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«Pensare l’Ottocento», in ricordo della professoressa Regina Pozzi

Scomparsa pochi giorni fa, aveva insegnato a lungo "Storia moderna" all'Università di Pisa

Alcuni giorni fa è scomparsa la professoressa Regina Pozzi, a lungo docente di Storia moderna all’Università di Pisa. Nata nel 1940 a Valenza, in provincia di Alessandra, la professoressa Pozzi si era laureata all’Università di Pisa come allieva della Scuola Normale, iniziando la sua carriera accademica presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell'Ateneo pisano nel 1980. È stata direttore del dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea dal 1987 al 1990 e dal 1995 al 1998. Dal 2006 era in pensione.

Per ricordare la sua figura, pubblichiamo qui di seguito l’introduzione al volume «Pensare l’Ottocento» (Pisa University Press, 2012), a firma della professoressa Cristina Cassina, ricercatrice di Storia delle discipline politiche al dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere e sua allieva. Il libro rende omaggio alla lunga carriera negli studi della professoressa Pozzi e la sua “Introduzione” restituisce un ritratto esauriente del suo pensiero scientifico, i cui tratti distintivi, come - si legge qui di seguito - furono il “genio” e l’“audacia”.

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Cover pensar webù«Per Regina Pozzi» recita il sottotitolo. Si allude, così, in punta di piedi, quasi sottovoce, alla ragione da cui muove questo volume, “pensato” per rendere omaggio alla studiosa che invita a «Pensare l’Ottocento». Un gioco di parole e un gioco di azione-reazione: riflettere sul laboratorio del diciannovesimo secolo, oggi, vuol dire riflettere anche sulla sua produzione scientifica. Che difatti è al cuore di questo volume nato, a sua volta, in due tempi. Il primo ci riporta al 18 febbraio 2010: a una giornata, organizzata a Pisa, per salutare l’attività di Regina Pozzi come docente universitaria. Molti saggi qui raccolti sono stati presentati quel giorno. Altri sono giunti in un secondo momento: ad allargare l’orizzonte dei problemi, certo, ma anche per tentare di superare un limite comune a tante iniziative editoriali nate con il medesimo intento.

I libri concepiti per rendere omaggio a una lunga carriera negli studi, voglio dire, nascono quasi sempre con un difetto: sono un poco claudicanti perché il più delle volte lacunosi. E il presente volume non fa eccezione. Pur affrontando tante questioni, esso non riesce a rendere conto di tutte le linee di ricerca aperte da Regina Pozzi. Il problema, per fortuna, ha due facce: se molte sono le domande e ancor più gli interessi, è forse possibile racchiudere tutto in un volume? Insomma, la studiosa a cui questi studi e queste ricerche sono dedicati di un tale limite non deve affatto rammaricarsi.

Così come non me ne vorrà se, invece di ricostruire cronologicamente la biografia accademica, procederò in modo disordinato e partirò da uno spunto che, se venisse dalla sua penna, potrebbe dirsi di ego-histoire: da un rilievo sul nome.

Un nome importante e molto impegnativo: Regina. non a caso i compagni di studi preferirono chiamarla Ginetta, come nel suo ambito familiare e d’origine, e così hanno continuato. Poi, con il tempo, parallelamente allo sviluppo della carriera, il nome ha ritrovato una dimensione “normale”, più consona e proporzionata al nuovo ruolo assunto in campo professionale.

Questi due modi di rivolgersi a lei ancor oggi coesistono. Lo si è visto nella giornata del 18 febbraio. Se torno con il pensiero a chi ha portato i saluti delle istituzioni (Alfonso Maurizio Iacono e Giuseppe Petralia, Salvatore Settis e Daniele Menozzi); a chi ha presieduto le sessioni (Claudio Pavone e Adriano Prosperi); ai relatori (Michele Battini, Luca Scuccimarra, Cristina Cassina, Girolamo Imbruglia, Franco Sbarberi, Pier Paolo Portinaro, Mauro Moretti, Françoise Mélonio, Lucien Jaume); e soprattutto ai molti presenti, tra cui tanti colleghi venuti anche da parecchio lontano, ciò che subito salta all’occhio è la presenza di più generazioni. Così, quel giorno, per gli uni era Ginetta, per gli altri Regina; non è un caso se anche nei saggi qui raccolti i due diversi modi ritornano. Aggiungo che io l’ho conosciuta nella seconda fase della sua carriera e, per me, è sempre stata Regina.

