Elenco scorciatoie

Nella casa delle differenze

 

Amore e Psiche

Amore e Psiche
Gruppo in marmo di Antonio Canova.
Parigi, Museo del Louvre

Il voto alle donne nell’Italia non ancora repubblicana del 1946 costituì - oltre alla non scontata e tardiva cancellazione della sottrazione di diritti universali che, simultaneamente alla Dichiarazione del 1789, negava alle donne il diritto di suffragio e la parola pubblica - il riconoscimento del ruolo politico effettivo svolto dalle donne nel movimento di liberazione dal fascismo. Molto ormai è stato scritto su questo tema e dal primo bellissimo libro di Anna Maria Buzzone e Rachele Farina, La resistenza taciuta del 1976, inizialmente fenomeno isolato, ristampato da Bollati Boringhieri per i 60 anni della Resistenza con la prefazione di Anna Bravo, una nuova storiografia si è sviluppata, nell’ultimo decennio, con gli scritti della stessa Bravo e di molte altre storiche, che mi dispiace non poter nominare qui. Da allora la demarche politica di quella soggettività, fino a quel momento esclusa dalla cittadinanza, non ha cessato di esprimersi in teorie e pratiche: invenzione di obiettivi che sono stati punti di impatto rivoluzionario, mi sia passata per una volta la parola, fra il corpo e la sessualità femminile, così come erano materia di esperienza vissuta di milioni di donne, e luoghi-cardine di un codice civile e penale, ancora albertino o fascista, comunque espressione di una cultura e di una società patriarcali. Non penso soltanto alla legge sull’aborto, ma al diritto di famiglia, alla cancellazione del delitto d’onore, alla legge sulla parità, a quella sulla violenza sessuale, a tutte quelle tentate e fallite: alcune furono opera del movimento delle donne in prima persona (aborto e violenza), che ha lasciato insieme con delle leggi negoziate una straordinaria lezione di laicità (e di pazienza: l’iter della legge sulla violenza è durato vent’anni! ), altre furono frutto di un rapporto conflittuale e costruttivo col movimento operaio e democratico nelle sue espressioni politiche e sindacali, che è un tratto esclusivo e caratteristico del femminismo italiano. Di certo senza uno dei due soggetti negli anni ‘70, ’80, ’90 nessuna legge in tema di diritto di famiglia o di lavoro sarebbe stata altrettanto avanzata.

Ma non soltanto pratiche, intese come pratiche trasformative dell’esistente, sono state al centro di quel percorso tutto politico che il riconoscimento costituzionale della cittadinanza risignifica in qualche misura, ma anche pratiche di autotrasformazione e conoscenza di sé nonché strategie teoriche ed epistemologiche che hanno ripensato la realtà e la soggettività storiche a partire dall’esperienza molteplice e dalla nozione pluriversa della relazione.

Vorrei ricordare, in maniera forzatamente schematica, tre figure teoriche della politica femminista, che hanno posto al centro in maniera diversa la relazione fra donne come pratica politica in momenti successivi della storia del movimento. A queste corrispondono altrettanti “sensi” della parola politica, imbricati fra loro: alcuni di essi appaiono oggi oscurati, ma conservano invece, a mio parere, il loro carico di energia e di dinamismo storico nelle pieghe della conflittualità del presente.

Queste figure sono:

Queste tre figure della politica femminista hanno costituito momenti diversi della storia del movimento, rivelando anche disparità e conflittualità, ma anche, in qualche modo, sedimentandosi e intrecciandosi in un patrimonio acquisito di saperi di sé e del mondo, in una rete poliglotta di discorsi e narrative con cui donne, attraversate da identità plurali, da appartenenze e culture molteplici, stanno tessendo una nuova cartografia, in quella che la poetessa Audre Lorde ha chiamato “la casa della differenza”.

