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«Etiche applicate»

Il volume, a cura di Adriano Fabris, indaga cinque aree: bioetica, etica della comunicazione, etica economica, etica ambientale, etica pubblica

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«Etiche applicate» è il nuovo volume a cura di Adriano Fabris, docente di Filosofia morale all'Università di Pisa. Il libro, edito da Carocci, offre una presentazione dettagliata delle cosiddette "etiche applicate". Si tratta di ambiti di riflessione sviluppati negli ultimi decenni, allo scopo di approfondire e regolamentare questioni dovute all'impatto delle tecnologie sulla nostra vita. Pensiamo alla bioetica, all'etica della comunicazione, all'etica dell'economia, all'etica ambientale e a vari aspetti dell'etica pubblica.

All'interno di questi macroambiti troviamo poi settori più specifici di ricerca, che discutono problemi etici riguardanti ad esempio le cure mediche o il potenziamento umano, l'attività giornalistica o l'uso delle tecnologie comunicative, l'economia globale o il mondo delle imprese, il nostro rapporto con il cibo o quello con le altre specie viventi, i temi dell'immigrazione, della disabilità, delle differenze di genere. Su questi e altri argomenti si soffermano i capitoli del libro, scritti da esperti del settore e corredati da ampia bibliografia. 

Pubblichiamo qui di seguito la premessa al volume, a firma dello stesso Adriano Fabris.

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cover etiche applicate1. La nascita delle “etiche applicate”
La presenza delle cosiddette “etiche applicate” – o “etiche speciali”, o “etiche particolari”, che dir si voglia – costituisce una delle novità nel campo della riflessione filosofica degli ultimi decenni. La filosofia, dopo aver rischiato varie volte in passato di essere autoreferenziale e quindi ininfluente nei confronti dei problemi quotidiani degli esseri umani, si occupa da qualche tempo, fra l’altro, di questioni concrete relative alle condizioni del vivere, ai modi del morire, alle varie emergenze ecologiche, ai mutamenti in atto delle relazioni economiche e sociali, e alle loro conseguenze. Lo fa attraverso una rinnovata riflessione sull’agire umano: mediante ciò che, nella sua tradizione, è chiamato “etica”. Lo fa, sia pure in forme parzialmente diverse, sia nella vecchia Europa che in ambito anglo-americano, sia cioè all’interno del cosiddetto pensiero “continentale”, sia nel contesto della cosiddetta “filosofia analitica”, incrociando a volte e ibridando i due approcci.

A costringere l’indagine filosofica a questa svolta verso la concretezza sono stati, a partire dalla seconda metà del Novecento, non solo i progressi tecnici, ma soprattutto gli sviluppi delle tecnologie. Non dicono la stessa cosa, in effetti, le parole “tecnica” e “tecnologia”. La tecnica indica ciò che prolunga e potenzia l’agire umano, restando tuttavia sotto il controllo di questo stesso agire. Si pensi al bastone utilizzato per far cadere i frutti appesi ai rami più alti di un albero, o a quegli strumenti, anche complessi, che però necessitano dell’essere umano per venire attivati e per svolgere la loro funzione (ad esempio l’orologio meccanico oppure l’automobile). Gli apparati tecnologici possiedono invece una tendenziale capacità all’autoregolazione e all’autonomia, e sono perciò in grado di subordinare alle loro procedure e alle loro funzioni lo stesso agire umano, sfuggendo al suo controllo (come nel caso dei sistemi automatici di regolazione dell’ora o dell’automobile senza guidatore). Ne consegue per l’essere umano, da un lato, uno sgravio di responsabilità, dall’altro, un crescente senso d’impotenza.

I problemi etici creati da queste trasformazioni iniziarono a emergere fin dall’Ottocento, con gli sviluppi del sistema industriale, ma i rimedi individuati facevano ancora riferimento alla possibilità di recuperare un controllo o quanto meno un senso degli avvenimenti da parte dell’essere umano. Il tentativo si espresse ad esempio sia nei termini, più diretti, del richiamo a una «volontà di potenza» (Nietzsche), intesa in senso individuale o di popolo, sia nelle forme, più mediate, della delega del controllo a uno «Spirito del mondo» (Hegel) o a un progresso collettivo (Comte, Spencer). Ma fu con le applicazioni belliche estreme delle tecnologie, e con il verificarsi di una crescente sproporzione (Anders, 2002; 2003) tra la capacità umana d’immaginare le conseguenze di un atto di distruzione e i reali effetti di esso, che s’impose con forza la necessità di riflettere non solo sui modi in cui le tecnologie stesse incidevano concretamente sui comportamenti e sulla vita degli esseri umani, ma soprattutto sullo specifico carattere e sull’autonomia dell’agire tecnologico. Ora, diveniva necessario ripensare radicalmente la stessa etica come disciplina, nella misura in cui soggetto agente non era più, soltanto, l’essere umano, più o meno supportato da strumenti tecnici, ma lo era anche, e con crescente autonomia, il dispositivo tecnologico.

