Laudatio di Luciano Gallino
di Mario Aldo Toscano, Ordinario di storia e teoria sociologica nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, past-President dell’Associazione Italiana di Sociologia

Luciano Gallino è un osservatore-attore, testimone della nostra storia. Da più di cinquant’anni egli svolge il suo lavoro intellettuale come lavoro eticamente costruttivo, e vocazione. Nella sua austerità e nel suo metodo, nella sua devozione alla ricerca che non si conclude mai e pone sempre nuove domande, egli interpreta quella qualità professionale autenticamente drammatica che Max Weber attribuiva al all’impresa conoscitiva razionale in un mondo attraversato dal disincanto.

Presente nei problemi che hanno costellato e costellano irrimediabilmente la vita nazionale, continua nella sua assidua indagine: segnata da opzioni di valore che vengono da lontano e rimangono costanti nel tempo non essendo state mai deposte ai piedi dell’altare del conformismo prevalente e del potere contingente come spesso avviene nelle paludi dell’intelligenza ‘compatibile’ e ‘benpensante’ di cui l’Italia è da sempre prodiga, nazionalmente e internazionalmente.

Nell’onorare Luciano Gallino, come fa in virtù della sua dignità storica e la sua tradizione di valori culturali, scientifici, accademici e didattici l’Università di Pisa, viene onorata nel contempo la migliore coscienza collettiva dell’ultima metà del secolo scorso, che si protende verso questo secolo con le sue esigenze, le sue preoccupazioni, le sue speranze, le sue proposte, finanche le sue utopie, destinate a contribuire alla lotta per la civiltà del Paese.

Dobbiamo dunque ripensare gli ultimi cinquant’anni della nostra storia per una meditazione adeguata sulle sfide che la generazione di Gallino e Gallino per esperienza diretta hanno affrontato.
Quando Gallino ha avviato la sua avventura intellettuale, presso la Olivetti di Ivrea nel 1956, l’Italia era uscita solo da un decennio dalla guerra ed era impegnata ancora nella ricostruzione: che avanzava tumultuosamente confluendo nelle trasformazioni radicali del decollo industriale. Era un’Italia densa di fervore, di eventi, di sollecitazioni, di innovazioni, di desideri, di determinazione a fare, e anche di pensiero programmatico: in una parola un’Italia piena di futuro, che si manifestava come percorso da compiere, sufficientemente visibile e voluto. In quella situazione di grande vitalità, la comunità nazionale mostrava una grande unità proprio nell’agire, sebbene non mancassero affatto aspri contrasti, gravi ipocrisie e ripiegamenti piccolo-borghesi destinati a riproporsi in maniere subdole o violente in seguito. L’Italia di cui disponiamo oggi si regge ancora su quelle basi, diventate ovviamente malferme e obsolete per la prosecuzione della storia e la moltiplicazione dei bisogni. La pubblicistica corrente, nelle sue espressioni più consapevoli e comparativamente critiche, non stenta a riconoscere che pur tra tante miserie in quell’epoca vi furono discrete grandezze.

Che furono grandezze delle persone ma anche grandezze dei movimenti di massa, delle ideologie, e finanche dei partiti. Vi fu comunque un’etica, che permise, rispetto all’attuale depressione generalizzata, una prassi come modalità identitaria e, per così dire, audacia dell’esserci. La lungimiranza non fu, dobbiamo ammetterlo, così elevata come talvolta si pretendeva, e devastazioni territoriali, dilapidazioni finanziarie, deviazioni istituzionali, errori di prospettiva e orrori estetici sono altrettante evidenze dalle quali è difficile liberarsi ed hanno avuto un’influenza pedagogica forse anche più deleteria di quella materiale. Non mancarono documentate accuse e forti denunce.
Ciononostante, nel turbinio dei fatti e dei misfatti, l’Italia compiva passi precedentemente quasi impensabili verso la modernizzazione. E la cultura sociologica di cui Gallino era tra i maggiori esponenti emergeva come un prodotto originale della realtà in mutamento.

