Elenco scorciatoie

Una donna, un voto
Diritti, utopie, opacità

 

gruppo di donne durante al voto

 

Con il decreto legislativo luogotenenziale del primo febbraio 1945 sull’“Estensione alle donne del diritto di voto”, varato durante il secondo governo Bonomi, furono riconosciuti i diritti politici alle italiane. Ma proprio a tutte le italiane? Quel decreto, che con tutta evidenza introdusse il suffragio universale nel nostro Paese, conteneva, infatti, una esclusione quanto mai minoritaria ma significativa: per l’appunto non fu riconosciuto il diritto di voto alle prostitute «vaganti» (per usare il linguaggio della pubblica sicurezza), quelle cioè che esercitavano in modo visibile e non già nelle famigerate “case chiuse” (le cui residenti furono invece incluse). Ben presto, nel 1947, cadde anche quest’ultima esclusione, rivelatrice comunque di un clima culturale profondamente intriso di antichi perbenismi, facili ipocrisie, timori ed incertezze. Il decreto stesso, certo, qualche incertezza la causò: se, infatti, è probabile che si desse per scontato che l’elettorato attivo implicasse anche quello passivo (la eleggibilità delle donne, cioè) e se lo stesso Togliatti parlò già nel 1945 di entrambi i diritti, così non fu nella percezione comune e nella stampa del tempo. Circolò, infatti, l’idea che le donne avessero sì conquistato il diritto di essere elettrici, ma non quello di essere elette. Comunque sia, il successivo decreto del 10 marzo 1946 dissipò ogni dubbio, esplicitando all’art. 7 che: «Sono eleggibili all’assemblea costituente i cittadini e le cittadine italiane che, al giorno delle elezioni, abbiano compiuto il 25° anno di età».

Sebbene nella memoria e nel rituale commemorativo si sia imposta quella del 2 giugno come data del primo voto femminile, va ricordato che in realtà le italiane a quella data avevano già votato per le elezioni amministrative che si erano svolte per l’appunto, in più tornate, tra il marzo e l’aprile, sempre del 1946. Tale minuta imprecisione, come sempre accade in riferimento ai processi storici, rivela in effetti una distinzione cruciale nella storia della cittadinanza femminile: tradizionalmente minori e teoricamente meno rilevanti erano state, infatti, le obiezioni poste al diritto di voto amministrativo rispetto a quelle avanzate per il diritto di voto alle elezioni politiche. Non stupisce, dunque, se sia proprio il primo voto politico ad essere ricordato, in quanto certamente quello del 2 giugno rappresentò la novità più significativa.

Le condizioni in cui fu varato il decreto luogotenenziale non furono certo tra le più distese: la guerra era ancora in corso; non vi fu alcun dibattito parlamentare, che oggi risulterebbe utile per la ricostruzione in sede storiografica delle diverse posizioni politiche e culturali; non vi fu neppure un’assemblea consultiva, come avvenne per l’analogo decreto francese del 21 aprile del 1944, a riprendere i fili di un antico e tortuoso dibattito che aveva opposto le ragioni delle emancipazioniste e delle suffragiste a quelle delle varie maggioranze dei deputati.

carabiniere e ragazza in minigonna

 

In Italia si giunse dunque al pieno compimento della democrazia, come è stato detto, un po’ “alla chetichella”, senza un grande dibattito politico, senza che il fatto avesse suscitato neppure una grande eco sui giornali (a parte qualche eccezione); i diritti politici delle donne giunsero, quindi, come fossero un’ovvia conseguenza della nuova democrazia, dimenticando che lo stesso quadro concettuale che aveva sostenuto i moderni modelli rappresentativi quegli stessi diritti alle donne li aveva negati a chiare lettere. Il decreto del primo febbraio fu certamente voluto dai due principali protagonisti della politica di quegli anni: Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. I due leader erano profondamente convinti dell’importanza di un forte radicamento sociale per i loro rispettivi partiti e della rilevanza dell’organizzazione del consenso, come lo stesso Togliatti non aveva mancato di analizzare nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935. È innegabile, inoltre, che De Gasperi vide nell’elettorato femminile una possibilità per ampliare il consenso verso il proprio partito, mentre Togliatti pensò, in questo modo, di attrarre qualche consenso in più tra i ceti medi. Non a caso, più tiepidi furono i partiti cosiddetti d’élites, i liberali e gli azionisti in primo luogo, i quali non in via di principio, ma per motivi pratici, in qualche occasione non mancarono di ricordare come “non tutte le donne avessero ancora” piena coscienza e adeguata preparazione politica per poter esercitare autonomamente tale diritto.