Ritratto di Madame Roland

Ritratto di Madame Roland.
Adelaide Labille-Guyard.
Quinper, Musée des Beaux-Arts

Tenterò di dar conto del loro intreccio e di questo sedimento stratificato, attraverso alcuni testi, arbitrariamente scelti fra i mille possibili, che utilizzerò come mappe di una storia ancora in corso e di figurazioni, di cui quei testi sono ricchi e che ci aiutano a ridisegnare passato e presente, immaginando nuove possibilità per il futuro. Le figurazioni, definite dalla teorica della scienza Donna Haraway “immagini performative e abitabili... che servono a mettere in scena passati e futuri possibili,” hanno il ruolo di metafore multiversali che permettono di esplorare comparativamente analogie, simboli e convergenze. Le figurazioni vengono scelte e proposte come oggetto di identificazione conoscitiva da condividere con altre/i, usate come dispositivi che muovono all’agire politico, sia condiviso che individuale. La cultura delle donne ha creato negli anni una serie di figurazioni che illustrano le luci e ombre della loro storia, spesso in contrasto con le narrative del nostro tempo. Queste figure hanno avuto una funzione critica nella lettura del presente, e hanno significato modi e momenti di resistenza.

Nel 1929, nel testo della conferenza “Una stanza tutta per sé”, Virginia Woolf fa un’affermazione semplice, ironica e, benché possa suonare snob detta da una delle “figlie degli uomini colti”, probabilmente ancora vera per moltissime donne, anche a livello simbolico: “Mia zia Mary Beton, questo lo devo proprio raccontare, morì per una caduta da cavallo un giorno in cui, a Bombay, era uscita a fare una cavalcata all’aperto. La notizia dell’eredità mi raggiunse una sera più o meno alla stessa ora, in cui veniva approvata la legge che concedeva il voto alle donne. Delle due cose – il diritto di voto e il denaro – il denaro, devo ammetterlo, mi sembrò di gran lunga la più importante [il corsivo è mio]”.

Sullo sfondo volutamente coloniale, (la cara zia Mary non muore nel Sussex ma a Bombay), il voto alle donne inglesi era stato riconosciuto nel 1919, esattamente dieci anni prima che Virginia scrivesse queste pagine famosissime, vero testo inaugurale del femminismo, in cui sosteneva che una stanza tutta per sé e una rendita di 500 sterline l’anno, vale a dire uno spazio autonomo e l’indipendenza economica, erano i requisiti indispensabili a una donna per scrivere romanzi.

E perché? Perché scrivere è un atto di libertà e la libertà richiede coraggio, ed essi non si possono avere senza indipendenza e autonomia. Il coraggio è stato per millenni una virtù eroica e virile: c’era certamente un coraggio femminile, ma suo requisito fondamentale non era la libertà bensì la pazienza, una infinita capacità di sopportare e resistere. Hanna Arendt parla del coraggio come “volontà di agire e di parlare”, come “desiderio di inserirsi nel mondo e iniziare una propria storia” e Virginia Woolf ci esorta a prendere l’abitudine “alla libertà e al coraggio di scrivere esattamente ciò che pensiamo”, allontanandoci un po’ dalla stanza di soggiorno comune e “guardando in faccia il fatto – perché è - che non c’è neanche un braccio al quale appoggiarci, ma che dobbiamo camminare da sole”. È in queste stesse pagine che la scrittrice ci consegna una straordinaria figurazione: si tratta di Judith, l’immaginaria sorella di Shakespeare. Questa sorella che non dobbiamo cercare nelle biografie del poeta, nata con la stessa passione, lo stesso talento del fratello, è il simbolo di tutte le donne che la storia ha reso prigioniere del loro stesso silenzio.

“Lei – scrive Virginia Woolf - morì giovane e non scrisse nemmeno una parola…. Ora è mia ferma convinzione che questa poetessa che non scrisse mai una parola e fu seppellita nei pressi di un incrocio, è ancora viva. Vive in voi, e in me, e in molte altre donne che non sono qui stasera perché stanno lavando i piatti e mettendo a letto i bambini. Eppure lei è viva. Perché i grandi poeti non muoiono; essi sono presenze che rimangono; hanno bisogno di un’opportunità per tornare in mezzo a noi in carne e ossa.