Anche i luoghi che hanno ospitato quella giornata molto ci dicono sul suo percorso. La prima parte presso il dipartimento di Storia, dove Regina Pozzi era entrata nel 1968 come assistente di ruolo. Nel 1980, il passaggio a professore ordinario. Nell’Istituto, poi dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea, poi dipartimento di Storia, ha svolto la maggior parte della sua attività didattica e scientifica: ha tenuto corsi di «Storia moderna» e di «Storia della Francia», di «Storia della storiografia contemporanea» e di «Storia contemporanea»; ha coordinato progetti di ricerca locali e nazionali, con il contributo finanziario dell’Ateneo, del CNR, del Ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica. Per due volte è stata chiamata alla direzione del dipartimento, un ruolo che ha ricoperto nel triennio 1987-90 e poi dal 1994 al 1997.

La seconda parte della giornata, nella sala degli Stemmi della Scuola normale Superiore, ci porta ancora più indietro. Dopo gli studi al liceo classico di Alessandria, Regina Pozzi si trasferisce a Pisa, dove aveva vinto il concorso come allieva della classe di Lettere. Più che i singoli passaggi del corsum studiorum è utile ricordare chi furono, alla Facoltà di Lettere e Filosofia e alla Scuola normale, i suoi maestri “pisani”: Nicola Badaloni, Ottorino Bertolini, Delio Cantimori, Emilio Gabba, Arsenio Frugoni, Giovanni Miccoli, Ettore Passerin d’Entrèves, Guido Quazza, Carlo Ludovico Ragghianti, Luigi Russo. E tra tutti, Armando Saitta, a sua volta allievo di Gentile e Cantimori, il relatore della sua tesi di laurea e del diploma di perfezionamento in Normale.

Dipartimento di Storia e Scuola Normale Superiore: per chi non conoscesse Pisa, queste istituzioni distano poche centinaia di metri. Dunque una breve porzione di spazio che però, nel caso di Regina Pozzi, racchiude un bel tratto della sua carriera scientifica. La quale, per quanto attiene ai luoghi, abbraccia anche lunghi periodi trascorsi a Parigi: prima, come studentessa e perfezionanda, anche grazie alle opportunità offerte dalla Scuola Normale; poi, più volte, in qualità di professore invitato presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales. Dopo tanta Pisa, e tanta Parigi, una lunga parentesi istituzionale romana: presso il prestigioso Centro Interdisciplinare «Beniamino Segre» dell’Accademia nazionale dei Lincei, dove Regina Pozzi è stata chiamata nel triennio 1990-1993.

Questa tessitura di rapporti, di scambi e di esperienze, umane e culturali, si è ri essa nell’occasione del 18 febbraio. Che ha riunito, per Regina, studiosi provenienti dalle università di Parigi, Torino, Siena, Macerata, Napoli e, naturalmente, Pisa. Per dare conto del suo lavoro, hanno preso la parola francesi e italiani, studiosi di storia moderna e di storia contemporanea, di storia del pensiero politico e di storia della storiografia. Quasi a ricordare, di contro alla tendenza a uniformare le strutture della ricerca (tendenza, questa, che, contrariamente al secolo a cui Regina più si è consacrata, si potrebbe a ragione dire “stupida”), come e quanto sia invece fecondo, se non necessario, il dialogo tra diversi ambiti disciplinari.

Venendo al volume, ho detto che gran parte dei saggi sono stati presentati nel corso della giornata a lei dedicata. I primi due, che formano una sezione a sé, si confrontano con il tema delle sue domande storiografiche, delle scelte da lei compiute, di un modo tutto suo di guardare al lungo ottocento: mi riferisco ai lavori di Michele Battini, che a lungo dialoga con Regina attraverso il variegato prisma delle culture post-illuministiche; e di Françoise Mélonio, autrice di uno schizzo sintetico, penetrante e intuitivo. Nella seconda sezione sono invece raccolti contributi che si soffermano su nodi specifici dei suoi interessi. Tutti affrontano, in modo diretto o indiretto, uno o più cantieri aperti dalle sue molteplici ricerche. Ma forse è il caso di dire di più: tornano a lavorare i temi – antipolitica, scientismo, la nuova storia, il pensiero della decadenza, i molti volti e i mille dilemmi del liberalismo – e soprattutto gli autori a lei più cari, nel senso che maggiormente l’hanno sollecitata nel suo percorso: in particolare Guizot, Tocqueville, Taine, Renan.

