Elenco scorciatoie

Prose letterarie nella Pisa del Duecento

Una ricognizione delle testimonianze manoscritte databili tra la seconda metà del sec. XIII e i primissimi decenni del successivo, contenenti opere letterarie in prosa e ascrivibili con sicurezza all’area linguistica toscano–occidentale, fa emergere tre tipologie principali di testi: a) traduzioni pisane di opere di genere filosofico, devozionale–morale o agiografico il cui originale è mediolatino o francese (Secretum Secretorum, Trattati di Albertano, Lucidario, Libro di Cato, Libro di Costumanza, Legenda Aurea, Passionario francese); b) versioni pisane di opere didattico-cortesi (Mascalcie di Giordano Ruffo di Calabria, Bestiario d’Amore di Richart de Fournival, Tesoro di Brunetto Latini); c) manoscritti in francese o latino contenenti testi cortesi o religiosi, copiati da mani sicuramente pisane che hanno lasciato tracce nei testi e nel paratesto.

Explicit dei Gradi di San Girolamo in pisano

Explicit dei Gradi di San Girolamo in pisano

Si ricordano qui, a titolo esemplificativo, il “Codice Barbi”, così detto dal nome del grande filologo che gli dedicò, nel 1901, uno studio ancor oggi capitale per la valutazione di quelle “testimonianze d’una cultura che precorse la fiorentina ... e per determinare sempre meglio nei particolari le caratteristiche del dialetto pisano–lucchese antico, rispetto agli altri dialetti di Toscana, e inoltre le differenze, ancor poco note, fra il pisano e il lucchese mediani” (per usare le parole del suo autore, ancora validissime; il contributo fu poi ristampato nel 1938 all’interno di una celebre raccolta di studi del Barbi dedicati alla ‘nuova filologia italiana’); il cosiddetto “codice Bargiacchi”, che contiene i trattati di Albertano da Brescia tradotti in pisano; il ms. 1127 della Biblioteca Universitaria di Padova, che contiene epitomi di opere molto note al tempo, accostate secondo un disegno culturale preciso (non va dimenticato a questo riguardo che da un tramite francese proviene anche l’unica, coeva e frammentaria, versione lucchese dell’Elucidarium, contenuta nel ms. 93 dell’Archivio di Stato di Lucca, testo che fu utilizzato da Arrigo Castellani per lo studio della distinzione dei tratti linguistici pisani da quelli propriamente lucchesi), e che sembra alludere a una sovrapposizione, realizzata nella medesima area di interessi culturali, di interessi ‘pratici’ alla cultura enciclopedico–didattica tradizionale; il manoscritto n. 43 della Biblioteca Cateriniana di Pisa, invece, copiato nelle carceri di Genova nel 1288 da un certo Taddeo (forse uno dei tanti prigionieri della Meloria), noto per la versione pisana dei Trenta Gradi della Scala celestiale attribuiti a San Girolamo, la più antica che si conosca e, a tutt’oggi, ancora inedita (a Mirko Tavoni se ne deve un impeccabile studio linguistico), ma contenente anche tre testi lasciati nella loro lingua originale, il latino e il francese, entrambi contaminati in modo considerevole da italianismi: un trattato latino de similitudine et aliis rebus, un trattato francese anonimo sulla penitenza, quindi i Sermoni di Maurice de Sully.