E offrirle questa opportunità, a me sembra comincia a dipendere da voi…Ma che lei possa nascere senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte nostra, senza la precisa convinzione che una volta rinata le sarà possibile vivere e scrivere la sua poesia, è una cosa che davvero non possiamo aspettarci perché sarebbe impossibile. Ma io sono convinta che lei verrà, se lavoreremo per lei, e che lavorare così, anche se in povertà o nell’oscurità, vale certamente la pena”.

Allegoria dell'Africa

Allegoria dell'Africa.
Giovan Battista Tiepolo.
Castello di Wurzburg.

La “sorella di Shakespeare”: figurazione del silenzio richiesto, anzi imposto per lunghi secoli a ogni creatura di sesso femminile, che poteva implodere, nel caso di una mente creativa e incandescente come quella di Judith, nella follia che l’ha portata alla morte, o dar luogo a quell’antica e misteriosa prudenza femminile, bozzolo in cui le donne avvolgono il proprio orgoglio e la consapevolezza del proprio valore; essa dischiude con la forza di un imperativo morale a un presente di libertà e a un futuro possibile di vita, di creazione e di poesia. Le parole non dette e il desiderio sepolto di Judith fanno nascere in una generazione di donne quella volontà di agire e di parlare che per Arendt è sinonimo del vero coraggio, un coraggio che vede nella corrispondenza di azione e parola, nel fitto rinvio tra esperienza vissuta e linguaggio, un fatto etico, la propria ricerca di autenticità.

In questo senso, credo, dobbiamo leggere quella frase citata sopra circa la maggiore importanza attribuita all’eredità della zia Mary, provvidenzialmente caduta da cavallo nella polverosa città coloniale, rispetto al suffragio universale per cui le “suffragette” per l’appunto avevano tanto lottato: quello che è in gioco è una presenza a sé, fonte di libertà e di agire storico, che non si lascia restringere nelle maglie della rappresentanza. Quest’ultima non viene certo sottovalutata: ma non è un regalo gentilmente concesso, viene a colmare assai tardivamente un vuoto nella democrazia universalista e ben altra e più alta è la scommessa della libertà femminile. Un invito a giocare alto, alla consapevolezza che molti sforzi saranno ancora necessari per ridare vita e voce a tutte le Judith della storia, ma lavorare così, per questo desiderio, e per niente di meno, “anche se nella povertà e nell’oscurità, vale sicuramente la pena”. È anche un invito a non lasciarsi intrappolare in una logica paternalista, perché “non c’è neanche un braccio al quale appoggiarsi…ma dobbiamo camminare da sole”.

C’è già qui un’anticipazione di un’altra figurazione di Virginia Woolf che chiamerò quella dell’estranea/outsider. È la figura che compare ne Le tre ghinee, pubblicato nel 1938, alle soglie della seconda guerra mondiale, quando Virginia, a proposito della terza ghinea, introduce la “società delle estranee”: è un testo di critica radicale alla società patriarcale basata sul militarismo, il dominio e lo sterminio dell’altro. Virginia vi compie un gesto di disidentificazione potente dalla propria società di appartenenza, rifiutando di radicarsi in un territorio: “in quanto donna non ho patria, in quanto donna non voglio patria alcuna, in quanto donna la mia patria è il mondo intero”. Di questo cosmopolitismo deterritorializzato e deterritorializzante la mia generazione ha fatto, esultante, con un gesto irriverente e liberatorio, la propria bandiera, in una stagione che Anna Rossi-Doria ha definito in un testo per la Società italiana delle storiche di grande “felicità pubblica”. il passare degli anni e soprattutto con l’emergere di differenze all’interno del femminismo, legate alla consapevolezza delle diversità razziali, etniche, geografiche, culturali che si sono tradotte storicamente in stratificazioni gerarchiche di dominio, abbiamo dovuto capire - ed è stata una delle lezioni più salutari sul piano della maturazione personale, politica e intellettuale - che non potevamo avere la pretesa di parlare di cosmopolitismo a partire da una posizione, quella dell’Europa, che aveva fatto pesare il suo universalismo politico sul resto del mondo. Per sentirsi estranee alla propria terra bisogna conoscerla e averne una, quanto meno. Ma chi è cresciuto straniero in terra straniera, nero in una nazione di bianchi, trapiantato da una piantagione africana di cui ha perduto radici e memoria, “badante” in case ove si parlano lingue sconosciute, con quale baldanza affermerà “la mia patria è il mondo intero”? Abbiamo capito che dovevamo assumerci la responsabilità del nostro posizionamento, la nostra parzialità di soggetti situati. Ma, se sarebbe un gesto etnocentrico voler riproporre oggi tale e quale la posizione di Virginia Woolf, non possiamo non riconoscere il grande debito che ci lega, come donne bianche e occidentali, a quel moto generoso di disidentificazione con cui la scrittrice si trae fuori dal terreno rassicurante rappresentato dall’appartenenza alla propria cultura, allo spiazzamento con cui si sente straniera al misto di patriottismo, militarismo, tribalismo coi colori di guerra cui vede ridursi e impoverirsi la sua cultura e con piglio aristocratico si chiama fuori dall’imbarbarimento: è stato grazie a quel suo primo gesto di dislocazione che in molte abbiamo potuto pensarci estranee a un’educazione e a una cultura che ci volevano conformi ai valori dell’Italia degli anni ‘50 e compiere una doppia dislocazione: rispetto alla società e rispetto a noi stesse, a quella parte di noi “diventata donna”, per dirla con Simone de Beauvoir, in quel clima, complice di quella formazione, cullando quel “sogno d’amore”.

