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Studiare in prigione, l’esperienza della Spagna e quella dell’Italia a confronto per la definizione di buone pratiche

L’analisi dei due modelli di istruzione universitaria in carcere in uno studio di Gerardo Pastore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa pubblicato sull’«International Journal of Inclusive Education»

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Italia e Spagna, due contesti nazionali con storie e politiche penitenziarie simili, eppure con situazioni molto diverse se si focalizza l’attenzione sullo studio universitario in carcere. Da un lato la Spagna che ha attuato una serie di misure che l’hanno portata ad affermarsi come esempio di eccellenza nel panorama europeo, dall’altro l’esperienza del nostro Paese che, nonostante la virtuosa e singolare esperienza dei Poli Universitari Penitenziari, non riesce a generare importanti ricadute sistemiche. Un divario netto dunque, che emerge da un’analisi comparata condotta da Gerardo Pastore, ricercatore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Il lavoro, appena pubblicato sull’«International Journal of Inclusive Education», si inserisce nel quadro di una collaborazione di lungo periodo con Andrea Borghini, delegato del rettore dell’Ateneo pisano per il Polo Universitario Penitenziario di Pisa, e Antonio Viedma Rojas della Universidad Nacional de Educación a Distancia (UNED) di Madrid.
“Il primo dato che si registra dal punto di vista quantitativo è quello relativo alla partecipazione delle persone detenute a corsi universitari – spiega Gerardo Pastore – e su questo punto, il ritardo dell’Italia è particolarmente marcato, infatti sebbene non sia semplice inquadrare il fenomeno in chiave comparata, i dati ci dicono ad esempio che nel 2015 gli iscritti erano 178 su una popolazione carceraria di circa 52mila persone in Italia e 1.020 su circa 61mila detenuti in Spagna”.
Un distacco netto che però si spiega a partire dalle buone pratiche del modello spagnolo che lo studio individua in due elementi ben precisi: l’esistenza di una convenzione nazionale unica tra istituzioni (in questo caso i ministeri dell’istruzione e dell’interno e l’UNED) in grado di assicurare risorse economiche e umane e la piena applicazione delle tecnologie telematiche alla didattica universitaria in carcere.
“Si tratta di buone pratiche che sarebbe auspicabile adattare al contesto italiano –conclude Pastore – il carattere straordinario dell’incontro tra carcere e università si può cogliere sotto molti aspetti, sia particolari che generali. Se si guarda nella prima direzione, lo studio appare come uno dei mezzi più efficaci per attenuare l’elemento drammatico della detenzione e riempirla di contenuti costruttivi. Considerando invece gli aspetti più generali, favorire la partecipazione dei prigionieri a corsi universitari ricorda a tutti che un’altra cultura della pena è possibile, senza buonismi di sorta, senza cedimenti, senza sotterfugi, ma nella nitidezza dei profili penali e delle modalità della detenzione”.

16-2-2018

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