Anno accademico 2001-2002

Cerimonia di inaugurazione

Il 12 ottobre scorso nell'Aula Magna Nuova del Palazzo "La Sapienza" è stato inaugurato l'anno accademico 2001-2002 , il 658° dalla fondazione dell'Università di Pisa.

La cerimonia di inaugurazione ha coinciso con il conferimento della laurea honoris causa in storia a Romano Prodi, presidente della Commissione Europea, che ha pronunciato la sua lectio doctoralis.

Ecco il discorso inaugurale pronunciato dal rettore, Luciano Modica.

<<Signor Presidente, signore e signori,

credo sia doveroso rivolgere innanzitutto un saluto grato e un caloroso ringraziamento a tutte le autorità, a tutti i colleghi, a tutti gli studenti che hanno voluto oggi essere presenti nella nostra Aula Magna per l'inaugurazione dell'anno accademico 2001/2002.

E' un anno accademico particolare questo che inizia in questi giorni, non tanto perché - è ormai quasi banale dirlo - il primo che inizia nel nuovo secolo e millennio, quanto piuttosto perché è il primo in cui applichiamo la riforma didattica e quindi la nuova architettura degli studi e dei titoli universitari impostata dal Parlamento e dal Governo negli ultimi cinque anni e autorevolmente confermata dal Ministro appena insediato, signora Letizia Moratti, nel primo incontro ufficiale con i rettori italiani lo scorso 27 settembre.
Mi piace e mi sembra giusto ricordare che ci onorano oggi qui con la loro presenza il Presidente della Commissione Europea Romano Prodi e il senatore del collegio di Pisa Luigi Berlinguer, che nell'ottobre 1996 erano rispettivamente Presidente e Ministro dell'Università di quel Governo che allora indicò le coordinate politico-strategiche della riforma e diede il via all'analisi culturale e alle procedure normative che avrebbero portato alla sua realizzazione.
La lunga attesa della riforma, durata anni per non dire decenni, poteva far temere che negli atenei italiani fosse ormai prevalsa la stanchezza sulla speranza, il disimpegno sul senso di responsabilità, un pigro o cinico scetticismo sulla voglia di innovazione. Non era così, nonostante qualche comprensibile lentezza iniziale. Lo abbiamo dimostrato nei fatti e, mi sia concesso dirlo, nel nostro ateneo in modo particolare. Non certo per presunzione, perché l'onestà intellettuale vuole che non vengano mai taciuti i molti problemi e difetti del sistema universitario e dell'Università di Pisa. Ma la stessa onestà vuole che non si rinunci all'orgoglio delle cose ben fatte e del senso di appartenenza ad un'istituzione che ce l'ha messa tutta per migliorare l' efficienza e l'efficacia delle sue attività istituzionali.
I dati delle immatricolazioni, già chiuse in alcuni atenei e ancora aperte nel nostro, mostrano in tutta Italia un insperato aumento rispetto all'anno scorso, da qualche punto percentuale (un provvisorio 4% qui a Pisa) fino a valori quasi incredibili del 20%. Sono dati che attendono conferma per essere dichiarati certi ma, se fossero confermati nonostante la curva demografica discendente che durerà ancora per molti anni, sarebbe dimos trato senza ombra di dubbio che le università italiane sono riuscite ad intercettare, offrendo corsi più brevi e dimostrando impegno e voglia innovativa, una domanda di formazione universitaria che non era soddisfatta dal vecchio sistema.
Desidero ringraziare in modo ufficiale quanto sincero quanti hanno contribuito al lavoro della riforma qui a Pisa. Sono stati moltissimi: i miei impagabili prorettori, i presidi di facoltà e gli altri componenti del senato accademico, i presidenti dei corsi di studio, le decine di docenti che si sono fatti garanti dei nuovi corsi di laurea, gli esperti degli uffici e delle segreterie, i rappresentanti degli studenti in tutti gli organi collegiali che, con meraviglioso altruismo e grande senso politico, hanno costruito un' università nuova e diversa non per loro stessi, spesso ormai alla fine degli studi, ma per gli studenti che succederanno loro. Hanno lavorato tutti, intensamente e per mesi, in un modo corale che rimarrà tra i miei ricordi più belli e che è il segno stesso di quella comunità intellettuale che vuole e deve essere un'università . Peraltro non abbiamo finito, siamo ancora al lavoro per completare entro le prossime settimane il quadro della nuova offerta formativa con le lauree specialistiche e per far transitare gli studenti che lo vogliano dai vecchi ai nuovi ordinamenti.
