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L'occhio che non vede si attiva di più: così il cervello si adatta al mondo

Un gruppo di ricerca rivela come il cervello si adatti al mondo tramite le diverse esperienze visive

percezione VisivaImmaginiamo di chiudere per alcune ore l'occhio che vede meno con un patch, quella sorta di pezzuola usata dagli oculisti. Quando lo riportiamo alla visione sarà così bramoso di informazioni, da rafforzarsi al punto di vincere la competizione con l'occhio sano per effetto della corteccia visiva che, nella persona adulta, ha un grado di plasticità molto più elevata di quanto si pensasse. La scoperta è frutto della ricerca condotta da Claudia Lunghi, del gruppo di ricerca supervisionato da Maria Concetta Morrone (Università di Pisa e Irccs Fondazione Stella Maris). e David Charles Burr (Istituto di Neuroscienze del Consiglio Nazionale delle Ricerche In-Cnr di Pisa e Università degli Studi di Firenze). Lo studio, finanziato da fondi europei Erc e pubblicato su 'Current Biology', apre la strada a nuove e importanti applicazioni in ambito diagnostico e terapeutico, in particolare nell'ambito del trattamento dell'ambliopia (o 'occhio pigro'), in età pediatrica.

"Negli anni '60 – spiega Burr, ricercatore dell'In-Cnr - i premi Nobel David Hubel e Torsten Wiesel hanno dimostrato come un periodo di stimolazione visiva anomala anche breve abbia conseguenze sull'organizzazione della corteccia visiva. Se, per esempio, viene a mancare l'input proveniente da un occhio (deprivazione monoculare), la corteccia si sviluppa in maniera abnorme e tutte le cellule rispondono all'occhio aperto, mentre il deprivato rimane inesorabilmente deficitario (ambliope). Questo è vero anche per gli esseri umani: se una cataratta monoculare congenita non viene operata nei primissimi anni di vita l'occhio rimane per sempre ambliope. Si pensava però che, una volta causati i danni da input visivo anomalo, la plasticità corticale della corteccia visiva fosse praticamente ridotta a zero: il nostro studio mette in discussione tale convinzione"

I risultati ottenuti dimostrano infatti "il grande potenziale plastico della corteccia visiva adulta", prosegue Lunghi, dottoranda presso l'Università di Firenze, "e che la rivalità binoculare (per cui, quando le immagini provenienti dai due occhi sono molto differenti, il cervello non le fonde ma preferisce sopprimerne una), può essere un metodo rapido e non invasivo per misurare la plasticità del sistema visivo in maniera sensibile e accurata. Il risultato, inoltre, è clinicamente importante, in quanto la terapia occlusiva dell'occhio 'buono' (il patch) è comunemente utilizzata per il trattamento dell'ambliopia nei bambini ma non esistono Linee Guida, né Protocolli che diano indicazioni scientificamente provate sul suo utilizzo".

A questo proposito è in corso di preparazione una ricerca in collaborazione tra Stella Maris e Azienda ospedaliero-universitaria Meyer di Firenze per monitorare, utilizzando la rivalità binoculare, i cambiamenti plastici durante il trattamento dell'ambliopia anisometrope in età pediatrica.

L'immediata ricaduta che questa scoperta può avere è la possibilità di delineare un Protocollo terapeutico che indichi come, quando e in quali situazioni utilizzare la tecnica della deprivazione di visione (il patch) e in base al quadro clinico, delinerare anche i "dosaggi", ossia per quanto tempo utilizzare questa metodica. Attualmente infatti non esistono Linee Guida, né Protocolli che possano dare indicazioni scientificamente provate.

"La nostra scoperta", conclude Morrone, "si innesta nella tradizione che da anni caratterizza con grandi risultati sia la Fondazione Stella Maris, sia la Scuola di visione del Cnr di Pisa nell'ambito delle ricerche sulla plasticità cerebrale e della corteccia visiva".

(Ufficio stampa CNR)

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