Fu lo scoppio della bomba atomica – uno strumento di morte i cui effetti si potevano protrarre per generazioni, senza che fosse possibile bloccarli – a sollecitare molte di queste riflessioni in ambito filosofico. A un evento di tale portata, però, si aggiunsero gli effetti di ulteriori sviluppi scientifici e tecnologici, capaci d’incidere in altri modi sui processi della vita e della morte: anzi, in grado di contribuire alla ridefinizione stessa delle nozioni di “vita” e di “morte”. Si pensi ai protocolli di Harvard per l’accertamento della morte come morte cerebrale, che suscitarono un ampio dibattito negli Stati Uniti e non solo (Jonas, 2009). Tutto questo e molto altro contribuì alla nascita della prima disciplina che, in maniera articolata, cercò di rispondere alle sfide etiche provocate dalla nuova situazione. Mi riferisco alla bioetica.

2. Il concetto di “applicazione”
Tutto ciò ha comportato certamente un radicale cambio di paradigma nell’ambito dell’etica (o, più precisamente, della filosofia morale, intesa come riflessione sui comportamenti umani e sulla possibilità di orientarli). Tale riflessione, nella storia del pensiero, ha infatti cercato d’individuare i criteri e i principî condivisi affinché l’essere umano potesse compiere scelte buone, ha voluto chiarire che cosa certi concetti significassero – ad esempio i concetti di “bene” e “male”, di “giusto” e “ingiusto”, di “virtù” e “vizio” –, ha indicato e promosso modelli di vita che consentissero a donne e uomini di giungere alla loro piena realizzazione. Ciò è stato fatto, certamente, con stili diversi, movendo da differenti concezioni dell’agire e riferendosi a varie gerarchie di valori: ma l’obbiettivo da raggiungere – la possibilità di proporre giustificazioni valide e condivisibili per le scelte morali – restava comunque lo stesso.

A partire dalla seconda metà del secolo scorso, tuttavia, tale riflessione non è più risultata sufficiente. S’impongono infatti altre urgenze con cui è necessario fare i conti. Due, in particolare, sono gli aspetti inediti che bisogna ora affrontare. Da una parte, come ho detto, l’agire umano si trova ridimensionato nella sua portata e nel suo potere di controllo da parte di quel fare che è proprio degli apparati tecnologici. Con essi, e con ciò che essi sono in grado di compiere, l’essere umano è chiamato a interagire. Dall’altra parte, poi, nella nuova situazione emergono questioni che mettono alla prova lo stesso approccio che per tradizione ha contraddistinto l’indagine filosofica. Si tratta di scenari che richiedono di venir compresi, soprattutto per quanto riguarda le mutazioni antropologiche che comportano, e che spingono anch’essi a prendere decisioni movendo da un orientamento di fondo argomentato e giustificabile.

Di fronte a tali situazioni si è cercato, ancora una volta, di far riferimento a strategie ben consolidate e ricorrenti nella storia del pensiero. Si sono riproposte e si ripropongono ancora, per esempio, tentativi di regolamentazione dettati da norme precise, come ad esempio quelle contenute nei codici deontologici. Oltre a ciò, davanti all’evidente difficoltà di affrontare questioni etiche con riferimento a principî giuridici, sono state riproposte prospettive etiche di carattere generale – ad esempio di tipo deontologico, o consequenzialista, oppure ispirate a un’etica delle virtù –, salvo poi verificare i limiti, in termini di reale efficacia, del loro approccio astratto.

È emerso allora uno scenario diverso. Problemi concreti richiedevano soluzioni concrete. Esse dovevano però essere guidate e indirizzate da principî generali. Questi principî, a loro volta, dovevano essere “applicati” alle varie situazioni e proprio in tali situazioni essere messi alla prova.

Insomma: vi erano, da una parte, l’etica “generale” e, dall’altra, le varie “etiche applicate”, chiamate ad affrontare le questioni specifiche e i dilemmi provocati dagli sviluppi tecnologici. La prima trovava attuazione concreta nelle seconde e a sua volta forniva un orientamento generale per la loro azione. Era qui in gioco un processo di carattere quasi sintetico-deduttivo. Si trattava cioè di un approccio top-down. Ma anche tale approccio, tanto più quando venne inteso in modo unilaterale, risultò insoddisfacente.

