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«Una Costituzione migliore?»

In vista del referendum di autunno, il volume di Emanuele Rossi illustra contenuti e limiti della riforma costituzionale

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Da più di trent’anni il tema delle riforme della Costituzione è all’attenzione del dibattito pubblico. Commissioni bicamerali, comitati governativi, gruppi di lavoro hanno cercato di definire soluzioni diverse per il funzionamento delle nostre istituzioni repubblicane. Fino ad oggi, l’unico risultato prodotto è la riforma del Titolo V della Costituzione, approvata nel 2001. Ora, il Parlamento è giunto ad un passo da una riforma che, con ogni probabilità, sarà sottoposta a referendum popolare: con essa si intende superare il bicameralismo paritario, si ridefiniscono i rapporti tra Stato e Regioni, si aboliscono il CNEL e le Province, si interviene su altri aspetti non del tutto marginali del testo costituzionale. Una riforma piuttosto ampia (ben 45 articoli della Costituzione su 139 verrebbero modificati, un terzo), che ha suscitato reazioni contrastanti, sia nell’opinione pubblica che nel mondo scientifico di riferimento.

Il volume “Una Costituzione migliore? Contenuti e limiti della riforma costituzionale” (Pisa University Press, 2016) di Emanuele Rossi, docente di Diritto costituzionale alla Scuola Superiore Sant’Anna, cerca di spiegare, con un linguaggio semplice ma rigoroso, i contenuti della riforma, analizzandone i punti di forza e di debolezza, le scelte opportune e gli errori commessi. Il suo obiettivo è di aiutare a decidere, in un senso o nell’altro, quando si andrà a votare per il referendum nell’autunno 2016.

Pubblichiamo qui di seguito la considerazione conclusiva del libro, che il 7 giugno è stato presentato a Palazzo Montecitorio, con interventi del ministro Maria Elena Boschi, Luciano Violante, Massimo Luciani, Paolo Fontanelli. Moderava l’incontro il giornalista Bruno Manfellotto.

Guarda il video della presentazione alla Camera.

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Cover volume RossiCome nel caso delle precedenti riforme, anche la presente è stata ed è oggetto di valutazioni contrastanti, sia in ambito politico (ma questo è del tutto scontato, considerati i criteri che muovono tale valutazioni) come anche, però, in ambito costituzionalistico (in merito alle posizioni espresse in ambito giuridico e costituzionale v. Plutino, 2014: 135 ss.). Tralascio le prime, mentre dico due parole sulle seconde.

Le tesi più estreme indicano i rischi della riforma in atto da un lato sul versante dell’assetto complessivo della Costituzione, ritenendo che con la riforma si produrrebbe una “devastazione costituzionale” (Ferrara, 2015). D’altro canto, si sottolineano i rischi sull’assetto dei poteri: secondo l’appello redatto da Gustavo Zagrebelsky e sottoscritto da altri autorevoli costituzionalisti, e veicolato da Libertà e giustizia, “le riforme in campo sono tutte orientate all’umiliazione del Parlamento, nella sua prima funzione, la funzione rappresentativa”, in quanto “la cancellazione della elezione diretta dei senatori, la drastica riduzione dei componenti — lasciando immutato il numero dei deputati — la composizione fondata su persone selezionate per la titolarità di un diverso mandato (e tratta da un ceto politico di cui l’esperienza dimostra la prevalente bassa qualità) colpiscono irrimediabilmente il principio della rappresentanza politica e gli equilibri del sistema istituzionale. Il vero obiettivo della riforma è lo spostamento dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo”. Va precisato che tali posizioni sono sostenute con riguardo al “combinato disposto” riforma costituzionale - legge elettorale Italicum, che produrrebbe, secondo tali autori, gli effetti indicati.

Altri (mi riferisco in particolare al Presidente emerito della Corte costituzionale Ugo de Siervo, in una lettera-appello inviata a tutti i costituzionalisti) esprime una valutazione complessiva assai negativa sul testo di riforma, ma “fondata sul merito di alcune delle maggiori scelte che vengono operate nel testo di revisione costituzionale e non, invece, su valutazioni essenzialmente politiche”. Indicando nel dettaglio le ragioni di tale critica, egli conclude ritenendo che la riforma costituzionale “non risolverebbe molti problemi che dice di voler affrontare e addirittura produrrebbe nuovi gravi danni alle nostre istituzioni democratiche. Alcuni dei contenuti del disegno di legge costituzionale che potrebbero anche essere condivisi non possono minimamente giustificare l’introduzione nella nostra Costituzione di norme e istituzioni inadeguate, inefficaci o indegne di una piena e moderna democrazia”.