E, aprendo una parentesi, proprio Simone de Beauvoir, nel 1949, aveva costruito Il secondo sesso centrandolo su un’altra nozione di estraneità, segnata dal negativo. La tesi di fondo è quella di un’estraneità radicale che aveva sottratto da sempre le donne a se stesse: la donna è stata posta come l’Altro assoluto, l’alterità l’ha segnata come assolutezza eludendo il carattere accidentale del fatto storico. “Ecco - scrive infatti Simone de Beauvoir - ciò che essenzialmente definisce la donna: essa è l’Altro nel seno di una totalità, i cui due termini sono indispensabili l’uno all’altro”.

Ritornando a Le tre ghinee, un’ultima riflessione: la “società delle estranee” è in realtà un’idea che nasce negli anni ’80 in Italia, e che l’edizione Feltrinelli del 1992, con la traduzione di Adriana Bottini e l’introduzione di Luisa Muraro, fa circolare oltre il dibattito interno al movimento femminista: e le traduzioni non sono mai innocenti. Essere “estranee” è diventata una figura di quella differenza dell’essere donna di cui la cultura umana non sapeva, nel senso della citazione di Carla Lonzi riportata in precedenza, ha tradotto il sentirsi portatrici di qualcosa di diverso e più alto di quello che la politica esprimeva in quel momento, la libertà e il coraggio di partire da sé.

La toeletta di Venere

La toeletta di Venere.
Pieter-Paul Rubens.
Liechtenstein, Vaduz

Ma Virginia aveva parlato di “outsider”, che solo una forzatura, per quanto, abbiamo visto, frutto di una precisa scelta ricca di senso, può rendere con “estranea”.

Outsider” è infatti parola utilizzata nel linguaggio sportivo, ove designa colui che proviene da un itinerario non ortodosso, che non ha una formazione d’élite: costui partecipa dall’interno al mondo della propria squadra o club, ma mantiene lo sguardo interiore che gli proviene da una formazione “eretica”, dissonante. L’“outsider” è così colei che può vivere e vedere il mondo dal suo interno e dall’esterno, che sa abitare il margine, senza essere marginalizzata, perché forte di un sapere duplice, di un linguaggio ambiguo, di uno sguardo obliquo, maestra di ironia e di leggerezza acrobatica. Se il cosmopolitismo della “società delle estranee” ci parla della formazione di una generazione politica di donne, l’“outsider” può lanciare la bandiera anche ad altre generazioni che compaiono oggi sulla scena di questo mondo globalizzato, dalle vite sospese in un tempo interrotto e precarizzato, il cui potenziale di liberazione è una partita ancora tutta da giocare.

