Laurea specialistica honoris causa a Christiane Klapisch-Zuber

Il 31 gennaio 2008 L'Università di Pisa ha conferito la laurea specialistica honoris causa in “Storia e civiltà ” a Christiane Klapisch-Zuber

Lectio Magistralis di Christiane Klapisch-Zuber
"«Da nessuna parte, anima mia, si trova quel passato che ti è caro.» Allora, di cosa va in cerca lo storico?"

Christiane Klapisch-ZuberÈ un grande onore che oggi ricevo dall’Università di Pisa: ringrazio, dal profondo del mio cuore, il Magnifico Rettore, il Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, il Direttore della Scuola di Dottorato in Storia, e l’Università tutta. Potrò finalmente essere chiamata «Dottoressa Klapisch» e non più semplicemente «la Klapisch». E per una francese, il cui paese, dopo la rivoluzione, non ama più le titolature, neppure quelle repubblicane, né gli appellativi che le accompagnano, potete credere che si tratta di un piacere tutto particolare.
Ma è soprattutto una grande gioia trovarmi qui tra amici e in una città che da lungo tempo mi ha aperto le sue porte e le sue istituzioni, il suo sapere e i suoi tesori, e forse anche il suo cuore.

È per l’appunto a Pisa e nei suoi dintorni che, all’inizio degli anni sessanta, ho compiuto le mie prime ricerche in archivio, luogo privilegiato degli storici. Fino ad allora avevo sì fatto ricerca nell’ambito dei progetti del Centre de recherches historiques della Sesta Sezione dell’Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, dove ero entrata da poco. Ma queste ricerche, che per un anno furono dedicate alla storia economica dell’XI e XII secolo e per altri due anni ai villaggi abbandonati in Italia, si basavano su fonti a stampa. Non mi ero ancora mai trovata a combattere con i manoscritti medievali. 

È merito di Ruggiero Romano se mi sono avventurata in quel giardino di delizie che sono gli archivi italiani. Nel 1963, mi propose come argomento di tesi la produzione del marmo a Carrara tra Medioevo e Rinascimento. Gli avevo chiesto di indirizzarmi verso una ricerca legata alla storia dell’arte italiana, per la quale nutrivo una passione segreta, fin dall’adolescen­za. Ruggiero Romano, da buono storico dell’economia moderna, mi immaginò a contare i carichi di marmo, a calcolare pesi e misure, entrate e uscite. Temo di averlo deluso. Mi buttai coraggiosamente negli archivi dei porti di Livorno e Genova, ma ne restai a mia volta delusa. Ruggiero Romano credeva che lì avrei trovato molti libri di conto di artisti; in realtà le fonti furono un po’ avare, da questo punto di vista. Ma al di là dei tonnellaggi e delle navi da carico dei marmi, cosa avrei potuto scoprire? Degli uomini, ovviamente, e più precisamente degli artisti, ma anche cavatori di marmo, tagliatori di pietra, vetturini, marinai, notai, e infine, a coronamento di tanti sforzi, i dirigenti dei grandi cantieri, i ricchi e notabili committenti di oggetti, decorazioni, sculture in marmo, che i traffici del commercio portuale rivelavano solo a fatica.... Ammetto che il panorama della ricerca, allargandosi a questi attori e a queste comparse della vita artistica, divenne ben più interessante che non il calcolo delle navi, delle carrate e delle tonnellate.

Ho dunque trascorso i miei primi anni di ricerca d’archivio, tra il 1963 e il 1968, a Pisa, a Massa e a Carrara, a Lucca e anche a Firenze. Pisa diventò la mia retrovia. Qui fui accolta da un gruppo di giovani storici della Normale e dell’Università, molto seri ma al tempo stesso allegri e vivaci. È impossibile ricordare tutti i nomi di coloro che mi procurarono alloggio, mi offrirono del buon vino e degli ottimi piatti di pasta, mi aiutarono nelle ricerche, mi mostrarono le meraviglie del luogo. Fu una vera e propria immersione in un’Italia che conoscevo solo attraverso i libri. Fu anche un po’ un ritorno alla vita studentesca che avevo lasciato da poco, ma in un clima di cordialità che mi era mancato a Parigi nel regime austero e pudìco dell’Ecole normale supérieure des jeunes filles.