Le procedure di applicazione, infatti, si rivelarono ben presto tutt’altro che automatiche. Esse necessitavano di adattamenti, di percezione delle diverse situazioni da parte di chi le metteva in atto; richiedevano la capacità di fare i conti con l’imprevedibilità dei contesti in cui insistevano. Necessitavano, in altre parole, di ciò che i latini chiamavano “ingenium” (Gadamer, 2001). Tutto ciò non era qualcosa che poteva essere determinato in anticipo. Si tentò allora di stabilire una procedura che fosse valida in tutte le situazioni analoghe e che potesse essere seguita sia dagli esseri umani che dalle entità artificiali. La cibernetica, su questa base, propose anzi una teoria applicabile sia agli animali che alle macchine (Wiener, 1968). Ma pure tale soluzione risultò insoddisfacente, a causa della rigidità delle procedure utilizzate, tanto più se messe a confronto con un mondo in costante cambiamento.

Anche da un punto di vista più propriamente epistemologico, poi, l’approccio top-down risultò inadeguato. Nel caso delle cosiddette “etiche applicate”, infatti, non si poteva parlare di “applicazione” nel senso di un trasferimento, nei vari contesti concreti, di quei principî di fondo che l’“etica generale” era chiamata ad articolare e giustificare. Si trattava piuttosto di mettere in opera una dinamica di tipo circolare, in cui gli stessi principî generali orientavano l’agire in situazioni concrete, ed erano a loro volta verificati e adattati, legittimati e precisati proprio grazie al confronto con tali contesti.

Non stupisce quindi se, anche a seguito di queste difficoltà, in molti casi, e specialmente nella riflessione su questi temi sviluppata in ambito anglo-americano, le cosiddette “etiche applicate” sono state strettamente vincolate e circoscritte al piano della pratica concreta. Si è preferito in questi casi, cioè, favorire un approccio bottom-up, basato sull’analisi di specifici casi di studio.

Ma pure questa soluzione, dal canto suo, si è rivelata insoddisfacente. Essa consentiva infatti di proporre, al massimo, indicazioni di comportamento limitate, e valide solo per determinati gruppi o culture. Lo scopo dell’etica – quello di favorire decisioni razionali generalmente condivise – finiva in tal modo per essere eluso. Il compito di confrontare tali soluzioni fra gruppi e culture, infatti, era relegato a forme contingenti di negoziazione, quando non finiva per favorire l’esercizio della violenza.

3. La struttura di questo libro
Per la riflessione filosofica, dunque, la questione delle cosiddette “etiche applicate” è importante su più piani. Si ricollega, come abbiamo visto, al mutamento dell’idea di “agire” che si determina nel contesto contemporaneo: nella misura in cui anche gli apparati tecnologici agiscono, in una maniera più o meno autonoma, essi finiscono per limitare la portata dell’agire umano, e trasformano questo stesso agire in un interagire con le operazioni svolte da vari dispositivi, che diventano sempre più autonomi. Richiede poi che venga capito fino in fondo il mutamento di scenario che il diffondersi delle tecnologie emergenti ha comportato e continua a comportare nel nostro mondo, e soprattutto che esso sia interrogato nelle sue implicazioni etiche. Comporta infine la necessità di una riflessione più approfondita sul rapporto fra quei criteri che l’indagine filosofica vuole far valere in generale e le situazioni concrete, in costante trasformazione, che richiedono decisioni specifiche da prendere proprio in base a tali criteri.

Questo discorso risulta tuttavia ancora troppo generale e astratto. Se invece prendiamo in esame i campi di applicazione nei quali sorge concretamente una domanda di carattere etico, ci accorgiamo che essi si concentrano e possono essere raggruppati in aree ben precise. Si tratta di questioni che riguardano la stessa vita umana, oppure sue fasi cruciali, che favoriscono un suo potenziamento, che incidono sulla cura di essa, che consentono di migliorarne la qualità. Sono problemi che investono l’essere umano nella sua collocazione e interazione con contesti globali governati strutturalmente da regole ben precise e caratterizzati da una crescente capacità di autoregolamentarsi: come i mondi della comunicazione, reali o virtuali, dell’economia, a livello macro o micro, e come lo stesso ecosistema in cui ogni essere vivente si trova a operare. Sono temi che concernono le trasformazioni della sfera pubblica e la possibilità – in un contesto in cui le differenze rischiano di essere rivendicate fino al punto da condurre a esiti conflittuali – di costruire reali modelli di convivenza.

