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Politica e cultura a Pisa del Trecento

La ricostruzione della storia di Pisa nel Trecento ha comportato e tuttora comporta alcuni inevitabili rischi, rappresentati dalla presenzadi un passato e di un futuro estremamente condizionanti: si rischia cioè, da una parte, di ricercare tracce del passato remoto in un presente che le conserva solo parzialmente (ciò che Pisa è stata e non è più), dall’altra di leggere gli eventi come segni premonitori del futuro (ciò che Pisa sarà, ma ancora non è). In buona sostanza, si corre il pericolo di costruire una storia orientata secondo una linea di sviluppo che segue il mitico, storiograficamente mitico, arco di parabola con rami che ascendono all’apice della potenza mediterranea dell’XI–XII secolo e discendono verso l’appiattimento quattrocentesco sotto il segno fiorentino. Prospettiva questa che annullai caratteri di un’epoca e che induce a dimenticare che il Trecento pisano fu qualcosa d’altro, non solo uno spazio cronologico in cui rintracciare i segni di eredità antiche o le premesse di situazioni a venire: fu, al contrario, un secolo con caratteristiche proprie, non esente da contraddizioni, con periodi di contrazione e di espansione, con aperture e dinamismo, dove molto si sperimenta ed alcune volte si realizza con stabilità.

Un cavaliere, forse Castruccio Castracani, particolare del Trionfo della morte situato al Camposanto Monumentale di Pisa

Un cavaliere, forse Castruccio Castracani,Trionfo della morte, particolare (Pisa, Camposanto Monumentale)

Si può per esempio accennare al particolare assetto politico–istituzionale che fa di Pisa quasi un unicum, un «Comune signorile» dove, nel corso del XIV secolo, sulle robustissime magistrature degli Anziani del Popolo e dei Savi si innestarono forme di potere di tipo “signorile” (i Donoratico della Gherardesca, Giovanni dell’Agnello, Pietro Gambacorta, Iacopo d’Appiano), attraverso meccanismi di controllo anche complessi, ma pure fluidi ed informali: dalle procedure di elezione al sistema di delibera–ratifica delle decisioni, al reclutamento dei nobili in alcuni consigli civici e nelle commissioni di sapientes, alla introduzione di nuovi magistrati, alle relazioni personali; un «Comune signorile» sempre in bilico tra il mantenimento dei più antichi assetti istituzionali e la realizzazione di nuove forme politiche. Oppure si può ricordare come il Trecento venne avviato da un gruppo di «uomini nuovi» (tra cui gli Agliata e i Bonconti, accanto ai già menzionati dell’Agnello e Gambacorta) che, oltre a dominare la scena politica cittadinaper tutto il secolo, furono a capo delle più potenti “compagnie” commerciali e finanziarie pisane e seppero reagire con estrema intraprendenza sia alla sconfitta della Meloria (1284) sia alla perdita della Sardegna (1326), riconvertendo dinamicamente le loro attività e garantendosi una rete di presenze nelle più importanti piazze del Mediterraneo.

Anche l’ambiente culturale cittadino si presenta come estrememente vario: due studia mendicanti (interni ai conventi di S. Caterina e di S. Francesco), una Università (fondata nel 1338 ed innalzata a Studio generale nel 1343 da papa Clemente VI), una scuola liturgica annessa alla Cattedrale, un numero imprecisabile di scuole pubbliche e private (d’abaco o di grammatica e retorica); un’Arte dei notai nel cui Breve del Collegio molto si insiste sulla preparazione culturale del futuro professionista; un insieme di giuristi ed esperti di diritto che, regolarmente nel corso del secolo, collabora con le istituzioni del Comune, diventandone strumento di legittimazione e propaganda; un interessantissimo gruppo di commentatori di Dante (tracui spiccano Guido da Pisa e Francesco da Buti). Sebbene sia difficile stabilire, anche in modo orientativo, il peso effettivo di quanto queste realtà trasmisero e condivisero con la “popolazione”, indubbiamente esse garantirono alla città livelli diversificati di istruzione e una circolazione ampia di cultura. Del resto, circoscrivendo il discorso al volgare, undiffuso livello di alfabetizzazione è dimostrato, per citare solo un esempio, dall’ingente quantità di testi a carattere pratico (libri di conti e possessioni) contenuti inpiù fondi dell’Archivio di Stato di Pisa, mentre i più antichi inventari delle biblioteche locali provano la consistenza del patrimonio librario che era conservato in più luoghi della città.

