da tassi più elevati di disoccupazione. Una posizione debole, dunque, che richiede per il suo superamento il coinvolgimento di più attori sociali (stato, mercato, terzo settore e famiglie) e la ridefinizione del “sistema di interdipendenze strutturate” tra il settore produttivo e riproduttivo.

Il ruolo delle politiche sociali

La famiglia nucleare della società industriale era basata su un modello prevalente di tipo male breadwinner e sulla gratuità del lavoro di cura femminile.

Questa divisione funzionale era comune a tutti gli stati moderni, ma l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro ha determinato una trasformazione verso una tipologia sempre più diffusa di dual-earner, a cui sono seguiti differenti sistemi di welfare, a seconda delle funzioni e responsabilità attribuite alla famiglia. Se da una parte alcuni Paesi hanno sostenuto con interventi adeguati l’inserimento lavorativo delle donne, altri hanno tardato l’assunzione delle direttive europee, applicando solo di recente la normativa e individuando strumenti di politica sociale non del tutto idonei a corrispondere ai mutamenti in atto.

Ne deriva che le modalità della partecipazione femminile al mercato del lavoro sono tuttora fortemente correlate alla condivisione del ruolo di cura, alla presenza delle reti di solidarietà intergenerazionale e ai servizi che, a seconda della loro presenza o meno, hanno conseguenze sulla vita delle donne in termini di pari opportunità o di riproduzione delle diseguaglianze sociali.

Tale convinzione è stata assunta dalle numerose direttive dell’Unione Europea emanate in questo settore e il tema delle discriminazioni di genere, dell’aumento dell’occupazione femminile e della conciliazione dei tempi di vita sono diventati obiettivi fondamentali sui quali basare l’agenda politica comunitaria, utilizzando il gender mainstreaming e l’empowerment trasversalmente in tutti i settori di intervento e nei diversi contesti nazionali.

Nel nostro Paese, per quanto riguarda tale ambito legislativo, si può più spesso parlare di dichiarazione di principi più che di effettività, da cui deriva un riconoscimento formale e non sostanziale dei diritti e una cittadinanza ancora incompiuta, che dimostrano come le barriere invisibili agiscano concretamente sugli svantaggi lavorativi e anche sulla partecipazione politica e sociale.

Il fenomeno è molto meno presente, e i dati statistici lo dimostrano, in quei Paesi dove il sistema di protezione sociale ha da tempo sviluppato strumenti di sostegno all’occupazione femminile e alle pari opportunità. L’analisi comparativa suggerisce, dunque, che è l’insieme di molti fattori a svolgere una funzione essenziale nel promuovere o inibire una diversa posizione delle donne nella sfera pubblica e a produrre nuove dinamiche sociali, in grado di incrementare la quantità e migliorare la qualità della partecipazione femminile.

Gli studi di genere hanno dimostrato che l’assunzione di responsabilità familiari è la principale artefice di riproduzione delle asimmetrie; infatti, considerando la somma dei capitali culturali, economici e sociali come variabile dipendente che subisce nel corso della vita familiare un processo di valorizzazione/svalorizzazione, sono le donne a cedere quasi sempre una parte del loro valore iniziale.

Si può quindi brevemente concludere che a fronte delle difficoltà delle donne di comporre la propria vita, le strutture e i servizi possono rappresentare un’importante risorsa nella gestione del tempo familiare e professionale, assieme a politiche del lavoro flessibili e cambiamenti nella cultura organizzativa.

L’istruzione

Se guardiamo alle importanti trasformazioni avvenute in ambito scolastico dai primi anni del Novecento a oggi non si può non prendere atto del superamento di molte restrizioni che condizionavano l’accesso all’istruzione. Nonostante la resistenza di alcuni pregiudizi sulle capacità femminili - in quanto le differenze, in un contesto di “dominio maschile”, sono state lette anche come inferiorità nelle capacità mentali e nel loro funzionamento (fra cui le presunte difficoltà che incontrano le donne nelle materie scientifiche) - molte discipline hanno registrato una consistente femminilizzazione. Infatti, per quanto riguarda le scelte formative, pur essendo presenti tuttora differenze tra i due generi, i dati dimostrano che sono ormai pochi i corsi di studio che hanno una bassa percentuale di presenze femminili, mentre molte facoltà registrano iscrizioni numericamente più elevate rispetto ai colleghi maschi (per una conferma, rimando al box con i dati sugli studenti).

