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Il volgare nei carteggi tra Pisa e i Paesi Arabi

Fin dal XII secolo, e lungo tutta la sua storia, la Repubblica pisana ha intrattenuto con i paesi arabi del bacino del Mediterraneo fittirapporti politico–commerciali, e di conseguenza fitti carteggi, dei quali restano oggi un po’ più di settanta documenti, tutti segnalati e in parte pubblicati dallo storico e arabista Michele Amari tra il 1863 e il 1867. La maggior parte di questi documenti sono in lingua araba o in traduzione latina, ma ve ne sono anche alcuni, per la verità pochi, tradotti nella lingua che si parlava e scriveva a Pisa, cioè, come si dice tecnicamente, in volgare pisano.

Trattato tra Pisa e Tunisi del 1264

Trattato tra Pisa e Tunisi del 1264

Il più importante di tali pezzi volgari è il Trattato tra Pisa e Tunisi del 1264, tradotto da un originale arabo perduto; si tratta d’un bel documentoscritto molto accuratamente su una pergamena di grandi dimensioni (63–66 x 44–53 cm). A parte le due prime righe e l’ultima, che corrono da un margine all’altro del foglio, il testo è impaginato su due colonne ed è articolato in 37 capitoli, ognuno con un proprio titolo, in riga a sé, centrato, e preceduto da un segno di paragrafo; le iniziali dei capitoli sono disegnate con cura, in genere alternando forme capitali e forme non capitali. La qualità del testo corrisponde all’accuratezzaesteriore del pezzo; così la lingua vi appare chiara, appropriata e meditatamente intinta di latino: per esempio la congiunzione u (che era la forma pisana per ‘o’) viene costantemente “travestita” nel latino ut, secondo una consuetudine grafica arcaica. La lingua latina compare solo all’inizio, nell’invocazione alla Vergine, e alla fine, nella sottoscrizione notarile: Rainerius Scorcialupi notarius, scriba publicus Pisanorum et Comunis Portus in Tunithi, presens translatum huius pacis scripsit, existente interprete probo viro Bonaiunta de Cascina de lingua arabica in latina ‘Ranieri Scorcialupi, notaio al servizio della comunità mercantile pisana in Tunisi, scrisse la presente traduzione dell’accordo, essendo interprete dall’arabo in volgare Bonagiunta da Cascina’ (in lingua latina vale qui ‘in volgare’). Il carattere più notevole del pezzo risiede nell’apparizione del volgare in un pubblico documento tra stati, cioè in un ambito di scrittura nel quale l’uso del latino rimarrà esclusivo ben oltre la metà del Duecento: un’apparizione tanto più sorprendente perché tutte le caratteristiche esterne ed interne del documento (dimensioni della pergamena, impaginazione, qualità della scrittura, qualità della lingua, correttezza delle frasi latine) sembrano escludere che la sua redazione in volgare sia dipesa da una qualche contingente difficoltà a stenderlo in latino.

Ma quali altri esempi di traduzioni dall’arabo in volgare ci sono rimasti? Diciamo subito che non possono rientrare nel conto le traduzioni di tre documenti emessi dal Cairo in favore di Pisa tra il 1179 e il 1216, perché quelle traduzioni non furono eseguite da pisani ma da un maltese, tale Raimondo Cardus, e non furono commissionate da Pisa ma, intorno al 1420, dalla Signoria di Firenze. All’indomani della conquista di Pisa (1406), Firenze era infatti interessata ad ereditare i privilegi che Pisa aveva nel tempo ottenuto dai paesi arabie soprattutto dall’Egitto, tanto che, oltre ad incaricare il Cardus di quelle traduzioni, la Signoria si preoccupò pure di raccogliere, nell’attuale manoscritto 786della Biblioteca Riccardiana di Firenze, le copie di undici traduzioni (dieci in latino e una in volgare) di documenti egiziani giunti e tradotti a Pisa tra il 1154 e il secolo successivo. L’arcaicità dei documenti che si raccolsero e si tradussero a Firenze non deve meravigliare, sia perché al momento della conquista fiorentina l’Archivio del Comune di Pisa non conservava documenti più recenti relativi all’Egitto, sia perché in politica estera, da che mondo è mondo, contano anche i precedenti remoti.