Da questa ideale biblioteca pisana in volgare non poteva mancare ovviamente il Boezio del De consolatione philosophiae (ms. Riccardiano 1609), e le tre testimonianze italiane del Barlaam e Josafas, eccezionalmente di modello occitanico, di cui ci parla qui Giovanna Frosini. All’attività dei centri domenicani di Pisa e Genova può ascriversi anche la traduzione italiana più antica di una parte della Legenda Aurea, la vasta compilazione alla quale il domenicano Iacopo da Varazze attese in almeno due fasi redazionali, unaverso gli anni ’60 del ’200 e una poco prima della morte. Si tratta, più precisamente, dei quattro capitoli mariani che, estrapolati dal modello, dove sono disposti secondo il calendario liturgico, aprono come una di sorta di ciclo biografico della Vergine il leggendario anonimo tramandato dal ms. 1008 della Bibliothèque Municipale di Tours: Natività dellaVergine, Annunciazione, Purificazione, Assunzione. Il codice è noto soprattutto per contenere, nella sua ultima parte, la versione pisana della Navigatio Sancti Brendani. E se questi due testi, che aprono e chiudono il codice, appartengono linguisticamente al più puro volgare pisano, è necessario aggiungere che la sezione centrale del manoscritto, occupatada un’ampia antologia di miracoli in francese (una parte dei quali tradotti dallo stesso testo latino della Legenda Aurea), congiunge questa testimonianza con altri due leggendari, tutti in francese ma provenienti con molta probabilietà dal carcere genovese. Tutto ciò fa ipotizzare l’esistenza di uno scriptorium dove poté realizzarsi un simile incrocio di testi e culture, in stretta relazione da una parte con i centri domenicani di Genova e forse di Pisa, dall’altra col carcere genovese. Del resto un genuino rappresentantedell’ultima redazione della Legenda Aurea di Iacopo da Varazze, forse rivista dallo stesso autore poco prima della sua morte (avvenuta a Genova nel 1298), fu copiato da un illustre prigioniero pisano, Neri Sanpante, come risulta dalla sottoscrizione del ms. M 76 della Biblioteca Ambrosiana di Milano (e in carcere a Genova risulta scritta anche la versione pisana del Tresor di Brunetto Latini ad opera di un Bondìe Testario prigioniero, come si legge nella sottoscrizione del ms. XLII, 23 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze).

Veduta di pisa medievale

Pisa medievale

La stessa esecuzione, compatta e ristretta in un breve lasso di tempo, del nutrito gruppo dei circa trenta manoscritti cortesi di origine ligure, localizzato a Genova dopo una controversa vicendacritica ancora oggi non unanimemente risolta, sembra da ascriversi all’intervento dei prigionieri pisani impiegati in qualità di copisti (notai, versati, come Neri Sanpante, Taddeo, Bondìe, nell’arte dello scrivere, del copiare e del tradurre). A parte il trattato tecnico sui cavalli di Giordano Ruffo e il Bestiario toscano, entrambi in pisano, la letteratura di origine prettamente francese è rappresentata sia dalle compilazioni di materia “antica”, come l’Histoire ancienne jusqu’à César, il Roman de Troie in prosa e l’Apollon de Tyr, sia dalla trattatistica allegorico–enciclopedica, come il Bestiaire d’Amour di Richard de Fournival, il Tresor di Brunetto Latini, l’Amonstement del Pere à son fils, il Jugement d’Amour in versi e i Distiques de Caton parafrasati in versi da Adam de Suel, e sia, soprattutto, dai romanzi arturiani in prosa, come il Lancelot–Graal, il Roman de Tristan, il Guiron le Courtois e le compilazioni della Post–Vulgata Queste dou Graal.

Del gruppo pisano–genovese fa infine parte il più antico rappresentante della “compilazione arturiana” di Rustichello da Pisa (ms. fr. 1463 della Biblioteca Nazionale di Parigi). Se la fisionomia storica di Rustichello rimane oscura, non si deve dimenticare, ed è quanto qui più interessa, che per sua stessa ammissione questo scrittore intraprese la stesura di entrambe le opere a lui attribuite – la “compilazione”, appunto, ideata e scritta presumibilmente intorno o dopo agli anni 1272–174, e il Milione, iniziato nel 1298 proprio nelle carceri di Genova – solo grazie al contatto con due personalità di assoluto rilievo nel panorama storico culturale di fine Duecento: il re Edoardo I d’Inghilterra, grande appassionato di letteratura cavalleresca, e Marco Polo. La scelta della lingua francese si allinea ancora, nel caso della prima prova, su quanto, più o meno negli stessi anni, avevano fatto altri autori italiani di prose didattico–cortesi, come Aldobrandino da Siena, Brunetto Latini e Martin da Canal, e sempre con Rustichello da Pisa avrebbe conosciuto un’ultima affermazione, di lì a poco, per la stesura originaria delle avventure riferite dal celebre veneziano.