Guardando agli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non è difficile avvedersi che l’esigenza di una conoscenza sociale coerente con i tempi promanava dagli stessi elementi e fattori di mobilitazione della evoluzione sociale in atto. Non c’era stata sostanzialmente sociologia in Italia prima di quell’epoca. Gli storici della disciplina ricordano antiche controversie fin de siècle e nomi di studiosi non privi di qualità e buone intenzioni. Ma furono intellettuali accademici che parlavano ‘in astratto’ della società e di fenomenologie sociali pensate secondo echi che venivano d’Oltralpe. La sociologia a cavallo dell’Ottocento e del Novecento, ad eccezione del solitario e aspro Vilfredo Pareto riparato in quel di Céligny sul lago Lemano, fu essenzialmente una contingenza accademica poco espressiva della vicenda italiana di quell’epoca, assente di fatto dalla considerazione di processi di estrema importanza, come per esempio l’emigrazione di massa che dal 1870 al 1914 sottrasse all’Italia non meno di 25 milioni di cittadini-non cittadini. La società era cooptata dalla buona società di cui i sociologi facevano parte. Fuori, la società esibiva le sue contraddizioni e presentava spesso il volto del conflitto, da esaminare nelle cause e negli effetti piuttosto che da esorcizzare.

Dagli anni sessanta del ‘900 in avanti la società diventa il tema semplicemente perché è il problema: presente nella realtà e nella coscienza. L’Italia è scossa dalle fondamenta e nel giro di pochi anni cambia l’immagine-paese sia in pubblico che in privato. La società avanza con le sue indilazionabili domande a cui dare risposte non evasive. Bisognava rivedere l’attrezzatura morale ma in primo luogo intellettuale con la quale maneggiare una realtà materiale profondamente mutata, prorompente e sfuggente. Mai era stato così intenso ed evidente il legame tra movimenti reali e movimenti del pensiero. La sociologia fa un prodotto concreto delle cose prima che un compimento teorico degli uomini. Stava negli eventi prima che nelle menti. Fu pertanto l’associazione forte società-sociologia a sorreggere il successo crescente della disciplina, al di fuori dell’accademia e nell’accademia.
Ciò ha ben vissuto Gallino, che dal suo laboratorio scrutava a distanza ravvicinata i movimenti e i mutamenti in atto.

Coerentemente con il suo status di ricercatore, assumeva punti di vista: dai quali risalire per via induttiva alle questioni cruciali del sistema sociale. In quell’epoca appunto il ‘sistema sociale’ rivelava una particolare cogenza paradigmatica (nota 1). Esso prevede integrazione e solidarietà delle parti componenti. Non fu solo un momento teorico; il presupposto trovava applicazioni critiche specifiche nella situazione: c’era in effetti un problema sistemico in Italia, con un seguito di inclusioni nella cittadinanza sociale che non fu né facile né pacifico. Moltitudini si spostarono dalle Meridione al Settentrione e dalla campagna alla città; e un urbanesimo convulso si riversò sul territorio e sulle coscienze, con discontinuità e contraddizioni che ancora oggi non sono sanate. Il lavoro proponeva le medesime esigenze di dilatazione della cittadinanza: che videro soddisfacente conciliazione nello statuto dei lavoratori varato con la legge 300 del 20 maggio 1970.

Abbiamo detto dei punti di vista induttivi dai quali muoveva Gallino; in realtà si trattava di un complesso di argomenti cruciali: la fabbrica, il lavoro, le tecnologie, la formazione. Dietro queste modalità concrete e pratiche egli vedeva il soggetto, l’attore: eminentemente il lavoratore.
Essendo un uomo inflessibile, mise questo insieme di questioni alla base dei suoi procedimenti analitici e infine sintetici. Le sintesi sono giunte in maggior misura nelle pubblicazioni degli ultimi tempi. Ma non si deve trascurare la duratura ispirazione dei primi tempi. Questa ispirazione aveva un nome: Adriano Olivetti.

Adriano Olivetti con il suo movimento di comunità ambiva a mettere nella industrializzazione italiana un umanesimo di stampo laico e di speciale afflato promotivo. La connessione virtuosa capitale-lavoro passava attraverso la riduzione delle asperità delle condizioni e contraddizioni di classe, in particolare ricreando intorno al luogo di lavoro un ambiente di vita complessivo e collaborativo, in cui la sicurezza personale fosse estesa alla sicurezza della famiglia e delle relazioni sociali. Rispetto alle forme più crude e volgari del capitalismo sotto tutte le latitudini e in ogni epoca, le intenzioni di Adriano Olivetti brillavano e brillano ancor oggi per respiro etico e grandi orizzonti (nota 2). Il problema era la comprensibilità e spendibilità politica generale della sua proposta. Che fu e rimase solitaria: niente affatto seguita da analoghe iniziative dei suoi stessi colleghi capitalisti, i quali preferirono marciare non nella nitidezza dei comportamenti e nella innovazione dei processi di potere aziendale, ma lavorare nelle penombre dei sottoboschi, nei meandri dei compromessi clientelari, negli andirivieni delle alleanze governative e ministeriali. Fallì non tanto per la coalizione di innominate forze avverse, ma per la preferenza egemone accordata in Italia alla ‘cattiva’ comunità di cui il paese era complessivamente portatore rispetto alla ‘buona’ comunità di cui Olivetti si faceva assertore in una prospettiva socialmente religiosa ma culturalmente minoritaria. Neanche la chiesa fu da quella parte, probabilmente per timori competitivi, confidando nelle più casalinghe parrocchie.