Va ricordato che in quel preciso momento politico non vi era una forte rivendicazione specifica da parte delle donne, con una sola ma importante eccezione: il comitato pro-voto promosso dall’Unione Donne Italiane fin dall’ottobre del 1944. Se da un lato, infatti, la significativa partecipazione femminile alla Resistenza aveva, e non certo per la prima volta, segnato una presenza nella sfera politica e pubblica di grande rilievo, dall’altro quella stessa partecipazione nell’attività resistenziale aveva complicato il quadro, tale che l’equazione tra la partecipazione alla Resistenza e il riconoscimento dei diritti politici appare una grossa semplificazione. Almeno tre elementi, infatti, ci spingono a riflettere su un rapporto tra donne e sfera pubblica, con implicazioni molto complesse rispetto alle quali il diritto di voto si configura come un elemento di non assoluta centralità.

In primo luogo, molte donne si erano dovute confrontare con la scelta di impugnare le armi o, viceversa, di rifiutarne l’uso: è evidente che per le donne, tradizionalmente escluse dall’esercizio del valore militare, quella scelta fu molto più controversa e sofferta. Alcune si rifiutarono di farlo; altre, invece, si rifiuteranno di raccontare quella scelta; per tutte ciò costituì un salto nello spazio politico di grosso impatto morale ed emotivo.

Ed ancora: sicuramente il massimo impegno teorico e pratico per le partigiane si esplicò nel campo dell’assistenza, non solo nei confronti dei partigiani, ma anche verso le popolazioni civili. Riprendendo una lunga tradizione che aveva teorizzato l’esplicita trasposizione delle tradizionali inclinazioni femminili nei luoghi della politica, tale che essa ne risultasse profondamente trasformata, le donne della Resistenza avevano strategicamente puntato sulla conversione delle virtù private in fondamenti di un radicale miglioramento complessivo della società. Ha scritto al riguardo Nadia Spano, partigiana e, come è noto, tra le poche donne elette deputate all’Assemblea costituente:
“L’attività principale è quella dell’assistenza (…) ma occuparsi di assistenza in quel periodo è una scuola di educazione politica: occorre (…) sapersi confrontare con le strutture dello Stato, con le autorità militari alleate, vincere una impostazione puramente caritativa (…), rivendicare il diritto al controllo da parte delle donne e delle loro organizzazioni spezzando il monopolio delle opere religiose di beneficenza”.
Tutto ciò ha fatto sì che si guardasse molto avanti, ai contenuti sociali di una nuova democrazia segnata profondamente dal modo di “fare politica” da parte delle donne, più che alle scelte contingenti.

Ed infine, il terzo elemento che certamente contribuisce a spiegare una certa opacità tra le donne della Resistenza e la rivendicazione dei diritti politici, è rappresentato dal fatto che un altro settore in cui le partigiane furono molto impegnate fu quello della partecipazione alle amministrazioni locali e del controllo annonario. La rete di tali iniziative, che di fatto garantì i beni di prima necessità alle popolazioni civili e non, costituì una sorta di democrazia diretta fortemente messa in opera e diretta dalle donne.

Tutto ciò, quindi, non solo riproponeva l’antico modello di potere sociale delle donne tipico delle società pre-industriali, ma soprattutto le immetteva nello spazio politico attraverso una pratica, per l’appunto di democrazia diretta, che certamente le distanziava dalle formule e dai riti della democrazia rappresentativa.