In un certo senso oggi ritorno al mio punto di partenza: a Pisa. In un certo senso il cerchio si chiude. Una lunga divagazione mi ha tenuta lontana per decenni dalle mie prime ricerche sulla storia della produzione artistica, ma oggi altri interessi mi riconducono lì, al punto di partenza.Qualche parola sui percorsi di ricerca intermedi. Nel corso dei tre decenni 1970-1990 sono stata presa dalla storia demografica e dalla storia sociale. Ho per di più «tradito» Pisa per la «Dominante», Firenze... Una lunga collaborazione con lo storico americano di Pisa e di Pistoia, David Herlihy, e l’utilizzazione di una fonte documentaria straordinaria, il catasto fiorentino del 1427, mi ha indotto a privilegiare, negli anni tra il 1966 e il 1978, le dimensioni quantitative e statistiche delle informazioni che quella fonte ci offriva. Contare, misurare, comparare tutto per arrivare a comprendere le strutture profonde della società del primo Rinascimento: se posso riassumere in maniera grossolana, era questo il mio credo di quegli anni.

La digressione dalle mie prime ricerche proseguì negli anni successivi alla ricerca franco-americana sul catasto, allorché cominciai a interessarmi di storia della famiglia e della parentela, focalizzando l’attenzione su Firenze. Cercai a lungo di delinearne i caratteri attraverso la lettura dei numerosi libri privati lasciati dalle famiglie, che in Toscana rappresentano un insieme documentario di incredibile ricchezza. Questi «libri di famiglia», sovente indicati col termine più restrittivo di «ricordanze», mi fecero penetrare (almeno così credevo) nell’intimità del gruppo familiare. Difatti essi consentivano di andare oltre l’analisi delle strutture sociali e familiari dominanti, iniziata con lo studio del catasto, e di cogliere  le relazioni intrattenute con l’entourage, la posizione dell’individuo nel gruppo della parentela allargata. Di più, i libri di famiglia permettevano di indagare le reazioni dei contemporanei di fronte agli eventi del ciclo di vita, e i significati che essi attribuivano al proprio agire.

Devo ammettere che questi studi mi posero in un’ottica meno quantitativa, perché meno fiduciosa nei grandi numeri, e anche più incerta: era infatti proprio un dubbio, magari suscitato da una situazione singolare, da un dettaglio atipico, o ancora da un  lapsus linguae, a indurmi sovente a rimettere in questione gli schemi generali, le serie, i comportamenti medi, le aggregazioni attorno alle medie, ai quali ero stata fino allora fedele. Certo, i libri di famiglia, distribuiti lungo l’arco di due buoni secoli, si prestavano anch’essi all’osservazione dei mutamenti e delle tendenze di lunga durata, per esempio nel caso dei rituali del matrimonio o della nascita, della scolarizzazione dei bambini, degli scambi di doni; non c’è dubbio che essi offrivano un’occasione unica per calcolare con precisione i comportamenti demografici delle famiglie della borghesia fiorentina che scrivevano le proprie ricordanze. Mi pareva tuttavia che le realtà del passato potessero essere meglio illuminate, più che dal numero dei fatti, dai discorsi che i loro attori sviluppavano intorno a quei fatti, o dal silenzio che avvolgeva un problema, una situazione difficile di cui non si poteva parlare neppure nel segreto di uno studio, dove il padre di famiglia era solito scrivere e mettere in ordine i propri libri.

Molti di questi silenzi riguardavano le donne della casa o della famiglia allargata. In genere la loro apparizione sotto la penna dello scrittore avveniva in occasione dei rituali familiari cui ho accennato poco fa. Ma era proprio la ritualizzazione delle relazioni tra uomini e donne a permettere ai redattori dei libri di famiglia di non parlare degli argomenti più delicati o dei punti di frizione inevitabili in una società che alle donne non lasciava quasi nessun spazio sulla scena pubblica e le teneva a distanza dalla produzione culturale e dalla vita commerciale. I comportamenti femminili giudicati trasgressivi venivano descritti con parole allusive, talvolta del tutto elusi, al fine di non minacciare l’onore degli uomini, e il loro ruolo nella città. Si possono interpretare questi silenzi come pudore, che obbliga a tacere nei momenti difficili. Nessuna fonte dice tutto: le ricordanze, non diversamente da altre fonti, nascondono altrettanto di quel che rivelano, e sovente è proprio perché tacciono o cancellano che attirano di più la nostra attenzione. Ma le dimenticanze o le omissioni rispondevano anche a una strategia, al calcolo degli interessi dominanti, che erano prevalentemente maschili.