Ma la crescita della scolarità femminile non ha eliminato i condizionamenti e le restrizioni a cui sono ancora soggette le donne e il vantaggio formativo non si è trasformato in possibili chance per migliorare la qualità dell’inserimento professionale. Nonostante gli alti rendimenti scolastici, in quanto le studentesse conseguono prima il titolo di studio e con votazioni migliori, indagini sull’inserimento lavorativo dei laureati/e dimostrano che, in percentuali più alte rispetto agli uomini, le donne iniziano la loro carriera da mansioni meno qualificate e hanno minori possibilità di utilizzare adeguatamente la loro preparazione.

Nell’Università di Pisa, pur essendo la componente femminile maggiormente presente nei dottorati di ricerca, anche in quelli scientifici, il numero di donne inizia a diminuire tra i collaboratori di ricerca e i docenti a contratto (Cfr. Tabella 1 e Tabella 2).

Tabella 1: Universitā di Pisa: personale docente a contratto titolare di insegnamenti ufficiali e attivitā didattiche
nostra elaborazione da fonte banca dati MIUR

grafico: Personale docente a contratto titolare di insegnamenti ufficiali e attivitā didattiche UNIPI

Tabella 2: Universitā di Pisa: collaboratori di ricerca per tipologia di collaborazione al 31 dicembre 2003
nostra elaborazione da fonte banca dati MIUR, personale a contratto

grafico: Collaboratori di ricerca per tipologia di collaborazione al 31 dicembre 2003

Infatti, iniziano già da qui le prime asimmetrie nelle carriere accademiche da cui derivano tensioni tra le aspirazioni e i desideri di autorealizzazione e le effettive possibilità di concretizzarli.

Ma quali sono gli ostacoli che determinano il noto soffitto di cristallo? Fra i più rilevanti, come abbiamo sottolineato, è sicuramente la struttura della famiglia che continua ad avere, di fatto, un peso ideologico e pratico diverso sugli uomini e sulle donne, pur se si svolge lo stesso mestiere, e costituisce un ambito di resistenza che influenza ancora in maniera consistente le scelte di vita femminili.

Come ampiamente dimostrano i dati statistici, sono i tempi delle donne più eterogenei e flessibili a determinare un’auto-progettualità nell’organizzazione e ripartizione del lavoro, di cura e professionale, rispetto a biografie maschili più proiettate sulla carriera.

Ne deriva un forte divario tra la dinamicità dell’esperienza e delle competenze acquisite dalle donne e l’assunzione d’importanza e consistenza di questa presenza, sia in termini quantitativi che qualitativi, soprattutto quando si prendono in esame settori professionali che richiedono investimenti di tempo, energie e risorse per poter raggiungere i ruoli apicali.

Il monitoraggio delle carriere

L’analisi della presenza femminile, nei vari ambiti del mercato del lavoro, si deve anche confrontare con una produzione statistica ancora limitata, soprattutto se si vogliono approfondire dati inerenti ai percorsi lavorativi e alle modalità di accesso alla dirigenza. Questa scarsità di elementi conoscitivi riguarda vari settori e le ricerche qualitative sono ancora poco presenti nella letteratura di settore, e soprattutto mancano di continuità, per poter fare una valutazione maggiormente interpretativa dell’incidenza delle molteplici variabili che agiscono, come svantaggi di genere, sulle carriere.

In particolare, in ambito accademico, sono deficitarie e molte volte inesistenti le rilevazioni che consentano una produzione di dati per attuare studi comparativi tra i diversi Paesi. Molto spesso la produzione statistica non tiene conto della dimensione di genere, facendo così aumentare le difficoltà di comparare le carriere. Oppure anche se il dato viene disaggregato, come avviene nel caso italiano con la banca dati del Miur, si costruiscono data base che non facilitano l’estrazione di altri elementi significativi, quali per esempio la media di permanenza dei ruoli per genere, o ancora le modalità dei passaggi ai diversi ruoli della carriera accademica.