Se, dunque, per le donne attive nella Resistenza l’obiettivo del diritto di voto fu un po’ sfogato e non fece registrare un grandissimo entusiasmo, è certo che esse rivendicarono comunque la conquista e non vollero sentir parlare di concessione, così come l’esercizio del primo voto suscitò, tra tutte (partigiane e non), un entusiasmo incontenibile. Le numerosissime testimonianze raccolte lo dimostrano senza ombra di dubbio: “avevo il cuor in gola dall’emozione…”, “vennero per insegnarmi a votare ed io dissi loro: «non vi preoccupate, lo so da me come fare!»”.

Naturalmente, contraddicendo tutte le previsioni, le donne votarono numerosissime e non si registrò neppure il paventato scarto tra Nord e Sud del Paese; insomma le donne condivisero integralmente il clima di euforia e di voglia di libertà che, in quel contesto, si esplicitava soprattutto attraverso la partecipazione alle attività dei partiti politici.

L’ingresso delle donne a pieno titolo nella cittadinanza accompagna cambiamenti significativi, anche se tutto ciò non poteva riuscire e non riuscì ad incidere su elementi di continuità altrettanto riquadro levanti e strutturali. Tra tutti, il riconoscimento del diritto di voto non poteva certo risolvere quell’aggrovigliato nodo, come i decenni successivi evidenzieranno pienamente, costituito dal rapporto delle donne con la politica.

bambino attaccato alla gonna della madre

 

Certamente l’esercizio del diritto di voto svolto in condizioni di segretezza rappresentò un elemento di novità culturale importante: le donne, scarsamente avvezze ad essere pensate come esseri autonomi, poterono liberamente esprimere il loro pensiero; la stessa condizione di segretezza si configurò come un forte elemento acceleratore del processo di affermazione delle donne come “individue” libere e dotate di autonoma volontà, titolari della loro quota di sovranità popolare.

In secondo luogo, la presenza fisica dei corpi femminili nei luoghi alti della politica poneva fine ai timori profondi derivati dalla “contaminazione”, ossia dalla vicinanza di corpi di diverso sesso.
Al riguardo, va ricordato che prima dell’unificazione del Regno d’Italia, le donne toscane e quelle del lombardo-veneto, se contribuenti, potevano votare alle elezioni amministrative, ma il loro voto doveva giungere al seggio o attraverso una procura o in busta sigillata. Come spiegare, se non attraverso la paura della contaminazione, una misura di questo genere? La rigida separazione fisica dei sessi attraversava, peraltro, l’intero ciclo di vita: essa era prevista all’interno del percorso scolastico, nei luoghi della prima socializzazione, nella sociabilité dell’età adulta e così via; la presenza delle deputate ha energicamente infranto questo antico assetto. Non a caso tutte le deputate all’Assemblea Costituente ricordano il timore fisico, l’imbarazzo e persino lo scandalo di taluni colleghi per la presenza fisica delle donne nei luoghi reali e simbolici della sovranità popolare, così come per la condivisione degli stessi riti della politica.

Infine, il riconoscimento del diritto di voto alle donne chiudeva un assetto, in parte coerente, che aveva accompagnato la nascita della modernità: subordinare le donne all’interno della famiglia ed escluderle dalla sfera pubblica.

L’autorizzazione maritale fu, al riguardo, un istituto chiave di tale assetto; sul modello del Codice civile napoleonico del 1804, infatti, il primo codice civile del regno d’Italia, il codice Pisanelli, all’articolo 134 prevedeva che: “La donna non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza autorizzazione del marito”.

La fine di tale istituto, che giunse in Italia nel 1919, aprì in un certo senso la strada alle donne per la piena cittadinanza; venne meno, infatti, quella simmetria che voleva le donne incapaci di firmare un contratto in ambito civile e, a fortiori, incapaci di sottoscrivere il contratto sociale, ossia di contribuire alle decisioni collettive di natura politica.