Insider/outsider” è anche la figurazione con cui Rich si pone sempre nel determinare le proprie appartenenze molteplici, come ha notato Liana Borghi, riconoscendo la complessità delle stratificazioni personali, collettive, storiche. Perché se queste figure della politica femminista possono essere lette come elaborazioni intellettuali ed esistenziali insieme delle forme delle relazioni fra donne nominate a partire da quelle storicamente vissute fra coloro che le hanno pensate, viene spontaneo chiedersi in quale grotta carsica, per riprendere un’immagine di Emma Baeri, sia nascosta ora la volontà di agire e di parlare, la forza critica e inventiva che certamente non è esaurita?

Altro è il contesto storico, certamente, tutto è cambiato, a cominciare dal mondo; e fin troppo ovvio e facile è sottolineare pecche e miserie delle soggettività più conflittualmente interlocutrici, partiti e organizzazioni della sinistra, storica e non. Ma non è su questo che mi interessa ragionare qui: fa male al cuore vedere un parlamento con una percentuale di donne intorno al 10% e anche se la rappresentanza, Virginia Woolf insegna, non è il primo dei nostri problemi, questa e altre vergogne nazionali, a 60 anni dal voto alle donne sono affar nostro, perché ancora una volta riguardano la relazione fra donne. È questo un problema storico e un’impasse del femminismo: la scoperta che quel qualcosa di oscuro che ha spinto l’uomo a strutturare in modo psichicamente così violento il rapporto con l’altro, non ci risparmia come donne. Abbiamo dovuto scoprire, leggendo il volume di Melchiori Crinali. Le zone oscure del femminismo, che “quando un rapporto fra donne non si riadagia nelle forme immaginarie della polarità sessuale maschile/femminile urta e fa emergere angosce profondissime, molto difficili da sostenere dentro un rapporto reale”.

La tentazione di Eva

La tentazione di Eva.
Rilievo attribuito a Gislebertus.
Autun, Musée Rolin

Molti ritorni al rapporto privilegiato con l’universo degli uomini, al “maschile” della politica tradizionale, della cultura “neutra” hanno questo segno. Sono, dice ancora Melchiori, “ritorni da questa angoscia verso lidi meno esaltanti, ma meno destrutturanti le radici stesse dell’identità”. È questa una grande zona grigia in cui convivono donne che hanno abbandonato il femminismo come pratica della relazione, donne che lo hanno guardato senza lasciarsi attraversare, donne non certo prive di senso di sé, spesso tutto speso nel resistere all’omologazione, ma che non hanno tollerato il riproporsi nella scena dei rapporti fra donne, della forma interiore dello schema maschile/ femminile, che preferiscono “alleggerire” questo peso vivendo l’opposizione fuori di sé, nella cosiddetta realtà che è poi quella dell’universo culturale dominante. È una zona grigia sempre più ampia che bisogna guardarsi dal non considerare parte del femminismo: essa è parte della nostra storia, perché ci parla delle impronte indelebili che i modelli del desiderio maschile hanno inventato per noi. È più facile vivere la disparità in un ordine culturale ingiusto che entro le maglie della relazione con la propria simile. Di fronte a questo l’unica strada sembra essere quella della coscienza dell’interiorizzazione inevitabile per ogni donna della forma del desiderio maschile che condiziona e interferisce con altri modelli possibili di relazione e di desiderio. Da qui si deve ripartire anche per arginare la distruttività che tale scoperta evoca. La somiglianza fra noi contiene una differenza, non necessariamente gerarchica, quella che resta così difficile da sopportare. Forse perché allude alla vera differenza: quella del processo di acquisizione della propria individualità, nella pluralità delle appartenenze, delle radici e della storia, intrecci complessi che non porteranno mai alla coscienza di sé come un intero; ci fa toccare dolorosamente il limite, perché è anche fondamentalmente la scoperta della nostra non-identità.

Come ha scritto Teresa De Lauretis ne Il femminismo e le sue differenze: “le differenze all’interno del femminismo non sono semplicemente differenze e divisioni tra donne, ma anche e, altrettanto importanti, differenze e divisioni nella donna; cioè sorgono come effetti di differenze e divisioni nella soggettività di ogni donna”.