Implementare questo settore di indagine, attraverso una costante rilevazione, può essere invece un elemento importante per conoscere il fenomeno e individuare azioni positive per superare le discriminazioni ancora presenti.

È in questa direzione che il Comitato pari opportunità si è impegnato a far sì che l’obiettivo venga raggiunto nella nostra Università e a diffonderlo presso gli altri atenei come prassi comune da realizzare a sostegno delle pari opportunità.

I ruoli femminili nell’università

I dati di una ricerca del Miur, L’Università in cifre 2005, evidenziano come a livello nazionale la situazione accademica italiana si caratterizza per una scarsa presenza femminile, un alto tasso di invecchiamento, un aumento della precarizzazione dei docenti e del personale tecnicoamministrativo e un più basso rapporto studenti/docenti pari a 22,3%, rispetto a una media dell’Unione Europea del 16,4%. Infatti, i docenti di ruolo, circa 58.000 nel 2003/2004, sono aumentati negli ultimi dieci anni di circa il 14%.

Questo aumento, sebbene differenziato (+25,6% per gli ordinari, +6,6% per gli associati e +12,7% per i ricercatori), non ha modificato sostanzialmente la composizione per fascia. I docenti restano equidistribuiti nei tre livelli con una leggera prevalenza dei ricercatori (37%) rispetto agli altri (31% per associati e ordinari).

Se da una parte si registra una contrazione del corpo docente negli ultimi due anni (–1,9%), dall’altra si ha, invece, un aumento sostenuto dei docenti a contratto, che dal 1994/1995 al 2002/2003 sono passati dall’11,4% a ben il 32,6% del totale.

Nell’università le donne costituiscono ancora una minoranza, con una presenza complessiva pari al 31%. La loro quota si riduce man mano che si passa dal ruolo di ricercatore (42,9%) a quello di associato (31,1%) e di ordinario (15,9%). Dieci anni prima le docenti ordinarie erano il 10,1%, le associate il 25,4% e le ricercatrici il 39,7%. Queste percentuali non sono distribuite nelle stesse proporzioni per facoltà; infatti la presenza femminile è maggiore nei settori disciplinari umanistici e minore in quelli a indirizzo scientifico, mentre tra gli studenti si registra, con gli anni ‘90, il sorpasso a livello quantitativo della presenza femminile e un miglior rendimento scolastico.

“I dati dimostrano, dunque, che in ambito accademico le donne rappresentano una minoranza concentrata al livello più basso della carriera e che gran parte delle ricercatrici - ormai oltre l’età della vera competizione professionale - è destinata a permanere in tale fascia fino all’uscita dai ruoli” (Istat 2001; p.98). Tali disparità non sono motivate né da un minore impegno professionale nelle docenze, né da una più bassa produttività scientifica, ma da elementi “dicrezionali”: “infatti sia in termini di percentuale di docenti attivi, sia per numero di pubblicazioni, le donne presentano una produttività di poco inferiore a quella maschile, sia come ricercatori che come associati. È stata riscontrata, al contrario, una forte disparità tra i sessi nella partecipazione a quei circoli che favoriscono visibilità e successo nella carriera di docente” (Istat, Donne all’università, Bologna, Il Mulino, 2001).

foto di studentessa in bicicletta

 

Nel confronto con altri Paesi europei, la quota di donne docenti che si registra in Italia supera solo quella della Germania, dove la percentuale femminile è minima (circa il 25%), mentre risulta inferiore a quella degli altri Paesi. Alla Finlandia, in particolare, spetta il valore massimo con il 46% di donne tra i docenti universitari, segue la Spagna con il 35,9% e la Francia con il 34,3%. Inoltre i nostri docenti di ruolo sono più anziani rispetto agli altri Paesi e anche i ricercatori sono immessi in ruolo a un’età piuttosto elevata rispetto alla media europea, trend che ha registrato il massimo di 44 anni nel 2002 e ora è sceso a 39 anni.