A dispetto della piena uguaglianza tra i sessi garantita dalla nostra Carta Costituzionale, almeno due furono gli ambiti in cui rimasero robuste tracce delle antiche disuguaglianze: quello, ancora una volta, della famiglia, e quello dell’accesso alla magistratura.

donne ad una manifestazione

 

Relativamente alla famiglia, infatti, bisognerà aspettare il nuovo codice del 1975 perché vengano completamente annullate le disuguaglianze tra i coniugi. D’altra parte, proprio negli anni della Costituente, alla famiglia si guardò con rinnovato interesse, ossia come nucleo originale e “naturale”, nonché come cellula capace di produrre una nuova Italia e di mantenere salda la struttura connettiva del Paese. In questo contesto, non stupisce se alle donne si attribuì una rinnovata centralità all’interno dello stesso nucleo familiare: persino il diritto di voto fu finalizzato, soprattutto nella retorica delle forze cattoliche, ad un miglioramento del ruolo di mogli e di madri e comunque sempre a difesa dell’istituto familiare.

Relativamente alla complessa vicenda dell’accesso alla magistratura, mi limito a ricordare che per le donne rimasero inalterate antiche esclusioni che riguardavano gli impieghi che comportavano poteri giudiziari (più precisamente restò in vigore l’ordinamento giudiziario del 1941 che all’art. 8 poneva tra i requisiti per la professione di magistrato l’appartenenza al sesso maschile), la difesa militare dello stato, l’autorità esecutiva governativa.

Non solo l’Assemblea Costituente non risolse la contraddizione, ma nel corso dei lavori non mancarono interventi rivelatori delle antiche paure che la “donna magistrato” continuava a suscitare: se, ad esempio, l’on. Molè, di formazione socialista e deputato per il Partito democratico del lavoro, appellandosi all’autorevolezza di Charcot, asserì che per “il complesso anatomo-fisiologico, la donna non può giudicare”, più farraginoso fu, invece, il ragionamento del futuro presidente della Repubblica, on. Giovanni Leone:“Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giudiziaria non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”.

Le donne rimasero escluse dalla magistratura finché una sentenza della Corte Costituzionale e un’apposita legge del febbraio 1963 non apriranno loro anche la carriera giudiziaria.

Restano ancora insoluti e aperti taluni problemi relativi al rapporto tra le donne e la politica, di cui certamente la scarsa presenza femminile negli organismi rappresentativi è la spia più evidente: è possibile che rimanga una certa attitudine che ha visto le donne prime protagoniste quando la politica sembra poter cambiare radicalmente la società e fare un passo indietro quando essa diventa gestione dell’esistente. È certo che rimane una difficoltà profonda e specifica per le donne rispetto ai riti e ai tempi della politica, soprattutto quando l’impegno politico deve essere conciliato con l’attività di cura domestica. È, infine, auspicabile che la partecipazione più attiva delle donne nella sfera politica non si configuri soltanto come un giusto riequilibrio delle rappresentanze tra i sessi, ma contribuisca alla ridefinizione del modo e dei significati della politica stessa.

 

Riferimenti bibliografici

  1. G. Bonacchi - A. Groppi (a cura di), Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1993.
  2. A. Bravo - A. M. Bruzzone, In guerra senza le armi. Storie di donne (1940-1945), Roma-Bari, Laterza, 1995.
  3. A. Galoppini, Il lungo viaggio verso la parità. I diritti civili e politici delle donne dall’Unità ad oggi, Pisa, ETS, 1992 (d. orig. 1980).
  4. A. Rossi-Doria, Diventare cittadine. Il voto alle donne in Italia, Giunti, Firenze 1996.

Le immagini a corredo dell’articolo sono tratte da:
  1. E. Doni-M.Fugenzi, Il secolo delle donne. L’Italia del Novecento al femminile, Laterza, Roma-Bari, 2001.

Vinzia Fiorino
docente di Storia Contemporanea
v.fiorino@stm.unipi.it