Il quadro che ne deriva è certamente articolato e plurale. E come tale dev’essere considerato, senza cedere alla tentazione di giungere a sintesi troppo affrettate e di proporre ricette astrattamente universali. Ma anche la tentazione opposta, quella di porre sullo stesso piano una molteplicità di tematiche e di prospettive senza collegamento fra loro, dev’essere ugualmente evitata. Non è metodologicamente corretta e, soprattutto, non corrisponde a ciò che l’indagine filosofica è chiamata a fare, l’idea di affrontare tali questioni – maggiormente concrete oppure più di prospettiva, legate a situazioni specifiche oppure elevate a modello per affrontare casi analoghi – come se fossero tutte di eguale complessità. E allo stesso modo una trattazione rapsodica di esse, magari dettata dalla moda del momento, non può ritenersi adeguata. Anche se vari manuali di etiche applicate adottano quest’impostazione, soprattutto nell’area anglo-americana, si tratta di un approccio che non è giustificato e che non possiamo condividere. Dobbiamo invece cercare un collegamento strutturale fra le problematiche specifiche che l’etica, nelle sue varie applicazioni e nelle sue principali aree d’interesse, è chiamata oggi ad affrontare.

In che modo abbiamo cercato di farlo in questo libro? Abbiamo in generale seguito una serie di criteri suggeritici dagli sviluppi stessi delle etiche applicate, allo scopo di collegarle fra loro e, per dir così, di “metterle in rete”. Abbiamo anzitutto evitato di dare priorità fondativa a questo o a quell’ambito disciplinare. Ciò non può essere fatto, a ben vedere, né nel caso della bioetica, che pure è l’etica applicata con una storia più lunga, né in quello dell’etica pubblica o dell’etica della comunicazione: nonostante quanto alcuni studiosi hanno sostenuto (Apel, 1992). Abbiamo invece identificato cinque aree d’indagine, poste tutte sullo stesso piano, a cui ricondurre una serie di questioni concrete. Esse sono: la bioetica, l’etica della comunicazione, l’etica economica, l’etica ambientale, l’etica pubblica.

Esse, lo ripeto, sono da considerare come aree: contenitori aperti in cui questioni a esse riconducibili per una sorta di “aria di famiglia” possono essere riportate come al loro ambito d’indagine dedicato. Non vi è spazio, qui, per un atto di sussunzione. Si ha, piuttosto, un intreccio, una sovrapposizione di questioni: questioni che, magari, si ritrovano analogamente in aree diverse e che possono essere proficuamente affrontate facendo riferimento a differenti approcci. Si pensi ad esempio ai collegamenti fra etica della cura ed etica del gender, fra la bioetica e i disability studies, fra l’etica dell’ambiente e le problematiche della giustizia intergenerazionale. Si pensi anche ai problemi propri dell’etica animale, che possono essere approfonditi non solo nel contesto dell’etica ambientale, ma anche in quello dell’etica della vita.

Lo schema che viene qui proposto, quindi, non è affatto uno schema chiuso e gerarchicamente strutturato. È piuttosto, potremmo dire, uno schema “a rete”. Le etiche applicate, cioè, non solo richiedono, come abbiamo visto, che sia attivato un rapporto circolare con quei criteri e quei principî che sono propri dell’etica generale. Esse hanno anche una relazione orizzontale e incrociata fra di loro, in quanto le stesse questioni possono, e in alcuni casi debbono, essere affrontate da prospettive diverse: comunque collegate e motivate da un comune interesse etico.

Ne consegue dunque che questo libro non pretende di fornire un quadro esaustivo e completo delle cosiddette “etiche applicate” presenti nel dibattito contemporaneo. Non sarebbe possibile: sia perché la riflessione etica sui mutamenti tecnologici e sulle loro conseguenze nei confronti delle nostre vite, delle nostre relazioni, del nostro ambiente, è anch’essa in costante trasformazione; sia perché, anche nel riconoscere e affrontare tali questioni, nel libro sono state fatte scelte ben precise, che hanno privilegiato certe questioni e lasciato sullo sfondo altre. Esso, piuttosto, vuol essere al tempo stesso una fotografia della situazione attuale e un work in progress. La fotografia presenta una situazione ben definita. Ma invita, come nel caso di quei giochi in cui il partecipante deve scoprire sempre nuove connessioni tra gli elementi raffigurati, a cercare collegamenti, incroci, sovrapposizioni tra approcci diversi.

Ciò è reso possibile, anzitutto, dal lavoro accurato degli autori e dalla ricca bibliografia da essi suggerita. Ciò è favorito, poi, dalla presenza di contributi che sono espressione di prospettive e di tradizioni filosofiche diverse, e che non si limitano solo a presentare un ambito disciplinare, ma, in molti casi, prendono posizione nei confronti di temi concreti. Ma ciò, in particolare, è inteso come un invito al lavoro del lettore e come uno stimolo a ulteriori suoi approfondimenti. Le etiche applicate sono infatti la dimostrazione della vitalità della ricerca filosofica e della sua costante apertura alle sfide del tempo.
Adriano Fabris

 

 

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  • 9 ottobre 2018

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