Olivetti fece registrare tuttavia un grande successo sociologico: nel senso di promuovere la sociologia in Italia in maniera antesignana, concreta e con importanti sollecitazioni progettuali. La comunità dové fare i conti con la razionalizzazione (nota 3): e si pose il pensiero della società, da costruire come grande occasione di elevazione materiale e morale, e ‘realizzazione’ della Costituzione come programma di società se non totalmente ‘giusta’, almeno giustificabile!(nota 4)
Nell’incontro tra società e sociologia, i sociologi di quell’epoca furono capaci di adempiere ad un compito ‘nazionale’. E a nulla valse l’antica opposizione di Benedetto Croce che apostrofava la sociologia come “inferma scienza, arbitraria e sconclusionata”, che non ha avuto fortuna né in Germania né in Italia “se non presso scrittori privi di buona e vigorosa logica ossia scarsi di critica”(nota 5) . Né ebbe maggior ascolto il saggio del tutto negativo di Ugo Spirito, allievo di Gentile, pubblicato nel 1967 su una rivista di filosofia e sulla Rassegna italiana di Sociologia(nota 6), fondata da Camillo Pellizzi, Università di Firenze, unico cattedratico di sociologia fino al 1963. Non furono neanche le controdeduzioni dei maggiori sociologi dell’epoca (Pellizzi, Ferrarotti, Morra, Crespi, Palazzo, Castellano, etc.) a far ricredere i filosofi renitenti. Fu appunto il processo della realtà a eliminare le resistenze.

La sociologia cresceva in base ad una sempre più diffusa e interstiziale legittimazione fattuale: mai come allora la sociologia apparve teoria e prassi, tanto da inglobare anche il servizio sociale. Fu comunque una battaglia difficile, ma fu vinta, e la sociologia come dottrina del moderno penetrò nel terreno lungamente interdetto delle istituzioni e poté guadagnarsi un piccolo esercito permanente idoneo a presidiare le posizioni raggiunte ed eventualmente a potenziarle. Uno spirito nuovo entrò nella cittadella universitaria e di esso fruirono non solo la sociologia, ma l’economia, la psicologia, l’antropologia, la statistica, la demografia e tutte le altre ‘scienze’ sociali. Si aprono nuovi scenari; l’ethos cambia, ma anche l’ethnos è obbligato a nuovi rapporti e confronti. Muta il territorio, mutano le attività, muta la vita nazionale, muta lo stile degli uomini. Muta la linguistica generale dell’epoca.

La letteratura sociologica provvedeva ai suoi veicoli di diffusione e alla cura della sua immagine per un pubblico in via di espansione. Fondata nel l960 dal citato Camillo Pellizzi, la Rassegna intendeva rispondere, veniva detto nel primo numero, al quesito “dove si va”, “concesso che la sociologia abbia ad essere strumento conoscitivo e tecnico di un mondo umano in quanto esso consapevolmente si fa”. Strumento dotato di grandi inclinazioni interdisciplinari.(nota 7).

Era già nata nove anni prima, nell’estate del l951, la prima rivista di sociologia del dopoguerra, i Quaderni di sociologia, editi da Taylor a Torino sotto la direzione di Nicola Abbagnano e Franco Ferrarotti. Nel primo numero, si riporta il piano di lavoro che rappresenta nel medesimo tempo la “piattaforma programmatica essenziale” della rivista. Si prevedono tre sezioni: nella prima, di natura teorica, si tratta di temi di ordine generale e orientativo, nella seconda, a carattere applicativo, sono affrontati il rapporto tra città e campagna, il lavoro industriale, l’organizzazione della cultura; nella terza i metodi e le tecniche di ricerca (nota 8). Ci dovremmo soffermare maggiormente su questa rivista, diretta da decenni ancor oggi secondo l’antico schema da Luciano Gallino.