Accanto al Trattato con Tunisi del 1264, si posseggono in definitiva due soli altri documenti volgari. Il più antico, traduzione d’un editto del sultano d’Egitto databile tra il 1221 e il 1291, è l’unico pezzo volgare tra le undici traduzioni eseguite a suo tempo a Pisa e copiate tanto più tardi a Firenze nel manoscritto della Biblioteca Riccardiana. Benché dilavata da mano fiorentina, la copia riccardiana conserva sicure tracce pisane, in qualche caso anche arcaiche: este ‘č’, mei ‘miei’, pió ‘pił’, qualunqua ‘qualunque’, istranno ‘staranno’, istrave ‘starà’, matrassa ‘materasso’, srave ‘sarà’, forsa ‘forza’, isforsato e isforsati ‘sforzato –i’. Quello che però più conta notare è che il pezzo manca della data e addirittura dell’indicazione dell’autorità emanante: due assenze che configurano una scrittura del tutto ausiliaria, forse sistemata, in origine, sul medesimo foglio che conteneva il documento arabo tradotto.

Trattato tra Pisa e Fez del 1358

Trattato tra Pisa e Fez del 1358

L’altro documento volgare s’inquadra in una procedura diplomatica che merita d’essere descritta. Nel 1358 Pierus de Barba, inviato di Pisa, stipula un trattatocol sultano di Fez; il relativo documento arabo, datato 7 aprile, occupa poco meno della metà superiore d’una grande pergamena (85 x 43 cm.) Secondo l’uso dei trattati arabi, il testo s’apre con una pomposa presentazione del sultano e configura l’azione giuridica come una graziosa concessione dello stesso a fronte di patti chiesti dalla parte pisana. Il 20 agosto del medesimo anno gli Anziani di Pisa, esaminati i capitoli dell’accordo in nostro ydiomate sive lingua latina reducti et nobis diligenter ostensi et explanati per prudentem virum Franciscum Gerioli, dilectum civem et interpretem nostrum ‘tradotti nella nostra lingua e a noi diligentemente mostrati e illustrati da Francesco Gerioli, buon cittadino e nostro interprete’, fanno rogare in calce al documento originale, dal loro notaio Corrado di Ricciardo di Rinonichi, due distinti strumenti: il primo che ratifica gli accordi e il secondo che, in immediata applicazione degli stessi, dispone la liberazione di tredici schiavi arabi. È notevole che il documento arabo, presentando l’azione giuridica come una graziosa concessione, non faccia alcun cenno alla prossima ratifica pisana, che pure avvenne presente et audiente domino Iacobo milite filio olim Muzè Rachany ‘in presenza del cavaliere signor Iacopo, figlio del fu Muzè Rachany’, servitore e inviato del sultano. Per ostendere ed explanare, nostro ydiomate sive lingua latina (che di nuovo significa ‘in volgare’), il testo arabo, l’interprete Francesco Gerioli ne dovette preparare una traduzione, che oggi conosciamo tramite una tarda copia seicentesca; la quale copia, per quanto linguisticamente molto dilavata, conserva in effetti qualche trattopisano: nauleggiamento ‘noleggio’, nauleggiare ‘noleggiare’, naulo ‘nolo’, innele e indele ‘nelle’, lassare ‘lasciare’. Sebbene l’originale materialità dello scritto sia andata perduta, il suo carattere di semplice strumento di servizio risulta indiscutibilmente dalla narrazione compresa nello strumento di ratifica notarile.