Le differenze aumentano se si prendono in considerazione gli ambiti disciplinari, in quanto la presenza femminile è più accentuata nelle facoltà letterarie ed è più bassa in ambito ingegneristico, e tali disparità si accentuano ai livelli più alti di carriera. Interessanti sono i dati sul reclutamento: le donne hanno più opportunità proprio in quei settori dove sono meno presenti, poiché accedono meno facilmente “alla carriera universitaria quando questa rappresenta lo sbocco professionale più prestigioso di un determinato campo di studi, mentre le loro possibilità accademiche aumentano quando l’eventuale docenza entra in competizione con una professione esterna appetibile e remunerativa” (Istat 2001).

È indubbio quindi un minor successo complessivo sia nell’accesso che nella progressione della carriera, oltre ad un tempo di permanenza più lungo nello stesso ruolo.

Il volto dell’Università di Pisa

La Tabella 3 illustra la situazione negli anni comparativamente con la media nazionale. Le percentuali evidenziano un miglioramento delle differenze tra l’Università di Pisa e il contesto nazionale.

Tabella 3: Percentuale femminile di personale a contratto negli anni 1997/2004
nostra elaborazione, fonte da banca dati MIUR
%
femminile
Ordinari
UNIPI
Ordinari
media italiana
Associati
UNIPI
Associati
media italiana
Ricercatori
UNIPI
Ricercatori
media italiana
1997 7.81% 11.38% 21.04% 26.08% 38.06% 39.55%
1998 7.88% 11.38% 21.08% 26.08% 37.94% 39.54%
1999 7.96% 11.59% 21.55% 26.35% 40.84% 41.33%
2000 9.93% 13.32% 24.23% 27.70% 40.90% 41.63%
2001 11.06% 14.62% 26.84% 29.79% 42.41% 42.72%
2002 12.48% 15.62% 28.69% 30.76% 42.76% 43.40%
2003 13.14% 15.96% 29.05% 31.17% 42.79% 43.43%
2004 13.64% 16.38% 29.24% 31.39% 42.22% 43.79%

Il confronto tra i valori percentuali consente di estrarre l’indice di crescita della presenza femminile nell’Ateneo pisano, che evidenzia una più marcata crescita in riferimento ai professori ordinari (per i quali il gap con gli atenei italiani è maggiore) e infatti l’indice per il nostro Ateneo risulta di 1,74 contro l’1,43 nazionale; una maggiore crescita, anche se con un distacco incrementale minore, in riferimento ai professori associati (l’indice dell’Università di Pisa risulta di 1,38 contro l’1,20 nazionale); un indice di crescita riferito ai ricercatori pressoché identico, circa l’1,10, anche se è da sottolineare come in tale categoria la forbice sia decisamente più ridotta.

Inoltre, se si vuole approfondire l’analisi, si incontrano consistenti difficoltà a reperire dati in riferimento all’età media di ingresso e di uscita dai ruoli, dati che non consentono di scorporare l’ingresso di nuove leve nei diversi livelli dal fenomeno della permanenza allungata all’interno degli stessi. Attualmente possiamo sapere l’età media dei docenti che è così divisa tra le diverse fasce e per genere: ricercatrici 46 anni e ricercatori 45,2, professori associati (donne 47,5; uomini 46,2), professori ordinari (donne 57,6; uomini 59,7).

I dati aggiornati al 2006, presentati nella Tabella 4, non sono modificati significativamente. Tra i ricercatori le nuove entrate sono ancora a favore degli uomini (con il 58,84% contro il 41,16% delle donne), anche se il numero complessivo non è molto inferiore rispetto all’altro sesso.

Tabella 4: Universitā di Pisa: dati aggiornati a marzo 2006
nostra elaborazione su dati CSA-Università di Pisa

grafico: dati aggiornati a marzo 2006

Questo non significa che in passato l’ingresso sia stato più massiccio in tale ruolo ma, al contrario, che le donne rimangono più a lungo degli uomini nei livelli inferiori della carriera e che anzi, alcune di loro restano nella fascia d’ingresso per tutta la loro vita professionale. (Istat 2001).