In effetti, i libri di famiglia aprivano delle prospettive di ricerca sulle relazioni di genere a Firenze.  Le mie ricerche sulla società fiorentina e sulla massa di documenti che aveva lasciato traevano impulso non solo dalla lunga tradizione francese di storia della famiglia, demografia storica e antropologia storica, ma anche dalla storia delle donne e dagli studi di genere che cominciavano a diffondersi in Europa. Non mi sono mai considerata una “specialista” della storia delle donne e degli studi di genere; la scelta dei miei temi di ricerca non è stata guidata dall’ambizione prioritaria di dare un contributo a questo tipo di studi. Tuttavia, che fosse per coscienza femminista della posizione delle donne nelle società di oggi o del passato, o che fosse per curiosità verso gli enigmi posti dalle tracce documentarie del passato, sta di fatto che mi sono rapidamente persuasa che gli storici si amputavano di una chiave di comprensione indispensabile quando pensavano di poter fare a meno del concetto di genere nella loro analisi dei fenomeni storici.

Il lavoro su questi temi che a Parigi ho condiviso con storiche, sociologhe e antropologhe mi fece accettare con entusiasmo (e devo ammettere, con una certa incoscienza dei rischi e dei limiti dell’impresa) il progetto della casa editrice Laterza di tentare- eravamo alla fine degli anni ottanta- una prima sintesi della storia delle donne in Europa. Si è trattato di una collaborazione tra storiche di periodi, nazionalità e orientamenti scientifici e politici i più diversi e di una collaborazione con editori eccezionali, che ha profondamente segnato coloro che vi hanno preso parte.

Tra i «discorsi» tenuti dai notabili fiorentini della fine del Medioevo che attiravano la mia attenzione, mi era capitato di incontrare anche delle immagini; immagini a se stanti o riferite a degli oggetti che affollavano le case dei notabili e venivano contemplati e manipolati da loro e dai membri meno eloquenti della famiglia: le donne, i bambini, i servitori. Per l’uso che ne veniva fatto, per i discorsi che suscitavano o che ad esse si riferivano, queste immagini mi apparivano rivelatrici, al pari se non più di altre fonti documentarie. Oggi noi consideriamo opere d’arte e collochiamo nei musei oggetti che nel passato abitavano i luoghi domestici ed erano considerati di uso comune, indipendentemente dal loro significato sacro o dalla loro pretesa estetica. Queste immagini, situate quotidianamente sotto gli occhi della famiglia, donne e bambini compresi, potevano essere interpretate o reinterpretate alla luce dello specifico contesto storico e sociale che i libri di famiglia avevano rivelato. Con grande piacere e interesse ho dunque preso nuovamente in esame oggetti come i cassoni nuziali, o i deschi da parto ricevuti alla nascita di un bambino, o le statuette del Bambin Gesù e le sante bambole che compaiono nelle doti di spose laiche o di religiose: questo «arredo» domestico acquisiva significato non solo, come comunemente si pensava, in relazione alle diatribe di un predicatore come Savonarola o di un teologo come sant’ Antonino, oppure a confronto con le opere d’arte dei maggiori artisti, come Desiderio da Settignano, di cui non potevano che essere una forma in qualche modo degradata. Gli atti notarili e le scritture private, che precisavano i trasferimenti di questi oggetti da una famiglia all’altra e la loro utilizzazione familiare, restituivano loro una vita propria.