Anzi, non finiremo mai. E lo dico perché uno degli aspetti più sostanziali e innovativi della riforma è proprio il suo fondamento politico e cardine metodologico che le dà anche il titolo: è la riforma dell'autonomia didattica delle università. Autonomia, concetto sempre invocato quanto impaurente nelle conseguenze di responsabilità che impone. Eppure concetto necessario perché l'università tenga il passo con la società in cui e per cui lavora e perché la continua valutazione degli atenei e la competizione tra loro generino i tipici effetti positivi di un'economia di mercato, sperando di saperne evitare i possibili scompensi.
L'autonomia ha come conseguenze principali la differenziazione e la flessibilità degli ordinamenti didattici. La stessa data di oggi, anticipata di qualche settimana rispetto a quella usuale per le inaugurazioni degli anni accademici, è un piccolo segno di novità, correlata al fatto che l'Università di Pisa, nel varare la propria " interpretazione" autonoma della nuova architettura didattica, ha scelto di impostare una struttura più moderna ed europea dell'anno accademico, facendolo iniziare il primo ottobre e dividendolo in due semestri didattici, il secondo dei quali comincerà il primo marzo. La stessa scansione sarà seguita da tutti i corsi di studio e di insegnamento, tanto che tutti gli studenti, anche le matricole, e tutti i professori dei corsi di laurea sono già tornati o venuti al lavoro nelle nostre aule.
Ma questa novità di calendario è solo una minuzia rispetto alle novità, alle sfide e naturalmente ai problemi della diversificazione e della flessibilità. Diversificare vuol dire organizzare un'offerta didattica in cui durata, tipologia, obiettivi della formazione supe riore siano più aderenti alle aspirazioni degli studenti e alle necessità del mondo del lavoro. La stessa ossessiva banalizzazione della riforma nella formuletta 3+2 denota quanto la nostra opinione pubblica sia disabituata a cogliere le tante differenti sfumature della reale domanda di formazione che viene dai giovani e le corrispondenti opportunità date dalla riforma.
La nuova architettura fissa solo, in coerenza con gli obiettivi fissati dai ministri di ben 31 Paesi europei nella Dichiarazione di Bologna del giugno 1999, confermata quest'anno dalla Dichiarazione di Praga, la durata minima della formazione universitaria in tre anni. A partire dalla laurea triennale un ventaglio di opportunità si apre davanti ai giovani. Dall' immediato inserimento nel lavoro, al proseguimento degli studi universitari con i master annuali, con le lauree specialistiche biennali, con le specializzazioni per quelle specifiche professioni che sono regolate dalla legge. E a seguire, per chi vi aspirasse e possedesse le necessarie capacità intellettuali, ancora altri master annuali di secondo livello oppure il dottorato di ricerca per formarsi, con l'esperienza diretta della ricerca, alle più alte professionalità ed ai più alti livelli intellettuali e culturali del Paese. Ben altro che l' aritmetica del 3+2 su cui sono stati spesi fiumi di parole di opinionisti facili a scandalizzarsi quanto restii a documentarsi.
Ma la flessibilità non tocca solo durata e tipologia degli studi, ma anche, e più profondamente, gli obiettivi formativi. Nessuno può mettere in discussione che la formazione superiore a livello universitario deve fondarsi sulla conoscenza sicura dei fondamenti delle discipline che fanno oggetto del corso di studio e sulla capacità di condurre criticamente analisi e riflessioni autonome su di essi. Ma nessuno può ragionevolmente ipotizzare che alle generazioni, fortunatamente sempre più ampie, di giovani che arrivano alla formazione universitaria sia offerta esclusivamente una prolungata formazione disciplinare di tipo generalista, senza quei requisiti di alta professionalità specifica, di conoscenza approfondita dei contesti interdisciplinari e transdisciplinari, di sviluppo delle capacità espressive e interpersonali che sono ormai assolutamente necessari per entrare in qualunque segmento del mondo del lavoro, da quello delle imprese produttrici di beni e servizi a quello delle professioni o della pubblica amministrazione.
