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La missione archeologica a Tebe

A Dra Abu el-Naga, nella vasta necropoli di Tebe, l’attuale Luxor, opera dal 2003 una missione archeologica dell’Università. Gli egittologi pisani, guidati da Marilina Betrò, hanno dapprima esplorato la tomba di un sacerdote del XIII secolo A.C. studiandone le pitture e ampliando così le conoscenze sui culti religiosi popolari diffusi a Tebe a partire dall’epoca di Ramses II. Quindi, è stato riscoperto un grande ipogeo risalente al 1600-1500 A.C. che, oggetto di successivo riuso, cela ancora agli studiosi il nome e i titoli del proprietario.

Uno dei siti su cui maggiormente si concentrò l’attività di ricerca e scavo della spedizione toscana in Egitto di Ippolito Rosellini fra 1828 e 1829 fu l’antico centro di Tebe, presso l’attuale Luxor. La prestigiosa capitale religiosa faraonica impressionò, fin dalla prima visita, i membri della spedizione con i resti monumentali dei vasti complessi templari che si ergevano su entrambe le sponde del Nilo e delle ricche necropoli della Valle dei Re e delle Regine. L’attività della spedizione fu inoltre indirizzata all’esplorazione delle tombe rupestri dei sacerdoti e dei dignitari di corte dei faraoni ed alla documentazione delle splendide pitture che ancora oggi le decorano, ed in alcune occasioni tale attività portò anche alla scoperta di sepolture ancora sconosciute ed in gran parte intatte. Proprio in un settore (Dra Abu el-Naga) di questa vasta necropoli, sulla riva occidentale di Luxor, opera dal 2003 una missione archeologica dell’Università di Pisa diretta da Marilina Betrò. Le recenti indagini, intraprese a partire dallo scavo della tomba rupestre di un sacerdote addetto al culto postumo del faraone Amenofi I, di nome Huy (Tomba Tebana 14), hanno condotto nell’ottobre del 2004 alla scoperta di un nuovo e più ampio ipogeo, precedentemente del tutto ignoto agli studiosi, denominato con la sigla M.I.D.A.N.05 (dall’acronimo della spedizione, Missione Italiana a Dra Abu el-Naga, e dall’anno di inizio della sua esplorazione). La Tomba Tebana 14, la cui realizzazione dovrebbe datare alla fase finale del regno del faraone Ramses II (1279-1213 a.C.), era già inserita nel censimento topografico intrapreso dagli egittologi a partire dal 1909. Nonostante l’ipogeo fosse noto, non esisteva tuttavia, prima delle ricerche effettuate dalla missione pisana, una documentazione scientifica della struttura funeraria, che mai era stata esplorata oltre la prima camera dipinta, né un rilievo completo delle scene e dei testi di tale decorazione pittorica. Le pareti di questo primo ambiente, che rappresentava la cappella in cui i parenti potevano recarsi per svolgere i rituali di offerta e preghiera dedicati al defunto, sono leggermente curve e raccordate da angoli molto arrotondati. Il perimetro ricorda così il segno ovale del cartiglio, tradizionalmente impiegato per racchiudere e “proteggere” il nome dei sovrani, e la decorazione può svolgersi quasi senza soluzione di continuità come fosse raffigurata su un grande papiro spiegato sulle pareti della tomba. L’analisi attenta delle pitture ha permesso di attribuire nomi e titoli ad Huy, proprietario della tomba, e ai suoi familiari e di identificare alcune scene che rivestono particolare interesse per lo studio dei culti religiosi popolari diffusi a Tebe durante l’epoca Ramesside. In esse sono rappresentate, infatti, le processioni svolte in onore delle statue del re