L’analisi dei legami e delle preferenze affettive, delle relazioni e delle solidarietà deci­frabili nei libri di famiglia metteva in luce alcune strutture profonde della parentela e i modi di esprimerle. La gente del Medioevo era appassionata non solo di genealogie, ma anche di schemi e grafici. Da tempo si utilizzava un semplicissimo repertorio di segni grafici per far capire visivamente, con un solo colpo d’occhio, o per analizzare in profondità gerarchie e concatenamenti di eventi, idee e concetti. Il mondo della parentela, con le sue ramificazioni e suddivisioni, si prestava particolarmente  a questo tipo di rappresentazione.  Me ne sono resa conto studiando qualche schema di genealogie fiorentine del XIV e XV secolo. Rimasi colpita dal carattere sistematico delle loro scelte e delle loro omissioni. Analizzandole bene, si scopre che i Fiorentini operavano una selezione dei dati genealogici e li inserivano nei loro schemi sbandierando chiaramente le loro preferenze: preferenze per il sistema di filiazione e successione dei beni patrilineare, per la rappresentazione discreta se non nulla delle donne, e per la rappresentazione delle discendenze dei lignaggi per fratrie di individui uguali. Cercai allora al di fuori della Toscana i criteri alla base delle rappresentazioni genealogiche della stessa epoca, e a piccoli passi arrivai a concludere una lunga indagine, nel tempo e nello spazio, sulla storia e la geografia delle immagini genealogiche nell’Europa del Medioevo e del Rinascimento. Scoprii come, e cercai di capire perché, questo periodo aveva arricchito i suoi schemi austeri integrandoli con una figura chiave del suo immaginario: l’albero.

Il va e vieni fra le rappresentazioni figurate della parentela- dagli schemi più aridi alle immagini più ricche di invenzioni visuali- e i discorsi esplicativi dei loro princìpi informatori non erano l’aspetto meno interessante di questa storia millenaria. E qui, mi sono di nuovo sorpresa a meditare con più piacere davanti a uno schema o a un’immagine genealogica che davanti a un testo scritto quale una lista d’antenati riportata da qualche cronista o storico di famiglia. Mi è parso che il disegno, la figura schematica o ornata, dovessero essere letti nel loro peculiare linguaggio, un linguaggio che può suggerire, con i suoi vuoti, le sue elisioni e i suoi legami, delle cose che il testo non può o non vuole dire.

Oltre alle manipolazioni delle genealogie concrete, che generalmente pretendevano di corroborare o demolire la linea di successione o la leggenda fondatrice di una dinastia, le immagini genealogiche mi sono sembrate un magnifico terreno in cui studiare le concezioni medievali e rinascimentali del tempo e della storia. Le figure delle genealogie di Cristo, per esempio, caratterizzate dall’attesa escatologica, dalla preparazione alla fine dei tempi, hanno tuttavia subìto un’evoluzione fra il decimo e il diciottesimo secolo: dai diagrammi alquanto indifferenti alla coerenza del vocabolario grafico tipici dell’epoca carolingia, e dalle rappresentazioni segmentate dello svolgimento temporale, a delle immagini dotate, a partire dal Duecento, di una chiarezza magnifica e di una logica grafica senza difetti; ciò che rivela che allora i chierici e le élites laiche prendevano coscienza del fatto che la storia sacra e la storia umana sono inseparabili e che la seconda è il prolungamento necessario della prima. In effetti, è da questo momento che la storiografia comincia a fondarsi sulla genealogia, e che, per esempio, i prìncipi d’Europa rivendicano origini non solo troiane ma anche bibliche. Le immagini genealogiche delle casate principesche e regie che si moltiplicano da quella data devono dunque essere considerate nel loro contesto cristiano e sacrale.

