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Numero 14
Dicembre 2005

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La corporate governance nelle società quotate
Il caso italiano a confronto con Regno Unito e Stati Uniti

Il dipartimento di Economia aziendale “Giannessi” dell’Università di Pisa ha realizzato uno studio sui meccanismi di governance delle aziende italiane, prendendo in esame tutte le società quotate nel nostro paese, e li ha confrontati con quanto avviene in cento società straniere, cinquanta inglesi e cinquanta statunitensi. Gli obiettivi erano quelli di mettere a confronto sistemi di governo sottoposti a norme e pressioni informative diverse e di individuare le variabili che influenzano le scelte in tema di governance. La ricerca, di cui Athenet presenta un estratto sintetico, è stata svolta dai professori Marco Allegrini e Silvio Bianchi Martini e dai dottori Elena Bandettini e Giuseppe D’Onza.

gL’indagine sulla corporate governance si è concentrata, in primo luogo, sul consiglio di amministrazione, del quale sono state esaminate la composizione, la strutturazione interna e l’attività espletata. Oltre a considerare le caratteristiche dei membri che ne fanno parte (suddividendoli tra consiglieri esecutivi, non esecutivi e ), sono stati analizzati i comitati istituiti all’interno del consiglio e le attività svolte. Un altro aspetto su cui è stata incentrata l’attenzione è rappresentato dal sistema di controllo interno, del quale sono stati presi in considerazione i diversi attori e l’attività da questi svolta: un particolare approfondimento è stato dedicato sia al comitato di controllo interno sia al collegio sindacale. Le fonti esaminate hanno compreso la documentazione prodotta sul tema da parte delle aziende e pubblicata sui relativi siti internet (relazioni annuali di corporate governance, statuti societari, bilanci, report periodici e così via) e le schede riepilogative dell’attività di controllo, che le aziende sono chiamate a produrre e a mettere a disposizione annualmente alla CONSOB.
Per quanto concerne il contesto italiano, dall’indagine è emerso che, in base alle previsioni statutarie, i consigli di amministratori delle aziende qui considerate dovrebbero essere composti, in media, da un numero di membri oscillante tra 6 e 14; in effetti, gli organi amministrativi esaminati risultano essere formati, in media, da 10 amministratori. Scendendo, poi, nell’analisi dei singoli segmenti di Borsa, si nota che i consigli più ampi sono quelli delle aziende appartenenti al Mib30 e al Midex (nel grafico indicate come “IT TOP 55”) e, fra queste, risulta evidente una netta disparità tra le realtà operanti nei settori bancario ed assicurativo, da un lato, e quelle facenti parte di altri comparti dall’altro: le prime, infatti, presentano, in media, un numero di amministratori molto più elevato rispetto alle seconde (17 contro 12); quest’ultima differenza, peraltro, risulta essere presente anche nell’ambito degli altri segmenti.
Per quanto concerne la figura del Presidente, in Italia nella maggioranza dei casi è risultata essere separata rispetto a quella dell’Amministratore Delegato, sebbene il Codice Preda non lo richieda. In alcune delle realtà esaminate, peraltro, è evidente come anche se le due figure sopra menzionate risultano formalmente separate, si tratta di cariche rivestite da persone appartenenti alla stessa famiglia, nonché al gruppo di comando. Anche in questo caso, dall’esame dei dati raccolti emergono rilevanti differenze tra le aziende italiane: ben l’86% delle società appartenenti al MIB 30, infatti, ha un Presidente distinto dall’Amministratore Delegato, mentre nell’ambito del segmento Ordinario ciò si verifica solo nel 52% dei casi.
Riguardo a questo aspetto, si rilevano notevoli differenze rispetto alle altre realtà esaminate: in Gran Bretagna, infatti, la quasi totalità delle aziende appartenenti al campione applica rigorosamente la divisione tra il Presidente e l’Amministratore Delegato, così come, del resto, è richiesto dal Combined Code; nel contesto statunitense, invece, è raro trovare queste due cariche separate: nella stragrande maggioranza dei casi, risultano essere, invece, ricoperte dalla stessa persona.
Per quanto riguarda l’indipendenza del Presidente, dai dati è emerso che nella maggioranza delle aziende inglesi il Presidente è indipendente, mentre sia in Italia sia negli Stati Uniti, ciò si verifica solo raramente: in particolare, delle società americane esaminate, solo 3 hanno dichiarato di avere un Presidente indipendente.
gIn merito alla composizione dell’organo amministrativo, dal confronto tra i tre Paesi è risultato che i consigli di amministrazione statunitensi presentano generalmente una più alta percentuale di amministratori non esecutivi rispetto a quelli italiani e a quelli inglesi. Per quanto concerne, poi, la presenza di consiglieri indipendenti, questa è più bassa nel contesto italiano rispetto a quanto avviene negli altri due Paesi. Tuttavia si rileva come, in Italia, la nomina di questa tipologia di amministratori costituisca una “novità”, visto che in passato di solito i membri del consiglio erano sempre soggetti legati al gruppo di comando o al management.