Il mancato bilanciamento dei due obiettivi formativi e la forte autoreferenzialità dei curricula universitari sono state certamente alla base dell'assurda lunga durata media della formazione universitaria in Italia e del basso numero percentuale di persone che finora riescono a conseguire un titolo universitario rispetto ad altri Paesi europei e, soprattutto, ad USA e Giappone. Un vero spreco di energie intellettuali fresche per una competizione tra sistemi economici nazionali e continentali che non ha atteso i tempi lunghi delle riforme universitarie.
Come deve essere realizzato il bilanciamento tra formazion e di base a lungo termine e formazione professionalizzante a più breve termine, quali devono essere le proporzioni della miscela è appunto, di nuovo, materia di autonomia delle università, dei singoli corsi di laurea, addirittura dei singoli curricula. E' la vera e più profonda sfida dell'autonomia didattica, probabilmente. Vi sono studenti e studentesse precoci e brillantissimi - e a Pisa questo aspetto è particolarmente importante per la presenza della Scuola Normale e della Scuola S. Anna che ne selezionano qualche decina ogni anno ma che non rimangono certamente i soli nella nostra popolazione studentesca - cui vanno destinati curricula fortemente impegnativi dal punto di vista culturale. Vi sono studenti e studentesse molto capaci e determinati a trovarsi rapidamente una nicchia lavorativa adeguata alle loro aspirazioni cui vanno destinati curricula fortemente impegnativi dal punto di vista professionale. Il profilo formativo di un ateneo sarà dato nel tempo dalle scelte che verranno fatte sui corsi di laurea da attivare e sulle caratteristiche dei loro curricula. Un ateneo sarà tanto migliore quanto sarà capace di utilizzare al meglio i grandi spazi di flessibilità per adeguare continuamente nel tempo la propria offerta formativa alla domanda dei giovani e della società, pur mantenendo i livelli qualitativi che ci si è prefissati.
Ci sarebbe molto altro da dire sulla riforma didattica e su come è stata attuata nell'Università di Pisa ma il tempo stringe. Mi limito quindi solo a poche ulteriori rapide notazioni. Dal punto di vista generale è indubbio che la riforma individua negli atenei e non più nelle corporazioni accademiche delle discipline i centri di riferimento del sistema universitario e gli snodi della competizione. Autonomia, valutazione, flessibilità, adeguamento alla domanda sono tutti termini che mettono al centro l'istituzione università, al cui interno tutte le discipline sono chiamate a collaborare e ad integrarsi per denotare il suo profilo formativo e scientifico.
In questo senso la riforma didattica segna una rivoluzione ancora più profonda rispetto all'architettura dei titoli universitari che pur ne è l'oggetto principale, uno iato deciso rispetto alla vecchia organizzazione di tipo disciplinare che costituiva l'ossatura dello schema che ci ha guidato per oltre settant'anni e che, con l'inevitabile sua sclerotizzazione, ha rischiato alla fine di soffocare l' università italiana.
Si noti che la precedente architettura degli studi era ottimamente pensata ed estremamente adatta ed efficace per formare ristrette élite culturali e professionali del Paese, tanto è vero che ha continuato a formare anche negli ultimi anni generazioni di laureati di eccezionale qualità. Peccato che ne ha formati pochi in assoluto e percentualmente sempre meno rispetto agli altri Paesi, per giunta con tempi di formazione insopportabili.
La nuova architettura degli studi deve quindi affrontare una sfida difficile con strumenti nuovi e, soprattutto, con grande flessibilità. Con la certezza, comunque, che non deve durar e immota per settant'anni: qualunque siano i suoi pregi, ed io ne sono un appassionato cantore, la chiave di volta deve essere la capacità di innovare continuamente superando i difetti che l'esperienza metterà in luce.
Dal punto di vista internazionale la riforma italiana è vista dagli altri Paesi dell'Unione e dell'Europa - lo posso testimoniare personalmente e comunque esistono anche studi scientifici comparativi di esperti non italiani dei sistemi di istruzione superiore - con grande interesse e curiosità, che sconfinano talvolta nell'ammirazione. Anche perché è risultata la riforma nazionale più rapida e più avanzata nell'ambito del cosiddetto Processo di Bologna che è iniziato nel 1999 ed è destinato a durare, per impegno dei ministri, per tutto il primo decennio del 2000 fino alla formazione di quello Spazio Europeo dell'Istruzione Superiore che ne è l'obiettivo strategico.
