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Intervento di Paola Binda

Professoressa Associata presso il Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

 

Ringrazio il Presidente della Repubblica per l’attenzione che ci dedica insieme al Ministro Maria Cristina Messa e ringrazio il Magnifico Rettore per l’opportunità di raccontare la mia ricerca.

Io mi occupo di neuroscienze. “Bello, ma che laurea è?” mi hanno chiesto spesso. In effetti è una scienza nuova, nel senso che rappresenta l’incontro di tante discipline di veneranda tradizione che si sono riunite per affrontare un problema: il cervello. E è anche nuova perché’ ha visto l’avvento di uno strumento rivoluzionario, le neuroimmagini, che improvvisamente ci hanno consentito di guardare dentro il cervello, mentre funziona. E proprio questo strumento è uno dei motivi per cui io e la mia ricerca siamo qui a Pisa. Da circa 10 anni Pisa ospita una Risonanza Magnetica a “campo ultra-alto”, un macchinario che (unico in Italia e raro nel mondo) consente di produrre immagini del cervello ultra-dettagliate. Questo ha un duplice vantaggio: non solo c’è l’infrastruttura, che consente di fare cose che sarebbero altrimenti impossibili. Soprattutto, intorno all’infrastruttura, c’è una comunità di saperi straordinariamente eterogenea, dalla fisica alla clinica psichiatrica, dalla biologia della cellula alla filosofia della mente, dell'informatica alla medicina. Penso che sia questa combinazione, tra potenza tecnologica da un lato e ricchezza culturale dall’altro, che ha fatto nascere il mio primo importante progetto, finanziato dallo European Research Council.

Il mio progetto parte da un dato di fatto: il nostro cervello elabora informazioni, e compie errori. Per esempio, nelle sere d’estate capita di vedere la luna bassa sull’orizzonte. Ed è grandissima. Molto più grande di quando è alta nel cielo. Questo non è spiegato da cambiamenti fisici (della luna o dei nostri occhi) ma dal modo fallace in cui il nostro cervello interpreta l’immagine registrata dall’occhio. Quando la luna è bassa sull’orizzonte, il cervello la interpreta nel “contesto” del panorama di case e alberi, e per questo le attribuisce una grandezza illusoriamente maggiore.

Questo ci dice che la percezione non è una registrazione della realtà ma dipende in egual modo dalla realtà esterna e dai processi interni al nostro cervello. Misurando la differenza tra realtà e percezione, possiamo cominciare a comprendere questi processi. Capiamo che il cervello elabora una statistica dell’ambiente che ci circonda (quello che ho chiamato “contesto”), ne conserva uno storico, e li usa insieme ai segnali che arrivano dagli occhi per inferire le caratteristiche dell’ambiente. Ora, capire come questi termini “statistica, storico, inferenza” si traducono in interazioni tra cellule nervose è uno dei grandi obiettivi delle neuroscienze. Studiarli nell’ambito della percezione, anziché nell’ambito del pensiero, della cognizione, ha un grande vantaggio: è relativamente semplice misurare quello che vediamo.

Possiamo descriverlo, ma possiamo visualizzarlo con le neuroimmagini, perché la parte visiva del cervello forma delle mappe topografiche del nostro campo visivo e quindi di quello che stiamo vedendo. La mia ricerca dimostra che possiamo addirittura dedurre quel che una persona sta percependo dal diametro delle sue pupille (l’apertura attraverso cui la luce entra nei nostri occhi), che mostra microscopiche variazioni in funzione dell'attività della corteccia cerebrale.

Dai risultati che raccogliamo con queste tecniche, è evidente che: non vediamo tutti nello stesso modo, ne’ vediamo sempre nello stesso modo.

Ci sono persone praticamente immuni alle illusioni visive, e tra questi tante persone autistiche, per le quali si ipotizza una tendenza generale ad “astrarre dal contesto”, ad esempio negli scambi comunicativi. Questo suggerisce che misurare differenze percettive potrebbe darci degli strumenti nuovi per descrivere gli individui e i loro stili di elaborazione delle informazioni, aprendo una prospettiva clinica - in cui ci guidano gli esperti di neuropsichiatria e neurologia del nostro Ateneo.

D’altra parte, abbiamo forti indicazioni che il funzionamento del nostro cervello cambia nel tempo, anche rapidamente. Per esempio, abbiamo studiato la capacità del cervello visivo di adattarsi all’esperienza e abbiamo trovato che questa plasticità ha un picco subito dopo i pasti. Quindi, quello che vediamo dipende da complessi processi cerebrali, che a loro volta sono influenzati da fattori “di pancia” (come i sistemi alla base dell’assorbimento dei cibi) - che possiamo studiare sotto la scorta degli esperti endocrinologi e diabetologi dell’Università di Pisa. Queste evidenze ci aprono l’interessante prospettiva di poter avere un impatto sui processi cerebrali agendo non sul cervello ma molto più semplicemente sull’alimentazione.

Concludendo, questo progetto è un prodotto dell'ambiente accademico che mi ospita e in cui sono cresciuta, che mi pare ispirato (tra gli altri) a due principi: quello molto pratico di vedersi e valutarsi su un piano internazionale, e quello della collaborazione come “sport estremo”: la collaborazione con discipline lontane, che ci obbliga ad inventarci un linguaggio comune e qualche volta ci offre soluzioni inaspettate. Spero con la mia ricerca di riflettere questi principi e aiutare a sostenerli.

Ultima modifica: Lun 18 Ott 2021 - 10:35

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