Sarebbe riduttivo rendere conto del contenuto e del significato di questi saggi. Ancor più difficile entrare nei vuoti e nelle assenze di cui dicevo in apertura. Mi viene in mente, tra quelle macroscopiche, l’assenza di Thierry e della questione del pensiero razziale (a parte un breve richiamo nel lavoro di Battini); soprattutto il discorso, complesso, articolato, ripreso in più momenti e sotto varie forme (“regina”, tra queste, la recensione), sulla rivoluzione francese. La bibliografia che segue, forse non del tutto completa, è utile per orientarsi anche in questa parte della sua produzione.

Torno allora al suo modo di lavorare. Non intendo però pronunciarmi sul metodo storiografico di Regina Pozzi. Prendendomi un certo rischio, ho invece da proporre una notazione non del tutto estranea all’ordine, per così dire, morale (non saprei in quale altro modo definirlo). Se guardo al suo percorso scientifico, vedo brillare anche una punta di audacia (non d’imprudenza). Perché, inutile negarlo, ce n’è voluta una bella dose per andare a sollevare i veli della storia politica alla fine degli anni Settanta. Sì, certo, l’acuto sguardo dell’osservatrice straniera, Françoise Mélonio, rileva che gli studi politici nel nostro paese vantavano, allora, una tradizione più consolidata. Ma è necessario aggiungere che Regina Pozzi, quel velo, lo ha sollevato in tempi in cui anche da noi imperava quella che si definiva storia sociale. Ed è in quella particolare stagione che, da storica, attraverso ricerche di storia della storiografia, ha additato i nodi della politica ai colleghi della disciplina. Ha perorato una causa che, in quel momento, non sembrava certo vincente. Una certa audacia occorre pure per resistere a certi imperativi accademici: le pubblicazioni mostrano che più che la quantità, venuta poi a ruota, Regina ha perseguito la qualità e, in questa, lo scavo profondo; del resto, il suo frequente ritorno a certi autori, interrogati ogni volta da prospettive nuove e diverse, così come la messa a tema di categorie e concetti particolarmente pregnanti, risponde e – in qualche modo – enuncia un preciso progetto culturale, coltivato con perspicacia e infaticabile curiosità. Così come, nel confronto scientifico, non si è certo tirata indietro quando c’era da battagliare; ne ricordo bene un esempio, a un colloquio a Cérisy, in Francia: ripensandoci, c’è voluto un coraggio da leonessa a suggerire tratti proto-fascisti nel pensiero di Auguste Comte nel corso di un’importante riunione di appassionati “comtisti”.

«L’audacia» scrisse Goethe «ha del genio, del potere, della magia». A me sembra che nel percorso scientifico di Regina Pozzi queste cose ci siano tutte. Dell’audacia ho già detto. Del genio può offrire un’idea, certo molto parziale, anche questo volume; più che oggi, però, è questo un lato che si potrà valutare meglio nel tempo. Alle responsabilità del potere, intendo quello accademico, non si è sottratta; l’ha esercitato con intelligenza e fermezza fin dalla sua nomina, ancora molto giovane, a professore ordinario.

Quanto alla magia, che dire? Perché molte sono le forme che essa può assumere: quantomeno la forma della professione docente e quella di una prosa “intrigante”, ma anche quella che nasce da domande profonde, mai di moda, mai banali. Nel suo percorso, però, la magia è apparsa anche in altra veste. I testi – bellissimi – con cui Regina Pozzi si è confrontata nel corso del suo lavoro, sono infatti testi ricchi di insidie. Il tempo da lei studiato, non a caso, è anche detto il tempo dei profeti: è l’età degli “incantatori” e dei mages romantiques. Ebbene, alla magia di quelle seduzioni lei sa opporre la solidità di un lucido progetto intellettuale, qui riassunto nella formula «Pensare l’Ottocento». Sicché a me sembra che se hanno cantato, le sirene, di fronte a Regina hanno cantato invano.

Cristina Cassina

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