Dal punto di vista locale l'Università di Pisa si è mossa con grande senso di responsabilità. Al termine di un dibattito approfondito il senato accademico ha varato nello scorso gennaio quelle linee di indirizzo dell'applicazione della riforma che sono risultate di fondamentale importanza per evitare pericolose accelerazioni e salti nel buio.
Ecco dunque il nostro ateneo che, differentemente da molti altri, anche dai confratelli toscani, ha volutamente limitato il numero dei corsi di laurea triennale da istituire, pensando soprattutto a ripensare e adeguare quelli esistenti prima di cogliere l'opportunità di vararne subito molti nuovi e attraenti, per i professori e per gli studenti. Mossi dal principio fondamentale di regolare i fini rispetto ai mezzi, gli obiettivi rispetto alle risorse, ma anche dal desiderio di continuare a connotare l' Università di Pisa come un solido ateneo con grandi tradizioni, capace certo di diversificare e rendere flessibile la formazione per offrire una strada per ciascuno studente, ma senza correre dietro al marketing ingenuo e sfrenato dei mille curricula alla moda.
Tra le 55 lauree triennali finora istituite, accanto alle molte eredi dei corsi di laurea e diploma precedenti, ne spiccano peraltro alcune nuove. Vorrei parlare della laurea in informatica umanistica, nella stessa classe della tradizionale laurea in lettere ma con l'accento sulle grandi opportunità che si offrono a chi sa coniugare le nuove tecnologie dell'informatica e delle telecomunicazioni con una solida preparazione umanistica; della laurea in scienze per la pace, progettata per quel piccolo ma non piccolissimo numero di studenti che chiede formazione universitaria nel campo delle attività del volontariato, del terzo settore, delle organizzazioni non governative per lo sviluppo, delle azioni interculturali con il fermo sostegno di un approccio fondato sulle scienze, in tutte le accezioni di questa parola; delle lauree in letterature europee per l'editoria, in tossicologia ambientale, in cinema, musica e teatro fino a quella in scienze marittime e navali svolta in collaborazione con e presso l'Accademia Navale di Livorno ma aperta, ed è una novità assoluta, anche a studenti non militari.
Non saprei dire se 55 sono poche o molte in assoluto, di nuovo sarà l'esperienza a guidarci nell'evoluzione dell'offerta. A livello nazionale ne sono state finora istituite circa 3000 e mancano ancora le molte del settore sanitario. Un numero che ha suscitato scandalo tra gli opinionisti ma che va confrontato con quello prima della riforma (oltre 2500) o di altri Paesi (ad esempio in Germania si sfiorano i 9000).
Questo impegno enorme di tutte le università italiane e della nostra in particolare non è stato purtroppo accompagnato da un sostegno finanziario aggiuntivo dello Stato, se non in minima parte. Per fissare le idee, circa 300 miliardi aggiuntivi nel 2001 per tutte le università italiane, ovvero meno di 200.000 lire all'anno per studente. Anche se forse molti di voi lo possono pensare, vi assicuro che non ho fatto errori aritmetici o di lettura del bilancio dello Stato. E purtroppo le prospettive sono ancora meno rosee. Nella finanziaria appena presentata dal Governo al Parlamento, il fondo di finanziamento ordinario delle università aumenta nel 2002 solo di 176 miliardi, cioè parecchio meno della somma necessaria per pagare gli aumenti di stipendio dovuti per legge o per contratto nazionale al nostro personale docente e tecnico-amministrativo. E, quel che è più desolante, le somme indicate nel bilancio dello Stato per il 2003 e per il 2004 non prevedono alcun aumento, anzi una diminuzione nominale di 200 miliardi all'anno, quindi in termini reali una diminuzione di circa il 4% per anno.
Né va meglio per le infrastrutture e per la ricerca. Il fondo ministeriale per l'edilizia universitaria praticamente si dimezza dal 2001 al 2002. Se già poteva apparire ridotta una spesa annua di 300.000 lire per studente, immaginate quella di 150.000 lire. Per la ricerca universitaria di interesse nazionale in tutte le discipline, dalla letteratura latina all'ingegneria aerospaziale, dalla genetica alle scienze economiche, il bilancio dello Stato mette a disposizione 160 miliardi, cioè poco più di tre milioni annui per docente: un computer e un biglietto aereo per un convegno a Oxford o a Barcellona. Si spera in una fantomatica leggina di spesa che attendiamo da mesi per arrivare a 240 miliardi. Ieri ne parlavo al bar con un bravo e noto imprenditore pontederese nel campo dei computer: non voleva credermi.