In merito ai comitati interni al consiglio, nel contesto italiano, a differenza di quanto avviene nelle aziende anglosassoni, si è rilevata una presenza di quello per le proposte di nomina estremamente limitata (solo il 13% delle aziende appartenenti al campione, infatti, ha dichiarato di averlo costituito). Quelle che, invece, non lo hanno costituito hanno giustificato il loro comportamento asserendo che la struttura della compagine sociale o la limitata ampiezza del consiglio non lo rendevano necessario. Del resto, è doveroso precisare che la costituzione di questo comitato non è espressamente richiesta dal Codice Preda.
In merito alla remunerazione degli amministratori i dati raccolti mostrano che in Italia il relativo comitato è stato costituito dal 68% delle unità considerate, una percentuale, quindi, nettamente superiore rispetto a quella del comitato per le proposte di nomina. Alcune differenze emergono dal confronto tra le aziende in base al settore di appartenenza: il comitato è stato infatti costituito dal 74% del comparto bancario o assicurativo, mentre nelle altre realtà la percentuale scende al 66%. Anche in questo caso, peraltro, sono evidenti le differenze tra i tre Paesi considerati: quasi tutte le aziende americane e la totalità di quelle inglesi, infatti, hanno costituito tale comitato.
Per quanto concerne, in particolare, il sistema di controllo interno, fra i vari sub-comitati del consiglio di amministrazione, il comitato per il controllo interno costituisce quello avente una maggior diffusione nelle società quotate, in quanto il 76% delle società analizzate ha provveduto alla costituzione di tale comitato, anche se in taluni casi (5%) alcuni dei suoi membri sono amministratori esecutivi. Dalla ricerca emerge che l’audit committee è più frequente nelle società italiane a maggior capitalizzazione e nelle società quotate presso il segmento star e del nuovo mercato, in quanto in quest’ultimo caso la presenza di tale comitato costituisce un requisito necessario per mantenere la qualifica di star e di società del nuovo mercato. La maggior parte dei collegi sindacali è composto da 3 sindaci (90,5%) mentre i restanti sono composti da 5 membri. Dall’analisi si rileva che soltanto il 26% delle società ha almeno un membro del collegio eletto dagli azionisti di minoranza nel caso in cui l’organo sia composto da 3 membri o almeno due sindaci qualora il collegio sia costituito da 5 componenti.
Oltre a ciò, i collegi sindacali presentano a volte, come detto, componenti molto “impegnati”: basti pensare che 40 sindaci risultano avere più di 50 incarichi in società quotate e non. Tra le variabili che possono esercitare una certa influenza nelle scelte operate in tema di corporate governance, in seguito ad un esame critico della letteratura esistente sull’argomento, sono state individuate le possibili “determinanti”: il settore e il Paese di appartenenza, la dimensione, la struttura finanziaria, la redditività, la composizione della proprietà e l’ampiezza del consiglio di amministrazione; con riferimento al contesto italiano, inoltre, è stato anche considerato il segmento di quotazione. Come si è visto, è proprio quest’ultimo, insieme al settore di appartenenza, a rappresentare due degli elementi che maggiormente influenzano le scelte di governance delle società italiane.
In estrema sintesi dalle indagini è emerso che:
-le società inglesi presentano, in genere, dei consigli di amministrazione formati, in maggioranza, da membri indipendenti e da un amministratore delegato distinto dal presidente; quest’ultimo, inoltre, il più delle volte risulta essere indipendente; in generale, è risultata molto elevata la presenza di tutti i comitati considerati (il comitato per le nomine, il comitato per le remunerazioni ed il comitato per il controllo interno);
-le società americane generalmente combinano le due figure di amministratore delegato e di presidente in un’unica persona, ma si caratterizzano per una presenza di amministratori non esecutivi ed indipendenti particolarmente ampia; anche in questo caso, in generale, i comitati considerati sono stati istituiti;
-le società italiane hanno spesso l’amministratore delegato distinto dal presidente, ma sovente quest’ultima carica è rivestita, specialmente nelle società non finanziarie, dal principale azionista o da un manager dell’azienda; per quanto concerne i comitati, raramente è possibile riscontrare la presenza del comitato per le nomine (anche a causa della struttura della proprietà), mentre sono abbastanza diffusi quello per le remunerazione e quello per il controllo interno, nonostante il Codice Preda (che ne raccomanda l’istituzione) sia di recente emanazione. Dai risultati emerge inoltre come le maggiori società italiane (in particolare quelle appartenenti al MIB30 ed al MIDEX) e quelle appartenenti ai settori bancario ed assicurativo si stiano avvicinando sempre più al modello anglosassone (si pensi, ad esempio, ala separazione tra presidente e amministratore delegato, alla presenza di amministratori non esecutivi ed indipendenti, alla costituzione del comitato per le remunerazioni); al contrario, quelle di più modeste dimensioni continuano a mantenersi ancorate alle caratteristiche proprie del modello “made in Italy”.

Marco Allegrini
docente di Economia aziendale
allegrin@ec.unipi.it

 

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