Sullo sfondo di tale quadro generale ed in base alla documentazione di cui disponiamo (peraltro non abbondante), è verosimile considerare la possibilità che a Pisa, in due momenti distinti, da parte di coloro che governarono la città, Fazio di Donoratico (negli anni Trenta) e Pietro Gambacorta (negli anni Settanta–Novanta), sia stata tentata la creazione di una “corte”, o meglio fosse attivo un entourage intellettuale gravitante intorno a queste figure politiche. È, infatti, interessante constatare come, in entrambi i casi, in ambito culturale, si siano adottati provvedimenti simili e verificate simili situazioni, riconducibili ad un più ampio progetto di propaganda e di ricerca del consenso politico: in relazione allo Studio universitario, voluto dal conte Fazio e rilanciato dal Gambacorta; in relazione ai commentatori di Dante se Guido da Pisa, sotto il governo del Donoratico, continuò le proprie elaborazioni dantesche e compose le Expositiones, mentre Francesco da Buti, negli anni gambacortiani, si vide affidata la pubblica lettura di Dante ed iniziò la pubblicazione del Commento alla Commedia; in relazione all’imponente opera di decorazione del Camposanto, con gli affreschi del Trionfo della Morte e delle Storie di Cristo nel periodo di Fazio, e quelli dedicati ai santi Ranieri, Efisio, Potito, alle Storie del Vecchio Testamento e all’Incoronazione della Vergine durante gli anni di Pietro Gambacorta.

Ma se vogliamo cogliere a pieno l’estensione del fenomeno culturale cittadino dobbiamo anche, e forse soprattutto, guardare a quella folla anonima o semianonima di scrittori, copisti e traduttori – pisani o attivi in cittą – che inesorabilmente sfugge ad ogni tentativo di identificazione, alcuni dei quali conosciamo solo attraverso brevi sottoscrizioni; tenendo presente sia l’indiscutibile primato di alcuni codici (come quelli riferibili al gruppo di «copisti prigionieri» nelle carceri genovesi dopo la sconfitta della Meloria studiati da Fabrizio Cigni o come, saltando di cento anni, la copia del commento dantesco di Francesco da Buti redatta da Giovanni di Guglielmo di Berlandia, studiata da Fabrizio Franceschini), ma anche valutando prodotti di minor pregio (dal punto di vista linguistico, letterario, iconografico): è il caso del codice che contiene la trecentesca Cronica di Pisa, testo anonimo e nondatato, testimone acefalo e mutilo, ma pure fonte ricchissima, sotto certi aspetti direi ineludibile, per la storia di Pisa tardomedievale.

Anziani del popolo

Anziani del popolo

In tal senso, la storiografia cittadina trecentesca – i testi narrativi che contengono le memorie storiche locali – rappresenta una delle modalità più congenialicon cui la città si esprime, adottando la forma ed il linguaggio della cultura politica che le è propria, ossia comunale e di Popolo. Gli autori delle più note cronachepisane del XIV secolo, Ranieri Sardo e l’Anonimo (come si usa designare l’autore della Cronica citata), rientrano nella categoria di “ufficiali cronisti”, uomini al servizio del Comune che frequentano i luoghi della politica, ne conoscono logica, dinamiche e funzionamento e che si impegnano a produrre una memoria storica attraverso la realizzazione di un progetto compositivo articolato, da cui risultano i fatti ma soprattutto da cui continuamente emerge «l’esperienza condivisa ed il sapere comune ... quella voce media corrente che attesta pareri e sentimenti diffusi, estesi e riconosciuti dalla collettività». Nello specifico caso dell’Anonimo, il meccanismo di identificazione con la città si rivela nella sua pienezza quando il cronista, assumendo il ruolo di informatore privilegiato e latore di veridicità, descrive eventi di partecipazione collettiva, come accade in occasione di festività civiche, celebrazioni liturgiche, iniziative edilizie e dove, per la coralità ed il tono partecipato, di estrema suggestione anche per il lettore moderno, la città sembra prendere davvero la parola.

Come esempio di quanto appena detto, si può prendere il capitolo dell’anonima Cronica di Pisa dedicato ai festeggiamenti organizzati, nell’agosto 1381, dal Comune e dal “signore” Pietro Gambacorta per celebrare l’investitura a cavaliere del figlio Andrea, avvenuta per mano di Giangaleazzo Visconti La festa, sganciata dall’occasione specifica, diventa un efficace strumento autoreferenziale attraverso cui il Gambacorta induce la città, intera e compatta, a rendere omaggio al proprio magnanimo governante e, parimenti, un ottimo mezzo di propaganda. Le «brigate» scandiscono la società secondo una articolazione che è insieme cetuale e professionale (mercanti, medici, giudici, notai, cavalieri, artigiani divisi per Arte di appartenza), pure inclusiva di coloro che cittadini non sono (mercanti e stipendiati stranieri), mentre all’offerta dei donipartecipano anche il clero e le comunità del contado. Secondo la stessa logica Pietro Gambacorta ospita all’interno del proprio palazzo e nei pressi della propria abitazione (in piazza S. Sebastiano, a sud dell’attuale area occupata dalle Logge di Banchi), una settimana di banchetti, organizzati secondo una progressione di eminenza sociale (dagli ufficiali pubblici, al clero, agli stipendiati, agli artigiani). Tra i molti aspetti descritti, vale forse la pena sottolineare la curiosa notizia riguardante la giraffa lignea, dipinta, addobbata e condotta per le vie cittadine, probabilmente da giustificare con l’esistenza, attestata dai trecenteschi Ordinamenta salariorum, di una compagnia «de Giraffa» con sede in Chinzica, il quartiere di residenza di Andrea Gambacorta.

Cecilia Iannellai
docente di Storia medievale
c.iannella@mediev.unipi.it

Bibliografia