Nell'aprile 1998, ricevuti a Palazzo Chigi dal Presidente Prodi, i rettori italiani mostrarono le cifre che indicavano il ritardo italiano nel campo universitario, dal basso investimento statale per studente e per ricerca al numero di studenti per docente (doppio in Italia rispetto a Francia e Germania), e insieme la grande produttività del sistema, capace di formare, a parità di finanziamento, più laureati che in Francia e in Germania. Utilizzammo lo slogan: "Se ci fosse una Maastricht per l'università, l'Italia non sarebbe in Europa". Negli anni successivi occorre riconoscere che fu registrato un certo maggiore impegno finanziario dello Stato che lasciava sperare in un recu pero sia pure troppo lento; le prospettive di oggi sono per adesso meno rassicuranti.
Per giunta tutte le università, e la nostra in modo particolarmente pronunciato come sanno tutti i colleghi presenti che credo ancora ricordino bene le preoccupazioni per la grave crisi di liquidità che si è verificata all'inizio di quest'anno, scontano ancora il mancato ripiano dei debiti, sia di competenza sia di cassa, maturati dal bilancio dello Stato. Al primo gennaio 2001 la nostra università vantava circa 290 miliardi di crediti di cassa nei confronti del bilancio dello Stato e circa 40 miliardi di crediti di competenza a fronte di un finanziamento ordinario annuale di circa 370 miliardi. Soprattutto la prima cifra è impressionante, se si pensa che il conto di tesoreria dell'ateneo si è chiuso al 31 dicembre 2000 con soli 9 milioni di resto di cassa e che paghiamo circa 25 miliardi di stipendi ogni mese. Quando si è in presenza di tale carenza di liquidità per la lenta solvibilità dei debitori, un'impresa ricorre al credito bancario se non vuole rinunciare agli investimenti. La difficoltà di farlo per un' università pubblica ha di fatto rallentato la realizzazione dei nostri investimenti, quindi ricerca ed edilizia, pur tutti regolarmente coperti dalle entrate di competenza. Comunque il consiglio di amministrazione ha autorizzato nel luglio scorso, in sede di assestamento del bilancio, l'apertura di una linea di credito per 15 miliardi per non soffocare troppo le attività di ricerca e di investimenti infrastrutturali. Devo riconoscere con piacere e soddisfazione che a fine anno 2001, per la prima volta dopo quattro anni, il debito di cassa dello Stato diminuirà di qualche decina di miliardi, pur rimanendo ben al di sopra dei 200 miliardi. Sono quindi purtroppo ancora garantite difficoltà finanziarie nei prossimi anni, in assenza di provvedimenti correttivi o almeno di impegno statale al rientro progressivo dal debito di cassa. Del debito di competenza, visto l'andamento delle cifre della finanziaria di cui ho detto, meglio non parlare.
Non vorrei che questo mio discorso, aridamente tecnico e fortemente polemico, venga scambiato per insensibilità ai gravi problemi economici che affliggono il nostro Paese e alla fase di incertezza e tensione che attraversa tutto il mondo dopo i terribili devastanti attentati terroristici del mese scorso a New York e Washington. Credo che quattro anni fa nessun sistema pubblico italiano come quello universitario abbia accettato con più partecipazione politica e più sacrifici finanziari la scommessa e la sfida che tutti insieme gli italiani abbiamo affrontato e abbiamo vinto per l'ingresso del nostro Paese nell'area della moneta unica europea. Ma sistemi pubblici budgetizzati come il nostro (caso quasi unico in Italia) non possono reggere troppo a lungo forti restrizioni finanziarie se non scoppiando o deformando la propria natura istituzionale.
