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«Oltre le marce delle donne. Il femminismo alla prova dei regimi autoritari»

Una riflessione di Lucia Sorbera in occasione del VII congresso della Società Italiana delle Storiche e della mostra "Sidewalk Stories"

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Mercoledì 1° febbraio, alle ore 17.00, presso Palazzo Vitelli, nell'ambito del VII congresso della Società Italiana delle Storiche, sarà inaugurata "Sidewalk Stories. Donne negli spazi pubblici del Cairo", una mostra sulla condizione femminile in Egitto. Nell’occasione saranno presenti l'artista egiziana Sarah Seliman e Maria Neubert, curatrice della mostra. Inoltre parteciperanno Laura Savelli, docente dell'Università di Pisa e presidente del Comitato Unico di Garanzia d’Ateneo, Serena Tolino, studiosa di storia di genere nell’Islam all'Università di Amburgo, e Lucia Sorbera, storica del femminismo egiziano all'Università di Sidney. Quest’ultima, in un articolo pubblicato su minima&moralia, propone una riflessione sul femminismo egiziano, presentando la mostra Sidewalk Stories come un esempio di "intreccio tra creatività artistica e attivismo femminista transazionale che abbiamo visto fiorire in Egitto negli ultimi sei anni”.

A riconoscimento dell’alto valore istituzionale, culturale e sociale dell’evento, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha destinato al VII Congresso della Società Italiana delle Storiche la sua medaglia di rappresentanza.

Qui di seguito pubblichiamo per intero l’articolo a firma di Lucia Sorbera.

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Oltre le marce delle donne. Il femminismo alla prova dei regimi autoritari

Alla Marcia delle donne che si è tenuta a Washington il giorno successivo alla cerimonia d’insediamento di Donald Trump la studiosa e attivista Angela Davis ha lanciato un appassionato invito alla resistenza contro la supremazia del patriarcato bianco. Una resistenza che, ammonisce Davis: “Dovrà avvenire quotidianamente nei prossimi 1459 giorni, sul terreno, nelle aule scolastiche, nei luoghi di lavoro, nella nostra arte e nella nostra musica” (enfasi aggiunta da chi scrive).

Il nesso tra espressione artistica e resistenza civile non è nuovo alle femministe egiziane. Se la rivoluzione del 2011 ha aperto una rinnovata stagione di attivismo femminista, già negli anni Novanta del secolo scorso la scrittrice Nawal al-Saadawi analizzava la lunga tradizione delle culture del dissenso, e dedicava un saggio proprio al tema Dissidenza e Creatività (1995), in cui sottolineava la necessità di contestualizzare nel tempo e nello spazio le tecniche di oppressione e sfruttamento, enfatizzava il bisogno di demistificare le parole chiave del Ventesimo secolo, come pace, democrazia, diritti umani, privatizzazione, globalizzazione, società civile, fondamentalismo religioso e postmodernità, e concludeva che la creatività è intrinsecamente dissidente.

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La mostra Sidewalk Stories, che si inaugura presso il Rettorato dell’Università di Pisa mercoledì 1 febbraio 2017, alla presenza dell’artista egiziana Sarah Seliman e di una delle curatrici, la studiosa tedesca Maria Neubert, è solo uno dei tanti esempi di intreccio tra creatività artistica e attivismo femminista transazionale che abbiamo visto fiorire in Egitto negli ultimi sei anni. La Società Italiana delle Storiche, che ha incluso la mostra nel programma del suo Settimo Congresso, conferma la sua vocazione pionieristica, cogliendo la portata e l’importanza dei movimenti femministi internazionali e offrendo uno spazio unico, nel panorama culturale italiano, in cui la storia del femminismo, scritta tenendo conto dell’intreccio tra variabili geopolitiche e culturali, si declina al plurale. Puntando i riflettori su una delle realtà del mondo arabo che oggi si presenta carica di problemi e contraddizioni, l’Egitto contro-rivoluzionario in cui i movimenti delle donne e per i diritti umani mostrano una resilienza sorprendente, la mostra Sidewalk Stories conferma la lezione di Joan Scott, che il genere è un’utile categoria storiografica per analizzare le relazioni di potere.