Ancora più interessanti sono le percentuali distribuite per facoltà e sintetizzate nella Tabella 5. La tabella descrive la presenza del “soffitto di cristallo”, che ostacola l’ascesa delle donne nelle posizioni apicali. Il numero più consistente si rileva nella facoltà di Lingue e letterature straniere dove la posizione apicale di professore ordinario è ricoperta da donne per il 44,12% dei casi; la presenza più bassa nella facoltà di Scienze politiche (4,17%). In merito si evidenzia come i dati nazionali vedano una più marcata presenza femminile nelle facoltà di Scienze politiche. Nel ruolo di associato registriamo il “sorpasso”, in termini di presenza femminile, nelle facoltà di Farmacia, Lettere e filosofia, Lingue e letterature straniere. Il numero di ricercatori donna supera i colleghi uomini in cinque facoltà: Giurisprudenza, Lettere e filosofia, Lingue e letterature straniere, Medicina veterinaria.

Tabella 5: Personale a contratto nelle facoltà
nostra elaborazione, fonte da banca dati MIUR
Ruolo / Facoltà Ordinari
M
Ordinari
F
Associati
M
Associati
F
Ricercatori
M
Ricercatori
F
Agraria 93.33% 6.67% 79.17% 20.83% 65.71% 39.29%
Economia 75.61% 24.39% 60.00% 40.00% 58.33% 41.67%
Farmacia 71.43% 28.57% 38.89% 61.11% 77.27% 22.73%
Giurisprudenza 94.29% 5.71% 62.50% 37.50% 31.58% 68.42%
Ingegneria 94.40% 5.60% 90.83% 9.17% 88.89% 11.11%
Lettere e Filosofia 72.22% 27.78% 48.75% 51.25% 42.42% 57.58%
Lingue e lett.straniere 55.88% 42.12% 41.38% 58.62% 38.10% 61.90%
Medicina e Chirurgia 91.67% 8.33% 76.92% 23.08% 53.15% 46.85%
Medicina Veterinaria 76.00% 24.00% 59.38% 40.63% 44.74% 55.26%
Scienze mat.-fis. e nat. 88.72% 11.28% 68.99% 31.01% 66.42% 33.58%
Scienze politiche 95.83% 4.17% 85.71% 14.29% 53.33% 46.67%

La situazione nel nostro Ateneo relativamente alla presenza femminile distribuita per le diverse facoltà, risulta sovrapponibile a quella nazionale, con l’eccezione della facoltà di Scienze politiche, nella quale si registra il dato più basso in riferimento alla presenza femminile in posizione apicale (professore ordinario), mentre a livello nazionale tale primato è detenuto dalla facoltà di Ingegneria (4,68% di professori ordinari donna, dato rilevato al 2004 dalla banca dati Miur).

Anche per il personale tecnico-amministrativo, come dimostra la Tabella 6, la forbice presente fra i dirigenti è consistente ed è ancora più allargata se teniamo conto che nei ruoli più bassi è invece significativamente maggiore la presenza femminile.

Tabella 6: Personale tecnico-amministrativo per ruolo e sesso al 31 dicembre 2005
nostra elaborazione su dati CSA-Università di Pisa
Personale
amministrativo
Uomini
v.a.
Donne
v.a.
Totale Percentuale
femminile
Direttore amministrativo 1 0 1 0.00%
Dirigente II fascia a t.det. 5 2 7 28.57%
Totale dirigenti (compreso D.A.) 6 2 8 25.00%
Ex ispettore generale R.E. 1 0 1 0.00%
Ex direttore divisione R.E. 0 1 1 100.00%
Totale ruolo ad esaurimento 1 1 2 50.00%
Esperti in comunicazione 1 2 3 66.67%
Personale tecnico-amm.vo a t.indeterminato 683 895 1578 56.72%
Personale tecnico-amm.vo a t.determinato 45 141 186 75.81%
Operai agricoli 23 21 44 47.73%