Questi anni sono stati infatti accompagnati da un impegno enorme ad aumentare le entrate proprie dell'ateneo per alleviare le difficoltà sulla quota di provenienza statale del nostro bilancio. Dal 1994 ad oggi le tasse universitarie che pagano gli studenti sono state, a Pisa, più che quadruplicate, pur cercando, e spero riuscendo ad ottenere, una migliore equità del carico impositivo per non penalizzare gli studenti delle famiglie meno abbienti e pur mantenendo alquanto bassa, rispetto alla media nazionale e regionale, la tassa media e massima per favorire il tradizionale afflusso dei fuori sede per i quali le tasse universitarie si sommano ai costi di soggiorno fuori casa. Attualmente il ricavato delle tasse universitarie è di circa 60 miliardi all'anno (l'11% circa del totale delle entrate). Sono anche enormemente aumentate le entrate provenienti da contratti o convenzioni con imprese ed enti. Siamo arrivati a circa 80 miliardi all' anno (il 16% delle entrate) partendo dai meno di 10 di otto anni fa. Ma occorre pensare che la quasi totalità di questi denari arriva come corrispettivo di prestazioni e quindi, dal punto di vista del bilancio, apporta liquidità fresca ma non veri e propri ricavi utili per gli investimenti. Recentemente l'ateneo, appunto per risolvere questo problema, ha fissato una quota fissa del 5% a favore del bilancio su ogni entrata propria (in gergo un overhead), ma si tratta pur sempre di soli 4 miliardi annui su un bilancio di 550.
Il rischio, che è un rischio vero per un'università che vuole rimanere tale, è quello di deformare le proprie attività istituzionali a favore di quelle per conto di terzi retribuite sulla base dei costi marginali. Oppure quello, altrettanto grave per un'università pubblica, di scaricare tutti gli aumenti dei costi sulle famiglie degli studenti tramite un aumento delle tasse universitarie.
A proposito della deformazione delle attività istituzionali occorre segnalare un effetto perverso, tra altri positivi, del concetto di cofinanziamento che ormai impera. In mancanza di risorse proprie significative, la necessità di cofinanziare i propri programmi di ricerca, anche quelli autonomi, finisce col favorire molto quei settori che possono acquisire contratti e consulenze e reinvestire in cofinanziamento gli utili. La ricerca in campo umanistico e quella di base in campo scientifico ne stanno già soffrendo notevolmente. Nessuno nega che un meccanismo di orientamento della ricerca universitaria tramite programmi nazionali e comunitari o tramite meccanismi di cofinanziamento fosse molto opportuno per iniettare ricerca e favorire la competitività tecnologica del sistema Paese e dell' Europa. Ma occorre riflettere agli effetti moltiplicativi di concentrazione degli sforzi che così si realizzano, con il pericolo di soffocare la varietà delle ricerche libere e autonome dei docenti universitari e, alla lunga, lo stesso substrato culturale generale che è proprio dell'università, in cui in nessuna disciplina si può insegnare senza far ricerca e fare ricerca senza il rapporto con gli allievi.
Tutti questi discorsi, alquanto deprimenti, sarebbero alleviati se le università potessero contare su mecenatismi (rarissimi in tutta Italia) o sul supporto di enti e fondazioni legati al territorio. Questo secondo aspetto, presente in molte altre aree italiane, è invece estremamente carente per non dire completamente assente a Pisa e nel grande bacino territoriale naturale delle quattro province della Toscana nord-occidentale di cui la nostra città è un centro geografico e la nostra università è l'ateneo di riferimento. Non voglio citare le cifre che ho appreso nelle due visite che ho fatto nei giorni scorsi alle università di Verona e di Torino perché, pur considerando quanto Torino sia città più grande e Verona città più ricca di Pisa, risulterebbero umilianti per la nostra città e per il suo ateneo.
Ma quello che è da segnalare è che queste due università (e molte delle altre) sono massicciamente aiutate nei loro investimenti edilizi da contributi a fondo perduto di enti e fondazioni, mentre il nostro ateneo non solo non riceve una lira per gli investimenti edilizi (tranne che dallo Stato per un prezioso accordo di programma, siglato ad aprile con il Ministero, che ci rimborserà il 50% delle spese per l'edilizia fino ad un massimo però di 14 miliardi l'anno a fronte di impegni di spesa totali che superano i 50 miliardi l'anno) ma spesso tratta terreni ed edifici di proprietà di enti pubblici con prezzi di acquisto eguali se non maggiori dei prezzi di mercato. Per onestà devo ricordare, come eccezione, il forte investimento edilizio fatto dal Comune della Spezia che ha messo gratuitamente a disposizione delle università di Pisa e Genova un attrezzato grande polo didattico universitario nel centro cittadino.