divinizzato Amenofi I e di sua madre Ahmosi Nefertari, con lo stesso Huy tra gli officianti. Tali processioni erano l’occasione per la richiesta di oracoli, sia per questioni personali che per vere e proprie sentenze in occasione di faccende legali. Altra raffigurazione importante, finora non attestata altrove, è quella che mostra la tomba del faraone divinizzato Amenofi I, ancora più interessante se si pensa che tale tomba non è ancora stata identificata con certezza dagli egittologi. Sul lato meridionale del primo ambiente si apre una porta che dà accesso agli ambienti funerari veri e propri e che doveva essere stata originariamente murata e dipinta per dissimularne la presenza e rendere inaccessibile il luogo di sepoltura del defunto. L’esplorazione sistematica del settore funerario ha permesso di ricostruire il ramificato sviluppo planimetrico della struttura e la complessa sequenza di interventi architettonici occorsi durante la lunga storia di utilizzo e riutilizzo dell’ipogeo. I risultati delle prime sette campagne di scavo condotte in questa tomba sono stati pubblicati, l’anno scorso, a Pisa dalla casa editrice PLUS (Betrò, Del Vesco, Miniaci, Seven seasons at Dra abu el-Naga. The tomb of Huy (TT 14): preliminary results, 2009). La nuova tomba riscoperta dalla missione dell’Università di Pisa, denominata M.I.D.A.N.05, è invece formata da una grande corte tagliata nella roccia antistante l’ingresso principale, da una serie di ambienti ipogei che si addentrano nella montagna tebana e dal settore funerario vero e proprio, situato ad un livello sotterraneo inferiore ed articolato in pozzi e camere. Fino all’ultima campagna di scavo solo pochi frammenti di decorazione parietale erano stati rinvenuti in situ, per lo più sui soffitti, il che aveva fatto a lungo ritenere che la tomba fosse stata abbandonata ancora prima di essere completata. La sorprendente scoperta di una scena di metallurgia parzialmente conservata, avvenuta nel 2008, lascia invece presupporre che anticamente la tomba fosse interamente rivestita da pitture policrome che ne decoravano le sale interne. Solo poche e prestigiose tombe della necropoli tebana possiedono scene di metallurgia e ciò fa A Dra Abu el-Naga, nella vasta necropoli di Tebe, l’attuale Luxor, opera dal 2003 una missione archeologica dell’Università. Gli egittologi pisani, guidati da Marilina Betrò, hanno dapprima esplorato la tomba di un sacerdote del XIII secolo A.C. studiandone le pitture e ampliando così le conoscenze sui culti religiosi popolari diffusi a Tebe a partire dall’epoca di Ramses II. Quindi, è stato riscoperto un grande ipogeo risalente al 1600-1500 A.C. che, oggetto di successivo riuso, cela ancora agli studiosi il nome e i titoli del proprietario. La missione archeologica a Tebe RiCERCA ◆ di Marilina Betrò e Paolo Del Vesco 15 pensare che M.I.D.A.N.05 appartenesse ad un alto funzionario. Uno dei problemi ancora aperti, a cui si spera di dare presto risposta con la continuazione degli scavi, è rappresentato in effetti dal nome del proprietario di questo grande ipogeo. Tale enigma sarà forse svelato quando, sfogliando a ritroso le pagine di storia stratificatesi nel tempo, si arriverà infine sul fondo dell’ampia corte che precede l’ipogeo. Qui potrebbero trovarsi, caduti dalla facciata, i cosiddetti “coni funerari” in terracotta, che spesso ne decoravano la sommità e recavano iscritto il nome e i titoli del proprietario, o i resti degli stipiti iscritti della porta d’accesso.