rossi emanueleSul versante opposto si possono registrare le posizioni di altri costituzionalisti, che hanno a più riprese sottolineato gli effetti positivi della riforma complessivamente considerata, rilevando che essa, costituendo l’approdo di molti anni di dibattiti riformatori, offre risposte soddisfacenti ai problemi di carattere istituzionale emersi nel corso dell’esperienza repubblicana (l’instabilità politica, i limiti del bicameralismo paritario, il mancato riconoscimento della presenza delle autonomie regionali in Parlamento, e così via); si pone in continuità con le riforme realizzate o tentate nella grandi democrazie a forma di Stato decentrata (Ceccanti, 2015), ed “avvicina l’Italia alle grandi democrazie europee e ci permette di affrontare con strumenti più efficaci l’Europa” (Caravita, 2016). Qualcuno ha addirittura parlato di un “miracolo” (“davvero siamo vicini al miracolo di una riforma del Parlamento”: Fusaro, 2016).

Nel corso dei lavori di discussione ed approvazione parlamentare, notevole è stato il contributo dei costituzionalisti al dibattito sulla riforma; contributo rivolto, come anche in queste pagine si è cercato di dar conto, a segnalare i limiti delle singole soluzioni individuate: e ciò sia nel corso delle molte audizioni parlamentari come anche con numerosi interventi nella varie riviste giuridiche e su organi di informazione. E tuttavia questa massa di interventi non ha contribuito ad una buona qualità dell’articolato finale: ferme restando infatti le “grandi scelte politiche” – sulle quali possono esprimersi posizioni diverse, in relazione all’ottica da cui le si guardi –, sembra infatti evidente che il testo uscito dal Parlamento è, perlomeno da un punto di vista tecnico e quindi di funzionalità del sistema, assai deficitario. Come ben ha sintetizzato un autorevole costituzionalista, se le finalità generali del progetto sono ben giustificate, bisogna anche riconoscere che nel disegno di legge vi sono “scelte viziate da veri e propri errori di sintassi costituzionale” (Cheli, 2014).

costituzione art.1Tale considerazione porta molti a domandarsi (e a domandare ai costituzionalisti) come sia possibile che ciò avvenga, e se non vi siano meccanismi in grado di supportare (ed eventualmente controllare) l’attività di chi è chiamato a scrivere ed approvare le disposizioni costituzionali. Come ho cercato di indicare nel corso dell’esposizione, infatti, vi sono alcuni evidenti errori oggettivi nel testo: come è possibile che (almeno) questi non siano stati evitati?

La risposta a queste domande non è facile, né può essere questa la sede per darvi risposta. Certamente vi è un problema di qualità della classe politica, come anche vi è un problema di funzionalità degli uffici di supporto all’attività legislativa (funzionalità che prescinde dalla qualità, talvolta eccellente, dei singoli funzionari parlamentari). Considerando poi che l’attuale disegno di legge riformatorio è stato predisposto e seguìto da vicino dal Governo, anche durante la discussione parlamentare, si deve parlare altresì di “qualche improvvisazione concettuale ed una notevole inadeguatezza tecnica” da parte dell’esecutivo (De Siervo, 2015b). Ma forse si dovrebbe ragionare di un problema assai più complesso, e cioè della capacità di operare riforme costituzionali così ampie in un contesto politico come quello dato. E, più in generale, ci si dovrebbe interrogare se revisioni costituzionali organiche possano essere realizzate in assenza di un momento costituente vero e proprio, vale a dire in condizioni storiche e sociali a ciò adeguate: detto in altri termini, se riforme come queste possano essere prodotte dal potere costituito e non richiedano invece l’esercizio di potere costituente.

Limitando qui il discorso a piani più modesti, quello che ci si deve augurare, in vista del referendum che con ogni probabilità si andrà a celebrare, è che in relazione ad esso il dibattito si concentri sui contenuti della riforma, e non su questioni politiche legate ad un leader o ad un altro, alla necessità di far vincere uno schieramento politico o all’opportunità di farlo perdere. L’art. 138 della Costituzione richiede che gli elettori si esprimano con un sì o con un no su una legge di riforma della Costituzione: questo, e solo questo, dovrebbe essere l’oggetto della decisione. Che poi questo voto abbia riflessi anche su altro è possibile e forse anche inevitabile, e comunque è sempre avvenuto: ma una cosa è votare sì o no alla riforma se su di essa si è d’accordo o meno; altro è votare sì o no perché si vuol far cadere un governo o si vuole premiare questo o quel leader. La differenza mi pare abbastanza evidente.

La speranza è che queste pagine possano aiutare ciascuno a decidere consapevolmente se la legge di riforma faccia della nostra una Costituzione migliore oppure no. E su tale giudizio esprimere il proprio voto.

Emanuele Rossi

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  • 13 giugno 2016

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