Anche in questo caso mi scuso se le mie parole potrebbero sembrare eccessivamente polemiche. Ma, in queste occasioni solenni in cui l' università si confronta con lo Stato, con la sua città e il suo territorio, mi è sembrato giusto non indorare la pillola e, soprattutto, porla semmai in modo costruttivo.
Allo Stato, al Governo chiediamo di considerare le università italiane una risorsa strategica dell'Italia. Non c'è programma politico governativo che non dica, giustamente, che la formazione superiore e la ricerca innovativa sono, insieme ai beni culturali e ambientali del nostro Paese, la nostra maggiore ricchezza e il nostro maggiore obiettivo, considerando anche la vivacità intellettuale, il senso di adattabilità e lo spirito di iniziativa personale degli italiani. Nelle risorse strategiche, soprattutto nei momenti difficili, si investe. Se allo Stato non fosse al momento possibile un investimento molto significativo, occorrerebbe facilitare o indirizzare gli investimenti di altri enti, pubblici o privati che siano, incentivando i comportamenti migliori.
Alla nostra città di Pisa, alle nostre città di Carrara, Cascina, Livorno, Lucca, Massa, Piombino, Pontedera, Viareggio, Volterra e via dicendo, alle loro istituzioni locali e fondazioni ex bancarie l'Università di Pisa chiede sostegno, non solo perché la grande maggioranza dei giovani di queste province la sceglie come sede dei propri studi universitari ed è quindi un interesse pubblico diffuso ch e va difeso e sostenuto, ma anche perché tutto questo grande territorio ha bisogno dell'università come l'università ha bisogno del territorio, affinché ne sia stimolata la crescita culturale, civile, sociale ed economica e scattino gli effetti positivi di quel marketing territoriale (che è naturalmente composto di tanti parametri, non certo solamente quello universitario) che è ormai alla base di ogni sviluppo e della vivacissima competizione di aree territoriali che caratterizza l' Europa, l'Italia, la Toscana stessa.
Non ci limitiamo a chiedere allo Stato o al nostro territorio. Noi vogliamo, in cambio, prendere impegni precisi con i nostri finanziatori e vogliamo che il mantenimento di questi impegni sia valutato costantemente e accuratamente, perché noi stessi possiamo avere un vantaggio di incremento della qualità se sottoposti ad un'attenta valutazione. Impegni sui contenuti e sulla qualità della formazione, sulla serietà didattica, sui risultati della ricerca, sul sostegno tecnologico alle imprese e alle pubbliche amministrazioni, sui modelli organizzativi e gestionali, su quant'altro sia ritenuto importante. Crediamo di aver dato prova di saper mantenere alcuni impegni, ma siamo disponibili ad aprire una discussione franca e concreta sugli impegni futuri.
Quella che ho cercato di descrivere è un'università che innova, che si confronta, che si conosce, che prova a chiedere perché sa di dare. Ma questa nostra università è anche una delle università storiche dell'Europa, custode e responsabile di una tradizione di cultura e di eccellenza scientifica e didattica che va avanti da più di 650 anni. Questo passato non è destinato a permanere se la responsabilità che questo passato implica non si volge verso il futuro.
Nel 2002 ricorre l'ottavo centenario della pubblicazione a Pisa del Liber Abaci di Leonardo Pisano o Fibonacci, forse non un capolavoro assoluto della matematica nonostante che l'autore fosse un matematico molto dotato, ma certo un segno della storia, l'arrivo in Europa della grande matematica araba e della tradizione classica che questa era riuscita a disseppellire e rinverdire. Attraverso un ponte culturale (immagine che devo allo storico della matematica Enrico Giusti), fatto dalle piccole navi pisane e dalle mercanzie che su di esse attraversavano il Mediterraneo, l'Europa raccoglieva un testimone dalla civiltà araba e il seme della grande rivoluzione scientifica e tecnologica che dura tutt'oggi. Il Liber Abaci sarà per decenni, se non per secoli (cosa impensabile oggi), il libro di testo su cui si formeranno alla matematica tutti i ragazzi europei destinati agli studi superiori e alle attività contabili.