Insomma, solo due testi risultano accostabili al Trattato del 1264, ma entrambi se ne differenziano per essere sprovvisti di valore legale. La volgarità di quellescritture di servizio si spiega col combinato della loro funzione e del fatto che le traduzioni dall’arabo in latino avvenivano in due tempi: una traduzione dall’arabo in volgare e la successiva trasposizione della traduzione volgare in forma latina; è quindi possibile che in certi casi, quando il volgare bastasse ai fini informali della traduzione, si sia risparmiato il secondo passaggio. A questo proposito ricordo, come cosa ben nota, che a Pisa non mancava certo chi fosse in grado di parlare e leggere l’arabo, come i già visti Bonagiunta da Cascina e Francesco Gerioli; mi pare invece poco o per nulla citato il fatto che la cancelleria pisana è stata anche in grado di produrre, almeno nei suoi anni migliori, una corrispondenza diplomatica in arabo: ne avanzano due lettere del 1181 e una del 1215, tutte e tre arabe non solo nella lingua, ma nelle tipiche formule autenticativee cerimoniali.

Gli unici due pezzi volgari accostabili al Trattato del 1264, che si spiegano appunto col ruolo fondamentale del volgare nella mediazione tra la lingua ordinaria delle carte arabe e il latino (lingua ordinaria delle carte occidentali), confermano quindi l’unicità del nostro Trattato e la individuano appunto nella presenza della sottoscrizione notarile. Sarà allora interessante osservare che una sola delle sei traduzioni latine di trattati con i paesi arabi è provvista, come quella volgare del 1264, di sottoscrizione notarile: si tratta di nuovo d’una pace con Tunisi, ma questa volta del 1353. La sottoscrizione notarile in calce alla versione occidentale d’un originale arabo è dunque una rarità non solo nel ristrettissimo campo delle traduzioni volgari, ma anche in quello più ampio delle traduzioni latine; in definitiva, per quanto ne sappiamo, l’autorità comunale pisana adottò due sole volte la soluzione di far corrispondere all’originale arabo una traduzione (volgare o latina) garantita da un notaio sottoscrivente, che in entrambi i casi dichiara l’identità dell’interprete (o, come si diceva, “turcimanno”). Tale soluzione non divenne evidentemente una regola, tant’è che nella versione latina dell’ultimo trattato stipulato dal libero Comune di Pisa (ancora con Tunisi, nel 1397) manca di nuovo ogni intervento notarile, ma in calce si legge, come mai era avvenuto nelle traduzioni senza sottoscrizione di notaio, un’adeguata identificazione del traduttore: suprascripta omnia [...] interpretata et translata de lingua arabica et saracena in latinam per Pierum Paganuccii pisanum civem habitantem Tunithio, in fondaco dictorum pisanorum torcimannum ‘le cose soprascritte sono state interpretate e tradotte dall’arabo in latino da Piero Paganucci, cittadino pisano, abitante a Tunisi, turcimanno nel fondaco dei detti pisani’.

Nella successione dei documenti latini e volgari fin qui ricordati mi pare si evidenzi un certo sperimentale eclettismo della parte pisana nel recepire i documenti arabi, un eclettismo che mi sembra dipendere dalla comprensibile difficoltà del Comune ad accogliere l’impianto diplomatico di tali documenti, tutti caratterizzati da due pretese: quella che l’accordo fosse una concessione elargita dal principe islamico e quella che il documento che lo sanzionava fosse motivato da una richiesta di Pisa. Si aggiunga che la formula della concessioneelargita e il fatto che l’originale fosse di conseguenza sempre in lingua e forma araba (così come gli accordi venivano comunque stipulati nel paese musulmano) sono elementi che dovevano determinare una certa indifferenza del contraente d’oltremare riguardo all’esistenza e alla natura d’un corrispettivo documento occidentale: il che può aver reso meno impellente la fissazione d’una formula di ricezione da parte pisana, favorendone anzi l’eclettismo che m’è parso di riconoscere.