Se poi consideriamo il personale tecnico amministrativo assunto con un contratto a tempo determinato (di cui non si conosce la durata), che costituisce il 20% del totale, scopriamo che le donne sono circa tre volte più numerose degli uomini (distanza che si riduce per quanto riguarda i contratti a tempo indeterminato). I dati evidenziano inoltre una più elevata scolarizzazione delle donne titolari di un contratto a tempo determinato rispetto ai colleghi uomini (le donne laureate sono il 16%, mentre gli uomini sono il 5,6% del totale) e nonostante ciò le donne si concentrano nella categoria C1 (circa il 40% della presenza femminile nel personale tecnico-amministrativo a tempo determinato, contro il 16% degli uomini).

Le difficoltà nella carriera si riflettono anche sulla presenza nei luoghi decisionali e contribuiscono ad aumentare la loro “invisibilità”. Le diverse cariche istituzionali sono ricoperte in larghissima percentuale da uomini aumentando la segregazione verticale.

Gli organi di governo elettivi evidenziano ancora una volta la scarsa presenza femminile sia in Senato accademico con l’11,11% che in Consiglio di amministrazione con il 7,69%.

Fa eccezione la Giunta di governo che ha una percentuale elevata di prorettrici donna attualmente in carica, il 36,36%, un dato significativamente rilevante per la nostra Università e da cui deriva l’impulso dato agli studi di genere e alle pari opportunità che ha contraddistinto positivamente l’attuale rettorato.

Questi primi dati anche se significativi mancano ancora di approfondimenti importanti per migliorare le conoscenze sulle modalità e le dinamiche delle carriere, ma anche per intervenire su pregiudizi alimentati da luoghi comuni come ad esempio la minor produttività femminile a causa degli impegni familiari, sia per quanto riguarda la ricerca che la produzione scientifica.

Una ricerca Istat (2001) sottolinea che l’investimento professionale delle donne, nell’attività didattica e di ricerca, non si discosta da quello dei colleghi maschi; al contrario le docenti si concentrano soprattutto sul lavoro all’interno dell’università, mentre gli uomini svolgono maggiori attività amministrative e di consulenza.

Inoltre, sembra che le donne non riescano a far apprezzare adeguatamente i risultati del proprio lavoro: per questo è importante essere inserite in una rete relazionale, saper sostenere la propria attività presentandola a seminari e a convegni, partecipare ai comitati scientifici. Per consolidare i rapporti professionali bisogna sviluppare queste reti informali che giocano un ruolo rilevante nel mantenere ben salda la struttura di potere a tutti i livelli della partecipazione pubblica. Quando la carriera si basa sulle “strategie di cooptazione”, la discriminazione si perpetua di più, in quanto si privilegiano le scelte al maschile perché si conoscono meglio “le regole del gioco” e quindi si provocano meno tensioni in un sistema di norme che tollera male intrusioni nelle posizioni decisionali.

Come può risultare dalle problematiche fin qui evidenziate, il consistente aumento dell’occupazione femminile fa ancora i conti con i riconoscimenti economici e le opportunità di crescita professionale, anche se le donne sono sempre più occupate rispetto al passato in attività prima considerate di pertinenza esclusivamente maschile.

Indubbiamente permangono numerose criticità e sebbene la nostra analisi sottolinei le asimmetrie più evidenti, sono necessari ulteriori approfondimenti per conoscere meglio le cause della permanenza delle barriere, più o meno visibili, che ostacolano le carriere femminili e la partecipazione politica e sociale. È difficile quando si declina il problema delle pari opportunità evitare che questo sia oggetto solo di rivendicazioni anche se non c’è alcun dubbio sulla persistenza di squilibri legati al genere che devono essere superati attraverso l’individuazione di una serie di misure e azioni positive volte ad eliminare le attuali diseguaglianze presenti nell’accademia italiana, ma più in generale nella sfera produttiva e riproduttiva, in ambito pubblico e privato.

Rita Biancheri
presidente del Comitato pari opportunità
biancheri@dss.unipi.it