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Fare gli Italiani, a loro insaputa. Musica e politica dal Risorgimento al Sessantotto

Il professor Volpi racconta del popolo italiano attraverso le tappe della storia della musica

fare-gli-italiani-a-loro-insaputa.jpgUn racconto degli italiani attraverso le tappe della storia della musica, dal melodramma alla musica commerciale, passando per il jazz. E’ questo il filo conduttore del volume firmato dal professor Alessandro Volpi del dipartimento di Scienze Politiche intitolato “Fare gli Italiani, a loro insaputa. Musica e politica dal Risorgimento al Sessantotto” e pubblicato da Pacini Editore. Un libro che osserva la storia dal punto di vista di un fenomeno culturale invece di numeri e date.

Pubblichiamo di seguito una presentazione a firma del docente.

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La musica ha rappresentato un elemento costitutivo del linguaggio politico italiano. Ciò è avvenuto sia nella fase in cui tale linguaggio era assai indefinito, privo di sedi istituzionali e di luoghi pubblici in cui esprimersi in maniera coerente ed esplicita, e dunque per buona parte dell’Ottocento, sia nelle successive fasi novecentesche, quando quel linguaggio è stato attraversato e connotato dai forti vincoli dell’ideologia.

In entrambe queste fasi, tuttavia, la cruciale natura costituiva della musica rispetto alle forme della politica si è manifestata in maniera profondamente disorganica, risultando l’effetto di tante suggestioni tra loro molto differenti: dal melodramma, ai canti popolari, al jazz, alle canzoni commerciali, all’opera sinfonica, che hanno contribuito ad alimentare sentimenti di appartenenza, a cominciare dal patriottismo, di dura critica, persino di rivolta, di svago, senza che tali suggestioni, certamente “popolari” e diffuse ben oltre le élites, fornissero alla politica, appunto, strumenti di consapevole cittadinanza.

La musica ha fatto gli italiani quasi a loro insaputa, contribuendo alla definizione di un’identità nazionale assai spaesata, animata da accese e colorate passioni, da enfasi retoriche e da disperazioni altrettanto gridate che non hanno permesso, sotto molteplici aspetti, di trovare nelle note un tratto di consolidamento della nazione. Ha ridotto così alla politica gli spazi della ragionevolezza e della riflessione, ma non li ha occupati neppure con formule realmente unificanti sul versante dei sentimenti; vivere cantando è stato un tratto generale di stordimento e di confusione che ha inciso sulle scelte politiche degli italiani, decisamente più sensibili alla “pancia” che al cervello.

Questo libro prova a raccontare, in forma di sintesi, alcune tappe di una storia decisamente molto affascinante proprio per le sue contraddizioni e per l’effetto, “distorto”, che ha prodotto sugli italiani; lo fa muovendosi sul filo di una lettura dei fenomeni culturali piuttosto che su quello della storia sociale, evitando con cura qualsiasi quantificazione numerica. Non affronta infatti il complesso tema del pubblico e di quanto fosse esteso il mercato delle produzioni musicali; si tratta di una scelta dettata dalla convinzione che sia il mercato sia il pubblico fossero due realtà assai difficili da definire se non, appunto, sul versante della dimensione culturale.

Proprio la vastità dei fenomeni musicali, in Italia, e la loro eterogeneità hanno fatto sì che il pubblico e il mercato della musica fossero gli italiani stessi; dunque sarebbe estremamente complesso, molto di più di quanto non avviene per l’editoria, procedere a una sintesi dei loro caratteri e del funzionamento commerciale.  Per essere ancora più espliciti, sembra plausibile affermare che la dimensione commerciale dei fenomeni musicali, almeno per buona parte dell’arco di tempo preso in esame, non fosse in grado di qualificare una più complessiva nozione di “consumo” musicale che si materializzava attraverso circuiti assai informali, rispetto ai quali anche l’idea stessa di “ascoltatore” non era aggettivabile in modo specifico.

D’altra parte, adottare il mercato come elemento qualificante della narrazione avrebbe imposto una periodizzazione diversa rispetto a quella scelta in questo lavoro. Il libro non si sofferma, fatti salvi alcuni passaggi, neppure sull’analisi delle normative in materia musicale per non perdere di vista la visione d’insieme, necessaria a un lavoro di sintesi. In tal senso, ci è parso che la partita del condizionamento esercitato dalla musica sulla politica si sia giocata quasi interamente in termini culturali e che, quindi, quelli dovessero essere ricostruiti soprattutto qualora la prospettiva prescelta fosse quella, come in questo caso, della sintesi di lungo periodo.

Alessandro Volpi

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