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Bruno Di Porto: “I frutti di un giusto”

 

Elio Toaff

Elio Toaff

Conosco Elio Toaff da quando era ragazzo e da quando divenne giovane rabbino capo dell’antica e maggiore comunità ebraica d’Italia, che si riprendeva dalle traversie della persecuzione e dal pesante tributo pagato alla Shoah.

Ricordo l’insediamento del giovane rabbino, dall’inconfondibile accento labronico (ho anch’io un titolo di livornesità per gli antenati materni di Castelnuovo), il quale presto stabilì una viva corrente di comunicazione con il tessuto della comunità nei suoi vari strati, ed ha annodato relazioni nella vita culturale, politica, sociale, religiosa di Roma e d’Italia, attraverso momenti belli e altri dolorosi. È impressa nel mio animo la celebrazione in Campidoglio, che insieme tenemmo, del centenario dell’emancipazione degli ebrei di Roma. Momento doloroso fu l’attentato terroristico al Tempio Maggiore del 9 ottobre 1982, durante la festa di Hoshaanà rabbà, particolarmente sentita in Roma, e il funerale della piccola vittima Stefano Taché. Momento straordinario fu, quattro anni dopo, il 13 aprile 1986, l’accoglienza nello stesso Tempio Maggiore del pontefice Giovanni Paolo II, l’ingresso del papa e del rabbino tra i canti sinagogali, in uno scenario degno della fantasia di Giuseppe Gioacchino Belli, il poeta romanesco curioso del ghetto come immancabile ingrediente della città eterna. Fu una tale svolta nelle relazioni tra le due religioni, che ispirò il titolo del libro del professor Toaff Perfidi giudei fratelli maggiori. Il libro, nitido e trascinante, è un bilancio della sua onesta vita, nell’impronta del padre rabbino Alfredo Sabato Toaff, allievo di Elia Benamozegh, nella nativa Livorno, sede di una libera comunità, sorta e cresciuta col sorgere e crescere della città e del suo porto. Arride al racconto il vincolo d’amore con la diletta sposa Lia. Arridono le soddisfazioni date loro dai quattro figli, sempre nello sfondo delle vicende ebraiche italiane, dei generali eventi del paese, e nella luce del dovere di rabbino, che lo trattenne dall’emigrare nell’allora Palestina come fece il fratello medico Renzo, per non abbandonare il piccolo popolo degli ebrei d’Italia, nell’ora cupa della persecuzione, quando l’amatissima nostra Italia divenne, per arbitrio del dittatore, un nuovo Egitto crudele, come scriveva il poeta ebreo di Toscana Angiolo Orvieto, il creatore e primo direttore del “Marzocco”.

Parallelamente agli studi rabbinici, Toaff studiò Giurisprudenza, nella logica di una duplice cultura, ebraica ed europea, nella moderna formazione rabbinica, qui in questa Università, dove viene oggi accolto con tanta simpatia.

Elio Toaff

Elio Toaff

Ma il suo cammino di studente universitario fu in salita impervia, appunto per la persecuzione, che puntigliosamente emarginava la minoranza ebraica e incattiviva nei suoi confronti non pochi animi, allorché il dittatore pensò di assestare con quel passo un cazzotto nello stomaco alla borghesia, non tenendo conto che anche l’umile popolo avrebbe manifestato una sensibilità, soccorrendo nella tempesta i parecchi perseguitati. Si incattivirono i giovani del Gruppo universitario fascista, e fecero il viso dell’armi certi docenti, per acquisire meriti con l’ aggiornamento razzistico dell’ideologia di regime. Cosicché il professore di Diritto corporativo, l’ultimo e sgradevole suo esame, disse a Toaff che aveva sì risposto bene, ma perché aveva imparato il libro a memoria, non potendo un ebreo capire il corporativismo. Quel docente non sapeva che, prima del fascismo, la terza via corporativa, quale che ne fosse il pregio, era stata formulata, tra altri, da un Gino Arias e da un Riccardo Dalla Volta, come si può vedere nello studio di Silvio Lanaro Nazione e lavoro. Ma non tutti voltavano la faccia e il giovane Toaff si sentì proporre dal professor Lorenzo Mossa di laurearsi con lui. Egli fu così nella pattuglia degli ultimi studenti ebrei che poterono laurearsi. In quella pattuglia era a Roma il mio fratello primogenito, che trovò egualmente l’angelo protettore nel giurista Salvatore Galgano. Per uomini di legge come Mossa e Galgano fu un atto dovuto e una onorevole sfida. Non erano, per fortuna, i soli, perché la svolta razzista contribuì a incrinare il consenso e a stimolare la serpeggiante opposizione.

Quindi Toaff, passando dal Tirreno all’Adriatico, intraprese la carriera di rabbino in Ancona, dove contenne, per quanto poté, le diserzioni dei pavidi e degli opportunisti. Poi, sopraggiunta l’occupazione tedesca, suggerì ai fedeli, increduli di tanta ferocia nazista, la dovuta prudenza per sottrarsi alle retate. Chiusa necessariamente la comunità, egli tornò in Toscana, dove si unì alla Resistenza, venne catturato dai tedeschi in Versilia, nell’agosto 1944, e solo una provvidenziale variante del destino lo salvò dalla morte vista in faccia, nella sorte dei compagni fucilati. Dopo la Liberazione, fu rabbino capo a Venezia, da dove, nel 1951, passò in Roma, succedendo a David Prato. È stato, con grandi doti di equilibrio, guida spirituale della comunità romana fino a pochi anni fa, nella sua biblica vecchiezza (lo posso dire, essendo ormai anch’io vecchio pensionato), come dice il salmo del sabato: “I giusti ancora daranno frutti in vecchiaia, pingui e rigogliosi saranno”.

Bruno Di Porto
docente a riposo di Storia del giornalismo