Sedici anni dopo, nel l967, Ferrarotti, energico promotore della rinascente sociologia nazionale, dà vita ad una nuova rivista, La critica sociologica, che affianca, egli scrive, la sua attività “complementare e simmetrica” a quella dei Quaderni. Negli anni ‘60 si realizzava anche qualcosa che doveva costituire un precedente cruciale di analoghe iniziative future. Con il deciso apporto del presidente della Provincia di Trento, Bruno Kessler, e il beneplacito della Democrazia Cristiana della Regione, viene fondato a Trento prima l’Istituto Superiore di Scienze Sociali (l962), poi la Facoltà di Sociologia (1967).
Da quell’epoca, altri corsi di laurea in sociologia sono stati istituiti: a Roma, a Salerno, a Napoli, a Urbino e poi un po’ ovunque; alcuni di essi trasformati successivamente in Facoltà (Roma, l991-92, Napoli, 1994-95).

Gallino segue il suo percorso, riservato e proficuo. Contribuisce a suo modo alla fondazione della sociologia in Italia: elabora negli anni ‘70 un’opera destinata a rimanere basilare per gli studenti e per gli studiosi: il Dizionario di sociologia, pubblicato da UTET nel 1978. Fu ritenuto prematuro da molti, ambizioso da altri, coraggioso da alcuni; quasi tutti dovranno ammettere in seguito la sua utilità: per l’accurata esposizione delle teorie e dei risultati conseguiti e la documentata testimonianza delle possibilità e dei limiti della disciplina.
Qui la formazione era al centro dell’attenzione e dei propositi.
Era stato già avviato negli anni ’60 il magistero didattico di Gallino all’Università di Torino, congiunto ad un’intensa attività istituzionale diretta a promuovere iniziative avanzate nel campo delle tecnologie della formazione.

Ma non smetteva di osservare i grandi mutamenti degli anni settanta e ottanta nel mondo del lavoro industriale pubblicando una serie di ricerche che mettono a fuoco le trasformazioni che già in quell’epoca intervengono a modificare antichi assetti e antiche certezze. La comunità degli studiosi non tarderà ad apprezzarne l’azione complessiva in favore delle scienze sociali, eleggendolo Presidente dell’Associazione Italiana di sociologia, che guida dal 1989 al 1992: della sapiente conduzione, delle qualità organizzative, delle capacità programmatiche ho avuto modo personalmente di apprezzare i risultati raccogliendo immeritatamente il testimone come Presidente della medesima Associazione per il successivo e tormentato triennio 1992-1995.

Il lavoro nella società che cambia è un Leitmotiv che accompagna la riflessione di Gallino fino ai nostri giorni, e il lavoro è in qualche modo sempre società, essendo la società una costruzione dotata di congegni sistemici alimentati da una energia vitale insostituibile. Il lavoro è non solo società, ma politica, dunque governo e governabilità. Su questi temi Gallino concentra l’attenzione a più riprese negli ultimi decenni (nota 9). Senza trascurare le grandi problematiche epistemologiche delle scienze sociali e delle scienze naturali, della biologia e della sociobiologia. Poi irrompe prepotentemente la globalizzazione: con le note implicazioni sulla deindustrializzazione, la delocalizzazione, la finanziarizzazione, la terziarizzazione delle economie. E le minacce sul lavoro. Gallino fa sentire la sua voce non solo attraverso i suoi libri ma attraverso i giornali. Commentatore autorevole e schivo, la sua prosa mediante i fatti non fa sognare i singoli e le folle; ha il fine di indurre alla responsabilità. La responsabilità come costume sociale. Nella responsabilità vi è la risposta ad un altro che chiede, pone domande a cui dare risposte nell’ordine di un razionalismo che sposa la causa di tutti coloro che contribuiscono a mantenere in vita come valore non solo strumentale ma civile la società. E la società non può fare a meno della giustizia in riferimento ai meriti acquisiti nel mantenerla e nel farla progredire. In questo senso la società è, sulla base di severe suggestioni che rinviano a Mazzini e Cattaneo, dovere sociale: dovere sociale dell’impresa, del governo, del potere in generale. Ogni caduta a questi livelli è una perdita generale. Così, nella riflessione di Gallino, la società reale e la società ideale, secondo la lezione di Émile Durkheim, si congiungono in un rigore di intenti volto a prediligere coloro i quali sia alla società reale che alla società ideale danno il massimo contributo: ossia i depositari di quella forza propulsiva, creativa e umanizzante, dotata di immanente carisma, che chiamiamo lavoro. Così che la difesa del lavoro è la difesa del futuro.