Esattamente nel giorno di oggi ma 509 anni fa un marinaio genovese apriva un altro ponte, tra l'Europa e l'America. Qualche decennio dopo a Pisa, in Cattedrale, un altro pisano lancia un nuovo ponte, imprevisto, non più ; tra due culture, non più tra due continenti ma tra due modi di vedere il mondo: l'astratta geometria e la concreta esperienza della natura. Il lampadario che oscilla isocrono for nisce la prima misura regolare del tempo, che assurge a coordinata assoluta come lo era la lunghezza, lo spazio, sin dalla geometria greca. Insieme offre a Galileo e poi ad Huygens la prima idea di orologio, il primo e più importante strumento tecnologico della rivoluzione scientifica e della globalizzazione (si pensi al calcolo della longitudine per la navigazione). Ancora qualche decennio e un torinese, Lagrange, completando in modo definitivo la teoria matematica del pendolo e di tutta la meccanica, crea quel ponte tra matematica e ingegneria, tra homo sapiens e homo faber, che era l' aspirazione di Galileo e che caratterizzerà tutto il XIX secolo e, nel XX, permetterà l'incredibile sviluppo della tecnologia che oggi conosciamo e sfruttiamo.
Il ponte è dunque una bella immagine, legata all'idea stessa di condivisione e di crescita reciproca, quindi, se mi è permesso l' ardire, di università.
Pisa, l'Università di Pisa, le altre università italiane ed europee hanno visto e contribuito, nei momenti migliori della loro storia e quando sono rimaste più fedeli alla loro natura, a far crescere ponti tra persone, tra culture, tra discipline, tra visioni del mondo. Vorremmo che si potesse continuare così, o forse anche riprendere, con pazienza e disponibilità, a sperare che possa essere così, affinché quel mondo che vedevamo così globalizzato fino ad un mese fa non lo si ritrovi d'improvviso e per sempre come un'Atlantide ridotta da un cataclisma ad un arcipelago di isole troppo lontane tra loro per gettarvi ponti.
Lascio la parola ad un amico e collega francese, Ivar Ekeland, ottimo rettore ed eccezionale matematico cui si devono importantissimi risultati sull' irreversibilità e sul caos nei sistemi dinamici, quindi, in fondo, sui sistemi di pendoli, sui quali ha tenuto qualche anno fa, proprio qui a Pisa, le lezioni galileane. Il suo ultimo libro "Il migliore dei mondi possibili. Matematica e destino", pubblicato in Francia nel 2000 e in Italia nell'aprile scorso, così si conclude:
"Noi forse non sapremo mai quale sarà il migliore dei mondi possibili, ma in tanti sono stati afferrati dal suo desiderio, come nelle parole evangeliche Lo zelo della tua casa mi divorerà. Noi vogliamo vedere la giustizia regnare intorno a noi: il migliore dei mondi possibili, se è qualcosa, è certamente giusto. Di qui la nostra inquietudine e la nostra rivolta davanti allo spettacolo dell'ingiustizia e al regno della forza, sempre presenti alla fine di un secolo segnato da tanti massacri. Ora che si sta concludendo l'avventura intellettuale iniziata nel Rinascimento e che finalmente si stanno realizzando le ambizioni di Galileo, si apre dinanzi a noi una via ancora inesplorata: costruire a poco a poco, un pezzo alla volta, un mondo migliore, salendo dalle difficoltà più semplici verso le più complicate, dai problemi dell'ambiente ai problemi della società, senza aspettare che le cose si sistemino da sole e senza credere che questa o quella ideologia fornisca delle risposte già pronte.
Questa sarà forse l'avventura intellettuale del terzo mille nnio. La posta in gioco è diventata planetaria: in ogni istante, il mondo oscilla tra diversi stati possibili, e sono le nostre decisioni che fanno pendere la bilancia, spesso in modo irreversibile. Sta a noi fare in modo che queste decisioni siano consapevoli, alimentate da una vera riflessione, e che il mondo che ne risulti sia migliore di quello che conosciamo".
Con questi auspici, che trascendono di molto le dimensioni e il ruolo del nostro ateneo ma cui è impegno di noi tutti dare il piccolo contributo di cui ciascuno sarà capace, dichiaro ufficialmente aperto l'anno accademico 2001/2002 dell'Università di Pisa, 658-esimo dalla fondazione.>>


Ultimo aggionamento documento: 27-Jun-2006