Nell’avvicinarsi alla mostra Sidewalk Stories è fondamentale, a nostro avviso, distinguere i temi universali, da quelli propri all’ambiente egiziano.

L’universalismo attiene alla violenza, che non conosce confini nazionali, e alle pratiche del femminismo che sono storicamente sedimentate e che fin dai tempi della rivoluzione francese non sono mai state facili in nessuna parte del mondo. Lo sapeva bene la giornalista rivoluzionaria francese Hubertine Auclert (1848-1914), la prima che usò il termine féministe con riferimento a se stessa, spogliandolo della funzione derogatoria che esso aveva tra i suoi contemporanei. Tuttavia, nell’Egitto del generale al Sisi siamo di fronte a nuove forme di repressione del femminismo indipendente, con aspetti inediti di sfacciata violenza.

L’Egitto della cosiddetta “età liberale” (1923-1952) ci aveva abituate all’asimmetria dei diritti tra uomini e donne e all’esclusione – formale – delle donne dalle funzioni politiche istituzionali, salvo permettere ad alcune componenti dell’intellighenzia femminile di intervenire nel dibattito culturale e di agire nella politica attraverso meccanismi di lobby. I primi regimi repubblicani (1952-2011) ci avevano insegnato che si poteva essere parte delle istituzioni solo se si accettavano meccanismi di cooptazione e si mediava tra il desiderio di sviluppare un’agenda femminista indipendente e dialogare con le istituzioni. Perfino il regime di Hosni Mubarak (1981-2011), noto per le violazioni dei diritti umani, gli arresti arbitrari e la repressione di molte organizzazioni di donne, aveva un’agenda politica che le studiose egiziane hanno poi definito “pseudo-femminista” (S. Abulnagha, 2015) e che, tra mille problemi, non ultimo l’adozione di un’agenda economica neo-liberista, che ha avuto conseguenze molto negative per le donne delle classi medie e lavoratrici, qualche spazio d’indipendenza lo lasciava.

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Dopo la breve parentesi rivoluzionaria, descritta da molte attiviste nel segno dell’utopia, la controrivoluzione è stata caratterizzata dalla repressione della società civile, incluse le associazioni femministe. A centinaia di ONG e centri culturali è stata imposta la chiusura, e i beni dell’organizzazione che oggi è il punto di riferimento delle femministe egiziane, Nazra for Feminist Studies, sono stati congelati. Sulla Presidente di Nazra, Mozn Hassan, e sulla Presidente di Egyptian Center for Women’s Rights, Azza Soliman, da anni impegnate in programmi contro la violenza di genere, per la partecipazione delle donne alla politica e per la riforma del diritto di famiglia, pendono accuse che potrebbero essere punite con pene gravissime e, in attesa dell’emissione del giudizio, i loro conti correnti e passaporti sono stati bloccati.

Essere femminista in Egitto oggi è assumere una posizione radicale di dissidenza contro il regime che ha rapito, torturato e ucciso il nostro collega e concittadino Giulio Regeni, un regime che ricorda l’America Latina degli anni Ottanta, che ogni giorno fa sparire giovani egiziani in odore di dissidenza nell’impotenza delle loro famiglie, e che intimidisce intellettuali egiziani e stranieri che si pongono in maniera critica.

Affrontare i temi dell’integrità del corpo e del diritto alla presenza nello spazio pubblico, che fanno parte integrante della storia femminista, significa contribuire all’opera di liberazione dell’Egitto -e del resto del mondo- da quel patriarcato cui fa riferimento Angela Davis nel suo discorso alla Marcia di Washington, ed è un lavoro necessario e urgente per tutte noi. Ma non dobbiamo ignorare che le artiste e intellettuali femministe egiziane contribuiscono a quest’ impresa da anni. Gli esempi sono molti. Basti pensare alle opere della storica dell’arte Baheya Shehab, una delle quali, nel 2012, porta il titolo eloquente di “100 Volte No”, ai lavori dell’artista Huda Lutfi, in cui la storica Margot Badran ha letto una critica femminista del “patriarcato in uniforme” (Badran, 2014), o alle esperienze di teatro di narrazione che sono fiorite tra il 2011 e oggi. Tutte portano al centro i corpi e la sessualità come esperienze di dissidenza e resistenza all’autoritarismo.

