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Szymborska, la gioia di leggere

Il contributo di Anna Maria Carpi nel volume che sarà presentato il 4 maggio a Palazzo Matteucci

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szymborskaleggÈ appena uscito in libreria “Szymborska, la gioia di leggere. Lettori, poeti, critici”, il primo libro dedicato in Italia all'opera della poetessa polacca premio Nobel. Il volume, edito dalla Pisa University Press e curato Donatella Bremer e Giovanna Tomassucci, docenti dell’Università di Pisa, sarà presentato mercoledì 4 maggio alle 17 nell’aula magna di Palazzo Matteucci alla presenza delle curatrici e di Mauro Tulli, Alfonso Berardinelli, Stefano Brugnolo, Fausto Ciompie e Giacomo Cerrai.

Pubblichiamo qui il contributo della professoressa Anna Maria Carpi presente nel volume.


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Sono autrice di prosa e di poesia, studiosa e traduttrice della poesia tedesca e, se nei testi della poetessa polacca riconosco con piacere, tramite il russo, alcune parole, dipendo dalle traduzioni di Pietro Marchesani e dalla sua edizione delle Opere, Adelphi, del 2008. Il Convegno pisano ha proposto a relatori e pubblico quattro domande relative al successo di Wisława in Italia, successo lento, limitato malgrado il Nobel del 1996 e poi promosso da un intervento di Roberto Saviano in TV: in TV, luogo quant’altri mai alieno per la signora polacca nata negli anni Venti (1923). Prima domanda, la più interessante: quali sono in Wisława gli “elementi trascinanti”? Sì, trascinanti perché da chi l’ha letta viene immancabile, carica d’affetto, l’esclamazione: ah, la Szymborska!

Domande: già un suo testo giovanile s’intitola Domande poste a me stessa (1954 [D 19-21]). Perché è domandando senza posa che Wisława si rivolge a quanto la circonda. Da improvvise lontananze e improvvise vicinanze, dall’esperito o dall’immaginato Wisława cerca di capire cosa sono le cose e gli altri esseri viventi, e sa bene di afferrare poco o nulla, ma non se la prende e non si deprime. Perciò amiamo il morbido scetticismo o meglio agnosticismo di Wisława, intriso di una benevolenza ed equanimità che sollevano il lettore dal dovere di prendere posizione. Il suo fascino sta in questa aggraziata mobilità, nel rifiuto di ogni dura posizione etica, come pure – altro specifico di Wisława – nel suo militante NO al “sublime”: “il mondo non merita la fine dal mondo” è un suo detto fra i più noti. È solo una battuta di spirito, però piena di saggezza.

Ma non è tutto: a differenza di tanti poeti del ’900 e di questo scorcio di 2000 – Wisława non fa teorie e non propone definizioni proprie o altrui della poesia: nulla di simile nella sua lunga attività di critica-giornalista letteraria a Cracovia e nemmeno, contro ogni aspettativa, nel suo discorso per il conferimento del Nobel nel 1996. Leggete Ad alcuni piace la poesia [1993, FI 501] dove non si va oltre quel “piace” diverso da individuo a individuo che usiamo per il cibo il vestire e i gesti più correnti, per poi trincerarsi energicamente dietro un ripetuto “non lo so” a cui Szymborska si aggrappa come a un “corrimano”.

Onnipresente ironia che rifulge quando Wisława vira al comico e non disdegna neanche i microchoc del limerick. Ma quanti autori seri e anche tragici non danno, loro malgrado, il massimo di artisticità nel comico? Potrei citare passi dell’Uomo senza qualità di Musil e anche il Thomas Mann che Wisława tanto ama (Thomas Mann, 1967 [US 243]), il cui capolavoro è forse l’incompiuto Felix Krull, o ancora il Kleist degli Aneddoti e della Brocca rotta. Del comico Wisława ci dà un gustoso esempio in Serata d’autore (1962) che si apre con un “O musa, essere un pugile o non essere affatto” [S 149]. Al comico appartengono peraltro i bizzarri collages di Wisława, e non è forse imparentato con il comico il suo noto gusto per sommari, note, indici, citazioni, ossia per la filologia nel suo formicolare intorno a un testo? Il comico non opera sempre su un’inattesa sproporzione?