Per tutte queste ragioni, e in particolare per quest’ultima ratio essentialis insidiata da pericoli locali e globali e tuttavia irrinunciabile, come riconoscimento collettivo di un impegno intellettuale e civile esemplare, la comunità degli studiosi di scienze sociali, la Facoltà di Scienze Politiche, il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali e tutta l’Università di Pisa si propongono oggi di insignire Luciano Gallino della Laurea magistrale honoris causa in Sociologia.

Note

1) Era grande l’influenza dei modelli americani e molti studiosi italiani, nel quadro della loro formazione, si misuraraono con lo struttural-funzionalismo e con Talcott Parsons, che ne aveva elaborato la versione più autentica.

2)Adriano Olivetti elaborò le sue idee in un discreto numer di volumi: L’ordine politico delle Comunità. Le garanzie di libertà in uno Stato socialista, Nuove Edizioni Ivrea, Ivrea 1945; L’ordine politico delle Comunità dello Stato secondo le leggi dello spirito, Ed. di Comunità, Milano 1946; Società, Stato, Comunità. Per una economia e politica comunitaria, Ed. di Comunità, Milano 1952; Città dell’uomo, Ed. di Comunità, Milano 1959. Sulla biografia e l’opera imprenditoriale e politica: L. Gallino, Progresso tecnologico ed evoluzione organizzativa negli stabilimenti Olivetti 1946-1959, Giuffrè, Milano 1960; G. Berta, Le idee al potere: Adriano Olivetti tra la fabbrica e la comunità, Ed. di Comunità, Milano 1980; G. Pampaloni, Adriano Olivetti: un'idea di democrazia, Ed. di Comunità, Milano 1980; V. Ochetto, Adriano Olivetti, Mondadori, Milano 1985; G. Sapelli, R. Chiarini, Fini e fine della politica. La sfida di Adriano Olivetti, Ed. di Comunità, Milano 1990; D. Cadeddu, Il valore della politica in Adriano Olivetti, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, Roma 2007.

3)Sono i termini che ricorrono nel titolo di un’opera di A. Pizzorno, dal titolo appunto Comunità e razionalizzazione, Einaudi, Torino 1960. Indagini dello stesso tipo furono compiute dai sociologi affermati e in via di affermazione; si rinvia alle documentate bibliografie in merito: F. Barbano, M. Viterbi, Bibliografia della sociologia italiana: 1948-1958, Ramella, Torino 1959; M. Viterbi, Bibliografia della sociologia italiana: 1945-1970, Giappichelli, Torino 1970; A. Bono, P. Brustia, V. Repaci (a cura di), Bibliografia della sociologia italiana, 1969-1971, FrancoAngeli, Milano 1978; A. Bono (a cura di), Bibliografia della sociologia italiana, 1972-1974, FrancoAngeli, Milano 1979; A. Bono (a cura di), Bibliografia della sociologia italiana: 1975-1980, FrancoAngeli, Milano 1984.

4) In ambienti ancora rurali e chiamati ad una ruralità ‘naturale’ e pertanto duratura, la comunità, rivista e corretta secondo canoni ‘moderni’, fu pensata come modello da replicare; accadde per esempio in Sardegna, ma la cosa non fu estranea come ispirazione alle pratiche della riforma agraria in generale. Si veda la ricostruzione contenuta in M.A.Toscano, Struttura e cultura dello sviluppo. Il ‘Progetto Sardegna‘ vent’anni dopo, Quaderni EIS, Università di Sassari, Sassari 1984.

5) B.Croce, L’utopia della forma sociale perfetta, «Il Mondo», gennaio 195O.

6) «Rassegna Italiana di Sociologia», n. 1, gennaio-marzo 1967, anno VIII, pp. 3-34.

7) C. Pellizzi, Ragioni e proponimenti in «Rassegna Italiana di Sociologia», 1, I, 1960, pp. 1-6.

8) F. Ferrarotti, Piano di lavoro in «Quaderni di sociologia», n. 1, estate 1951, pp. 2-6.

9) La bibliografia di Luciano Gallino è assai vasta e diversificata; qui si danno solo alcuni cenni, in riferimento alle ultime opere: L’impresa responsabile. Intervista su Adariano Olivetti, Einaudi, Torino, 2001; Globalizzazione e diseguaglianze, Laterza, Roma-Bari, 2002; La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino, 2003; L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino, 2005; Il lavoro non è una merce, Laterza, Roma-Bari 2007; L’Italia in frantumi, Laterza, Roma-Bari, 2007


Ultimo aggionamento documento: 10-Jan-2011