Traduzione in volgare, scritta in caratteri arabi, della lettera del signore Bona e Bugia del 1366

Traduzione in volgare, scritta in caratteri arabi, della lettera del signore Bona e Bugia del 1366

Tornando alla questione da cui siamo partiti, cioè all’inattesa volgarità della versione occidentale del Trattato con Tunisi del 1264, ritengo che l’episodio, perché d’un episodio si tratta, sia da spiegare con la concomitanza di tre fattori: 1) la possibilità di concepire, nel quadro dell’eclettismo sperimentale di cui s’è appena detto, un tipo di strumento radicalmente nuovo; 2) la suggestione derivante dal fatto che le versioni dall’arabo avvenissero di norma tramite una mediazione volgare, grazia alla quale la lingua di tutti diveniva veicolo di espressioni altamente formalizzate; 3) la precocissima disponibilità della Toscana, con la ben nota precedenza cronologica di Pisa, alla sperimentazione di nuove applicazioni della scrittura in volgare. L’elenco dei testi volgari compresi nei carteggi tra Pisa e i paesi musulmani conta per la verità ancora un pezzo, di cui però non posso dare, come subito si capirà, che una vaga notizia. Si tratta d’una scoperta importante, e scomoda, fatta a suo tempo da Michele Amari e rimasta poi del tutto inavvertita: un testo volgare scritto in caratteri arabi. Il pezzo costituisce, se non proprio un «mostro in museo di storia naturale», come s’espresse l’Amari, un fatto del tutto unico nella storia della lingua italiana. Il testo risale al 1366 e costituisce la traduzione d’una lettera con promesse di benefici per i mercanti pisani scritta il 16 giugno di quell’anno dal signore di Bona e Bugia, lettera che possediamo in originale. Questa traduzione occupa per intero la c. 2v, prima secondo l’impugnatura araba, d’un bifolio cartaceo che reca una filigrana segnalata negli anni ’20 del ’300 tra Pisa, Bologna e Siena: le pagine interne (cc. 2r e 1v) sono bianche mentre la c. lr, prima secondo l’impugnatura occidentale, reca sul quadrante inferiore destro una scritta, forse ancoratrecentesca, che indica l’uso del supporto come “camicia” di documenti arabi (uso durato secoli, come indica la scritta assai più recente che si legge nel quadrante superiore destro: «Otto carte di diverse grandezze scritte in arabo delle quali dicesi nel frontespizio esservi ai respettivi cassetti la traduzione, che per anche nonsi trova»). Questo bifolio è notevole perché tra le scritture in caratteri arabi edite dall’Amari nessun’altra è eseguita su bifolioe solo un’altra è eseguita su carta filigranata (che vuol dire occidentale); qui però il discorso s’imbroglia per la non trascurabile coincidenza che l’unica altra scrittura in caratteri arabi su carta filigranata è giustappunto l’originale della lettera del 16 giugno del 1366, anche se in questo caso non si tratta d’un bifolio e la filigrana, ch’è diversa, risulta segnalata a Palermo e a Napoli tra il 1364 e il 1379.

Oltre questa descrizione esterna e materiale non posso procedere, perché la traslitterazione in caratteri latini offerta dall’Amari a poco serve senza l’aiutocontinuo d’un arabista che sia filologo e abbia una specifica competenza linguistica e paleografica relativa al Mediterraneo occidentale arabo del XIV secolo. Mi auguro che la rinnovata segnalazione del «mostro in museo di storia naturale» serva ad attirargli finalmente l’attenzione di chi sia in grado di studiarlo: il reperto ècerto minimo e modesto, ma nella sua unicità è anch’esso testimone dell’eccezionale crocevia, anche linguistico, che fu la Repubblica di Pisa.

Livio Petrucci
docente di Filologia italiana
petrucci@ital.unipi.it

Bibliografia