Ora non vorrei aver rinchiuso Wisława in questa dimensione. C’è un’immagine significativa, la famosa xilografia (1856) del giapponese Hiroshige Utagawa, Gente sul ponte: visione dall’alto su un’acqua immensa attraversata in obliquo da un ponte, sul ponte quattro omini con gli ombrelli aperti, lo sconfinato spazio rigato da cima a fondo da un pioggia battente. Di qui viene, credo, il titolo della raccolta del 1986: perché, credo, riassume la condizione umana. Che non è disperata, anzi offre delle nicchie di confort: nella fiabesca Di una spedizione sull’Himalaya non avvenuta (1957, AY 85) Wisława segnala, con il sorriso sulle labbra, i vantaggi, e l’interlocutore è il mitico animale selvaggio, “mezzo Uomo-luna”, da lei invitato a lasciare l’Himalaya per rientrare nella dopotutto accettabile mediocrità umana.

Wisława tutto è fuorché una sovversiva. In Notte [AY 33-37] ragiona, in una specie di ballata, su Isacco, un bambino che, non avendo commesso nemmeno una delle tipiche marachelle infantili, è però condannato dal dio biblico a essere sacrificato dal padre Abramo. Tutto è qui ridotto all’umile quotidiano: Dio visto come un uccello volato dentro casa, Dio in cucina con Abramo, l’odio del bambino inerme, che però dice no al contrordine che lo vuole salvo: “io morirò, / non mi lascerò salvare!” Ma Dio stesso provvederà alla svolta, alla salvezza – ecco la chiusa inaspettata – cominciando “il trasloco/ dal letterale/ al metaforico”. Ossia verso il linguaggio della poesia. Cosa sia la poesia non sappiamo, ma è l’unico movimento possibile e, posto che ci sia, la salvezza. E quando Wisława vuole abbracciare il tutto, vede che tutto, cielo e terra, prossimo e remoto, perfino l’interno del proprio corpo, è un unico cielo e un contenitore ermetico:

Mangio cielo, evacuo cielo.
Sono una trappola in trappola, un abitante abitato,
un abbraccio abbracciato,
una domanda in risposta a una domanda. (Il cielo [FI 493]).

Come ritrovare Wisława se qualcuno dovesse cercarla? Con un solo gesto ci fornisce, succinti come su una carta d’identità, i suoi due “segni particolari”: “in canto e disperazione”. Sappiamo bene di che si tratta, meglio di così non si poteva dire: una rara fulminea sonda nella propria psicologia, due opposti, due momenti contigui di quell’”anima”, da Wisława mai nominata se non in Nulla è in regalo, dove protesta contro un conto in banca aperto a suo nome:

La protesta contro di esso
la chiamiamo anima.
E questa è l’unica voce
che manca all’inventario. [FI 553]

Szymborska non parla mai di sé: nessun io lirico in libertà. “Qui giace”, dice in Epitaffio (1962) “come una virgola antiquata / l’autrice di qualche poesia” [S 151]. Crea solo dei punti di vista. Nel Silenzio delle piante (2002) le piante chiedono:

che significa guardare con gli occhi,
perché mi batte il cuore
e perché il mio corpo non ha radici. [A 579].

Ma ancora una volta: – Che ne so io, Wisława? – Ti manca “il senso del partecipare” le spiega una pietra con la quale conversa [S. 179].
Qui si riproporrebbe l’interrogativo: il poeta è un fuori del mondo o invece il suo più implicato testimone? Vecchia storia. Wisława non arde mai per nulla – questo è il limite della sua poesia – ma ci compensa con un tepore costante: Wisława è una fata buona, mai giudicante, e a quanto pare di nulla abbiamo oggi più bisogno che di questo. Di qui il suo successo? E perché no? Uomini, alberi, animali, cose hanno in Wisława lo stesso statuto, in un sottinteso che fare se non restare insieme. Ancora due esempi, due testi, pluricitati, diventati quasi popolari Il gatto in un appartamento vuoto [FI 523-525] e Monologo di un cane coinvolto nella storia [DP 655-657]. Qui, con pietà e ironia, Wisława suscita quel ben noto e irresistibile misto di riso e di tenerezza che ci ispirano i due esseri più fratelli dell’uomo.
Inconfondibile Wisława.

Anna Maria Carpi

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  • 3 maggio 2016

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