La missione archeologica

Quanto la missione dell’Università di Pisa è riuscita a ricostruire finora promette comunque di cambiare significativamente le conoscenze sulla storia di Tebe nel periodo tormentato ma vitale che precedette il fiorire delle grandi dinastie regali del Nuovo Regno, a partire dal 1500 a.C. Le ultime tre campagne, in particolare, hanno chiarito come MIDAN.05 sia più antica di quanto si ritenesse in un primo tempo e sia stata scavata e decorata almeno a partire dalla fine della XVII dinastia, all’incirca dunque tra 1600 e 1500 a.C.: in una delle camere scoperte in fondo ad un pozzo funerario, sono stati infatti ritrovati numerosi frammenti di stucco dipinto, che, dopo una lunga e paziente analisi, si sono rivelati essere i resti del rivestimento pittorico di una particolare tipologia di sarcofago. Si tratta di sarcofagi antropoidi decorati con un motivo variopinto a piume di avvoltoio, chiamati nell’egittologia moderna sarcofagi rishi (dal termine arabo che significa appunto “piumato”). Questi sarcofagi, piuttosto rari, rappresentano un elemento di datazione molto preciso. Furono infatti in uso in quel periodo oscuro della storia egiziana noto come Secondo Periodo Intermedio, quando l’Egitto era ancora diviso e i principi tebani si preparavano a guidare la rivolta contro gli Hyksos - sovrani stranieri di origine cananea - e a riconquistare e riunificare sotto di sé l’intero paese. Poco si conosce di quei re guerrieri tebani, fondatori della XVII dinastia, meno ancora dei nobili e funzionari che vissero in quel periodo: fu probabilmente uno di loro a scegliere come propria “dimora dell’eternità” il complesso funerario che la missione pisana sta riportando alla luce. Non stupisce, a questo punto, la localizzazione della tomba ai piedi della collina principale di Dra Abu el-Naga, a poca distanza dalle sepolture dei re della XVII dinastia e dei loro antenati. Al tempo della spedizione toscana in Egitto di Ippolito Rosellini, la scienza archeologica ancora non esisteva e l’attenzione degli esploratori era focalizzata per lo più sul recupero di oggetti preziosi o dal pregiato valore artistico. Rosellini, tuttavia, dimostrò di possedere uno spiccato interesse anche verso le manifestazioni più umili della cultura egiziana, verso gli oggetti di uso quotidiano e perfino verso i recipienti in ceramica: ogni reperto, secondo l’egittologo pisano, era in grado di contribuire alla ricostruzione storica della civiltà del Nilo. Un altro aspetto che accomuna il metodo di Rosellini a quello delle metodologie archeologiche impiegate oggi è rappresentato poi dalla particolare attenzione posta nella documentazione delle decorazioni pittoriche delle tombe, dei rilievi dei templi, ma anche degli oggetti recuperati durante gli scavi. Già allora si comprendeva l’importanza di documentare accuratamente quanto più possibile tutto quello che ancora era visibile per preservarlo dagli infausti effetti del tempo. A differenza dei primi esploratori, tuttavia, oggi ci si concentra molto di più sul contesto di provenienza dei reperti che sugli oggetti stessi, poiché è il contesto a conservare spesso le informazioni più preziose per la comprensione dell’area o della struttura indagata. Ogni esplorazione archeologica oggi prevede la registrazione e la documentazione, nel modo più approfondito e completo possibile, di ogni singolo strato di terreno asportato e dei materiali ad esso associati. Nel caso dello scavo del complesso funerario formato dalle due tombe TT14 e M.I.D.A.N.05, gli egittologi pisani sono chiamati al difficile compito di analizzare, interpretare e documentare una storia particolarmente complessa di distruzioni che hanno interessato dapprima i corredi funerari e poi gli stessi depositi di terreno accumulatisi all’interno delle due strutture durante le ultime fasi di vita delle sepolture. La stratificazione archeologica deriva direttamente dalla stratificazione di numerose attività, sia umane che naturali, occorse in un arco di tempo assai ampio che si estende dalla realizzazione delle strutture funerarie alla stessa attività di esplorazione e scavo attuale. Ovviamente attività diverse hanno lasciato nel deposito archeologico tracce diverse, che devono essere individuate, distinte e comprese. Per il lavoro di scavo vero e proprio si impiega oggi uno strumentario assai elementare composto di zappe, picconi, cazzuole, pennelli, secchi di caucciù, setacci, bisturi e strumenti odontoiatrici, mentre per il rilievo degli strati, delle architetture o delle decorazioni pittoriche e per la registrazione e archiviazione dei materiali si utilizzano ormai ampiamente tecnologie di telerilevamento, computers e supporti digitali per l’immagazzinamento e l’elaborazione dei dati. In particolare per le tombe che presentano resti di intonaco dipinto sulle pareti, l’utilizzo di una sofisticata strumentazione di scansione tridimensionale, ancora in fase sperimentale in questo tipo di contesti, ci ha permesso di ottenere una descrizione puntuale delle superfici degli ambienti che può restituire oltre alla forma reale complessiva dello spazio interno anche informazioni dettagliate sullo stato di conservazione delle superfici della decorazione pittorica. Grazie alla possibilità di sovrapporre al rilievo tridimensionale le fotografie ad alta risoluzione delle pareti e del soffitto, questo strumento è così in grado di produrre un modello digitale geometricamente e visivamente realistico dell’ambiente funerario.

Marilina Betrò
Paolo Del Vesco
assegnista di ricerca - dipartimento
di Scienze storiche del mondo antico