Dal punto di vista linguistico–letterario, molti di questi testi possono collocarsi sotto l’etichetta del franco–italiano – utilizzata in genere, com’è noto, per testi in versi e in prosa di genere epico (chansons de geste) e storico (Estoire de Venise) prodotti in Italia nord–orientale dalla fine del sec. XIII a tutto il successivo e oltre, nella misura in cui il criterio di localizzazione geo–linguistica, discutibile per i poemi franco–italiani, in taluni casi addirittura impossibile, è invece quanto mai pertinente nel caso di manoscritti latori di testi francesi o tradotti dal francese dei quali sia accertabile innanzitutto su basi codicologiche una provenienza sufficientementecircoscritta nel tempo e nello spazio. Bisogna considerare tuttavia che nel complesso sistema di interferenze fonematiche, morfematiche e per certi aspetti sintattiche, gioca qui un ruolo molto importante anche il latino. La messa in gioco dei tre diversi idiomi, a volte anche compresenti nello stesso codice, non deve insomma far pensare ad una translatio studii intesa in senso tradizionale (e non soccorrono del tutto a mio parere, almeno in questo caso, i concetti di traduzione “verticale” e di traduzione “orizzontale”, adatti al sistema letterario volgare più del secolo XII che del XIII), ma ad una continua dialettica nei due sensi che può portare sia a fenomeni di ibridismo linguistico spesso molto marcati tra i due volgari, o a francesismi residui nella prosa toscana, sia alla confezione di veri e propri codici bilingui e/o trilingui. Tutto ciò è dovuto a un pubblico dove si mescolavano competenze linguistiche miste, o comunque non univoche: da individuare in buona parte, credo, nei laici conversi che frequentavano i monasteri e gli studi domenicani. La stretta aderenza dei testi a modelli in lingua transalpina (francese e provenzale) o in latino, lingue percepite ancora come prestigiose per la prosa, sembra infatti non più rispondere alla topica dellùadeguatezza del francese alla prosa d’arte, quale ritroviamo in dichiarazioni d’autore come Brunetto Latini (che a quest’altezza cronologica è già uno dei modelli) o Martino da Canal o Niccolò da Verona. Quello che sembra giocare un ruolo preponderante è invece la grande varietà di generi, la ricchezza di materiali narrativi, ancora quasi del tutto assente in Italia settentrionale per via testuale, l’arcaicità e l’aulicità della materia cortese–cavalleresca dei romanzi arturianie del romanzo allegorico francese, infine la loro esemplarità. Anche l’anonimato (o la pseudonimia, come nel caso ancora del romanzo arturiano), sembra una costante di questi adattamenti prosastici; si assiste piuttosto all’emergenza del nome, o soprannome, del copista nella sottoscrizione del codice: Bondìe Testario, Neri Sanpante, e altri, quasi un artigiano specializzato che firma il nuovo libro, fino al trascrittore–redattore Rustichello, forse in origine uno dei tanti, poi assurto alla fama che tutti sanno grazie alla fortunadell’incontro con Marco Polo.

Due cavalieri

Due cavalieri

Come ultima caratteristica comune, risalta l’accorpamento di più testi di genere affine nello stesso manoscritto. Si tratta di un fenomeno usuale nel sistema letterario medievale, che non viene disatteso, forse ancora per imitazione dei modelli, in questi codici di fattura medio–alta destinati forse a biblioteche private. E anche la giustapposizione di più testiall’interno del medesimo manoscritto, più che derivare da fattori di opportunità scrittoria, sembra in realtà indicare l’esistenza di una cultura omogenea eunitaria, che rendeva complementari, e per molti aspetti assimilabili fra loro, opere appartenenti in origine a epoche, aree e generi diversi (devozionale–morale, scientifico–enciclopedico e romanzescocortese). Tutto ciò non costituisce una novità rispetto anche ad altre aree italiane. Si pensi alla Liguria, al Veneto, per citare le due più contigue nello spazio e nel tempo; ma a Pisa va riconosciuto un primato cronologico e un apporto quantitativo del tutto eccezionali, anche considerando il successivo trionfale prestigio del fiorentino, che al tramite pisano per quanto concerne i contatti con la cultura francese, come si sa, deve moltissimo. Anche quello della concorrenza/interferenza col fiorentino è un campo d’indagine ancora poco studiato e che può dare in futuro risultati interessanti.

Fabrizio Cigni
docente di Filologia romanza
cigni@rom.unipi.it