In seguito, il mio interesse per la coscienza di sé nutrita dalle famiglie medievali, rivelata da fenomeni vari, quali le forme dei nomi e cognomi, i rituali domestici, la genealogia e la memoria familiare, mi ha spinto a dedicarmi a un’altra lunga ricerca di storia sociale e politica, da cui erano per una volta assenti il privato, l’intimità domestica, le donne e le immagini. Essa ha riguardato un gruppo dell’aristocrazia cittadina e rurale, politicamente emarginato nella Firenze del Tre e Quattrocento, che veniva allora designato e anzi stigmatizzato come quello dei “magnati”. Partendo da un fatto particolare ma illuminante- i loro cambiamenti di nome al momento del reintegro nella comunità politica- ho percorso un campo che mi era ancora relativamente sconosciuto: l’ambito del politico, nelle sue diverse componenti, quali le strutture del potere, l’organizzazione delle competenze giurisdizionali, l’uso di categorie discriminatorie o integratrici, ma anche le speranze, i comportamenti, i progetti dei cittadini desiderosi d’impegnarsi appieno negli affari pubblici. In tempi come i nostri, che troppo spesso favoriscono, nel migliore dei casi, l’ignoranza reciproca fra “civiltà”, e nel peggiore l’insulto, il rifiuto e la rabbia assassina, non è stata- credo- una forma di fuga dalla realtà la scelta d’interessarsi alle dinamiche dell’esclusione e della marginalizzazione operanti in una società del passato.

Attualmente, è un altro gruppo sociale che ho cominciato a studiare, almeno in alcune sue caratteristiche correlate alla parentela. Gli artisti hanno avuto un ruolo pressoché nullo nella vita politica dei Comuni italiani, ma il loro influsso sul nostro immaginario è stato lungo e cospicuo. Mi pare che l’analisi delle linee di filiazione e di trasmissione, materiale e artistica, descritte da Vasari per il mondo degli artisti fra Trecento e Cinquecento offra l’occasione di tornare sulla dimensione “spirituale” (nel senso cristiano) della parentela, un tema spesso evocato da quell’autore. E così, dopo ampie deviazioni per la storia della fami­glia, delle donne, della parentela, e delle rappresentazioni figurate e dell’impatto politico di quest’ultima, eccomi tornata agli uomini- ben poche donne anche qui!- che attirarono la mia attenzione ai miei esordi.

Non so ancora quanto mi addentrerò nel puro regno delle immagini. Medito comunque di farlo per uno studio di più ampia portata su un tema iconografico, quello del Calvario, che certo pone interrogativi sui rapporti fra testo e immagine, tradizione e innovazione iconografica, committenza e libertà dell’artista; ma rinvia anche ad aspetti più propriamente storici. Infatti esso riguarda il posto del soggetto religioso nei contesti politici del Rinascimento, in specie quanto all’evoluzione delle pratiche giudiziarie, e investe il problema delle attese del pubblico dei fedeli e degli insegnamenti che gli si volevano impartire attraverso le immagini.

Mi perdonerete di aver parlato così a lungo di me stessa, spero - fra l’altro - senza cadere troppo nell’autocompiacimento. Per concludere, aggiungerò qualche notazione che va al di là del mio percorso personale.

Perché, direte forse, dov’è lo spirito unificatore di questo guazzabuglio di ricerche diverse? Queste deviazioni errabonde hanno, almeno per me, un senso? Ho messo le mie riflessioni sotto l’insegna di quel verso di Lucrezio che illustra la ricerca impossibile dello storico, quando cerca nel tempo, nello spazio, o nella propria coscienza un punto d’appoggio al quale fissare con sicurezza il proprio oggetto: “Da nessuna parte, anima mia, da nessuna parte, si trova il passato che ti è caro”. Quel passato che non chiama a raccolta altri che dei morti, dei fantasmi, trattati dallo storico come se fossero degli esseri viventi… Quel passato che nessuna immagine, nessun documento, nessuna traccia materiale saprebbe circoscrivere o contenere nella sua impossibile totalità… Quel passato che lo storico ricostruisce alla luce d’interessi e anche di passioni molto attuali… Cosa cerca dunque lo storico quando tenta di richiamare in vita il passato?

Ci si può domandare se la ragione di tale ricerca sia da individuare nel piacere della ricerca stessa, il piacere fin troppo egoistico della degustazione antiquariale del passato, che per altro gli stessi storici raramente osano invocare come giustificazione del loro lavoro. Non sorridete, studiosi di altre discipline, del fatto che il vostro collega storico trovi la sua felicità nella decifrazione degli sgorbi tracciati tanto tempo fa su di un manoscritto ormai consumato; che si diverta a mettere sottosopra vecchi archivi polverosi; che si commuova nel raccogliere qualche granello di sabbia con cui uno scrivano, forse al tempo della Peste Nera, asciugò il suo inchiostro; e che s’incanti davanti a una caricatura, un ghirigoro, un fantastico disegno animalesco che una volta aiutò un compunto notaio a sopportare la noia che lo assaliva nell’atto di verbalizzare una seduta di governo, o di copiare un dotto trattato di scienza. La ricerca è fatta anche di questi piaceri minuti. Ma bisogna confessarlo: lo storico arriva a gioire soprattutto quando, frugando fra i mazzi delle vecchie carte, s’imbatte nel documento inatteso, o troppo a lungo atteso.