Questo è il dibattito in cui s’inserisce la mostra Sidewalk Stories, una mostra importante, che porta al centro della discussione internazionale le strategie di resistenza delle donne alla violenza sessuale nello spazio pubblico. Un tema di rilevanza transnazionale che, in Egitto, ha una sua specificità, perché, fin dall’epoca coloniale, è legato alla violenza politica.

Era il 1919 quando le donne occuparono le strade in protesta contro l’occupazione Britannica. Furono picchiate, arrestate e stuprate con la stessa violenza usata più di un secolo dopo contro le loro pronipoti. Cambiava il colore delle uniformi ma, come ha narrato la drammaturga Leila Soleiman in un dramma teatrale di grande valore artistico e storico (Whings of Freedom, 2014) e in cui il 1919 e il 2011 sono narrati dalla prospettiva delle manifestanti, la brutalità era la stessa.

La mostra è esito di un workshop ideato e realizzato al Cairo da tre studenti dell’Università di Marburgo nel Maggio 2015, al quale hanno partecipato 25 donne dall’Egitto, dal Brazile, dalla Germania, Polonia e Stati Uniti d’America, per discutere come le società costruiscono le identità di genere, e scambiarsi esperienze e strategie nella sfera pubblica. Sidewalk Stories, curata da Maria Neubert, Anne Theresa Bachmann e dalla fotografa Sarah Seliman, una delle partecipanti, già autrice di altre istallazioni su temi femministi nel 2009, un tempo che oggi si definisce pre-rivoluzionario e in cui, chi frequentava regolarmente l’Egitto, sentiva che un profondo cambiamento culturale era nell’aria. Dalla sua prima inaugurazione al Cairo nel 2015 ad oggi, Sidewalk Stories ha conseguito successo internazionale e il Comitato Scientifico del Settimo Congresso SIS l’ha scelta perché ne ha riconosciuto, oltre all’intrinseco valore artistico, il merito politico di spostare l’attenzione dal tema della violenza contro le donne alle strategie attivate dalle donne stesse per combatterla. In Sidewalk Stories le donne sono agenti della storia, non vittime passive.

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In questo modo, la mostra s’iscrive perfettamente nel percorso intellettuale, artistico e politico del femminismo egiziano, sin dalle sue origini all’inizio del XX secolo impegnato su più fronti: da un lato, la lotta contro la violenza delle autorità indigene che, come si apprende dagli studi pionieristici della storica Margot Badran, è trasversale alle affiliazioni politiche e religiose; dall’altro, quella del sistema delle relazioni internazionali, in cui le donne hanno pagato un caro prezzo per la posizione occupata dal loro paese. Non ultima, la lotta contro la violenza epistemologica che, ancora oggi, è esercitata dai media e dagli intellettuali occidentali – incluse molte femministe – che, ignorando i percorsi di attivismo e resistenza delle donne egiziane, riducono la loro immagine a vittime passive di sistemi culturali definiti arretrati e intrinsecamente misogini.

Sidewalk Stories, che non solo nel titolo rende omaggio al celeberrimo film di Charles Lane (1989), ma ne eredita la forza del racconto sociale attraverso immagini che restituiscono la voce agli attori dimenticati dalle narrazioni che pongono al centro le istituzioni, illustra una storia molto più complessa, e lo fa con immagini e parole che possono essere fruite anche da un pubblico ampio, non necessariamente informato sulle vicende della storia politica egiziana.

Mercoledì 1 febbraio, l’inaugurazione della mostra sarà un’occasione per discutere le origini, il presente e le prospettive del femminismo egiziano e transnazionale, e per situare le marce delle donne in una cornice di senso che includa quello che è venuto prima, quello che avviene altrove, e una serie di azioni quotidiane per costruire il futuro. Interverranno, oltre alle ospiti del CUG Maria Neubert e Sarah Seliman, la Professoressa Laura Savelli, docente di storia contemporanea presso l’Università di Pisa e Presidente del CUG di Pisa, la storica di storia e istituzioni dell’Islam Serena Tolino (Università di Amburgo) e chi scrive.
Lucia Sorbera

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  • 31 gennaio 2017

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