Queste felicità, anche minuscole, sono un aspetto della ricerca storica che non si deve prendere alla leggera! Ma- diciamolo seriamente- pongono pure il problema della costituzione dei “fatti” storici e della natura del lavoro dello storico, con le importanti domande che ne conseguono. Innanzi tutto, se il passato di cui egli va alla caccia risieda nel suo stesso apparato di documentazione, cioè in un luogo lucrezianamente da lui stesso definito, e da dove pretenderebbe di poter disseppellire delle particelle significative di vita vissuta. E poi, se in quel luogo lo storico, aggiungendo senza tregua il tassello mancante all’una o all’altra delle sue serie di fonti, al suo racconto degli avvenimenti, alla sua ricostruzione di una biografia, oppure scoprendo il documento contenente la spiegazione convincente e definitiva di un problema, possa non solo placare la sua sete personale di conoscenza e alimentare un dialogo fecondo coi suoi simili, ma anche finalmente dimostrare addirittura la sua utilità sociale.

Vale la pena, infatti, domandarsi se il nostro storico cerchi di dialogare coi suoi predecessori o i suoi contemporanei, sull’esempio dei filosofi che intrattengono attraverso i secoli una conversazione senza fine. Ma rari sono gli storici che sappiano riprendere il gioco impostato da altri. I dialoghi fra storici si riducono spesso ad aggiungere una pietra a un edificio più antico, senza metterne in discussione le fondamenta; essi sono spesso frammentari, parziali ed effimeri.

Non si può neppure dire che il luogo dello storico, se non si trova né nelle tracce del passato né nei dibattiti che egli suscita, risieda nei modelli epistemologici che egli costruisce. I lavori degli storici sono infatti di tipo cumulativo e, per loro natura, se non incompiuti, almeno non definitivi. Bisogna forse rassegnarsi al fatto che il passato ricostruito dagli storici si profili, non senza fatica, attraverso le loro approssimazioni successive, la molteplicità dei loro possibili approcci. Oggi gli storici hanno rinunciato a racchiudere il passato entro schemi interpretativi forti, entro modelli indiscutibili: sentono infatti che se pretendessero d’imporre schemi e modelli, i loro edifici cadrebbero troppo presto sotto i colpi della critica e anche semplicemente del tempo.

E allora, di cosa va in cerca lo storico? E quali sono gli aspetti salienti del suo lavoro e i risultati dei suoi sforzi? Non sarebbe difficile- ammettiamolo- descriverne alcuni in termini limitativi e perfino negativi: la vana rincorsa di ombre lontane, che non hanno più nulla da dirci sul nostro mondo; la lotta inutile contro l’impossibilità di una spiegazione ultima delle cose; la fatica di Sisifo nello sforzarsi di illuminare momentaneamente qualche raro punto in una massa di oscurità; l’esercizio disinteressato ma elitario di una curiosità intellettuale priva di ogni verificabile effetto positivo sulla condizione degli uomini nel mondo; e addirittura, il gusto di una professione divertente per i suoi adepti, ma costosa, benché meno di altre, per le finanze pubbliche degli Stati.

Non si può negare che nella ricerca storica ci siano anche tali componenti. Eppure, dobbiamo porci una semplice domanda, più forte di tutti questi dubbi e di tutte queste obiezioni: possiamo davvero vivere senza il nostro passato? Lascio decidere a voi se quel passato “che ci è caro” non risieda prima di tutto nel nostro bisogno esistenziale, ineliminabile, di continuità e di trasmissione. Senza di esse, la nostra coscienza rischierebbe di ridursi a qualcosa di simile a un arido deserto.


Ultimo aggionamento documento: 05-Feb-2008