La percezione dell’interiorizzazione del desiderio maschile ci obbliga a un processo di disidentificazione che mette in discussione le nostre certezze e, secondo quanto afferma Ladelle McWhorter in Bodies & Pleasures. Foucault and the Politics of Sexual Normalization, in un passo citato da Liana Borghi, la nostra integrità richiede che integriamo nella nostra identità il fatto che “una fenditura si è formata nel cuore delle cose” (Liana Borghi, Pierce this thicket with mere words’: intrighi con/testuali di un discorso d’amore di Adrienne Rich). Come il riconoscimento dello “spacco alla radice” di Rich, questa fenditura implica la nostra mancanza di controllo totale esterno sulla storia nella quale siamo invece impigliate e dall’altra la possibilità di diventare chi non credevamo di essere o di poter essere. È ancora questo il senso del “posizionamento” che ci fa soggetti politicamente responsabili: responsabili del nostro corpo situato, della fenditura che ci segna. Il premio può essere la percezione della somiglianza nella differenza che, come scrive Rich, è il cuore della metafora e della poesia: “comincia qui un’attenzione per la somiglianza nel contrasto, l’appello al riconoscimento, l’associazione di cosa a cosa….E così comincia, dovunque si guardi nel mondo comune, la suggestione di significati multipli e stratificati, plurali, anziché singolari”.

Parole che possono commentare come poche altre la straordinaria figurazione della casa della differenza, che Audre Lorde, “femminista nera, guerriera lesbica e poetessa madre” come soleva presentarsi, sottolineando l’identità molteplice da cui era attraversata così ci consegna: “Stare insieme alle donne non era abbastanza, eravamo diverse. Stare insieme alle donne gay non era abbastanza, eravamo diverse. Stare insieme alle donne nere non era abbastanza, eravamo diverse. Stare insieme alle donne lesbiche nere non era abbastanza, eravamo diverse. Ognuna di noi aveva i suoi propri bisogni ed i suoi obiettivi e tante e diverse alleanze. La sopravvivenza avvertiva qualcuna di noi che non potevamo permetterci di definire noi stesse facilmente, né di chiuderci in una definizione angusta ... C’è voluto un bel po’ di tempo prima che ci rendessimo conto che il nostro posto era proprio la casa della differenza piuttosto che la sicurezza di una qualunque particolare differenza”.

 

Riferimenti bibliografici

  1. L. Borghi, Pierce this thicket with mere words’: intrighi con/testuali di un discorso d’amore di Adrienne Rich. Incroci di genere, De(i)stituzioni, transività e passaggi testuali, Bergamo, Ed. Mario Corona, 1999.
  2. L. Cigarini, La politica del desiderio, Introduzione di Ida Dominijanni, Parma, NuovaPratiche Editrice, 1995.
  3. S. de Beauvoir, Il secondo sesso, Prefazione di Renate Siebert, Il Saggiatore, Milano 2002.
  4. T. De Lauretis, Il femminismo e le sue differenze, in “Mediterranean”, n.2, giugno-dicembre1996.
  5. Diotima, La sapienza di partire da sé, Napoli, Liguori, 1996.
  6. La Libreria delle Donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Torino, Rosenberg & Sellier, 1987.
  7. L. McWhorter, Bodies & Pleasures. Foucault and the Politics of Sexual Normalization, Indiana UP, Bloomington, 1999.
  8. L. Melandri, Come nasce il sogno d’amore, Torino, Bollati Boringhieri, 1988.
  9. P. Melchiori, Crinali. Le zone oscure del femminismo, Milano, La Tartaruga, 1995.
  10. L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Roma, Editori Riuniti, 1991.
  11. A. Rich, A politics of locations, in “Mediterranean”, n.2 giugno-dicembre 1996.
  12. A. Rich, Lo spacco alla radice, a cura di Liana Borghi, Firenze, Estro, 1985.
  13. Anna Rossi-Doria, Ipotesi per una storia che verrà, in Società Italiana delle Storiche, Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, Roma, Viella, 2005.
  14. V. Woolf, Le tre ghinee, Milano, Feltrinelli, 1992.
  15. V. Woolf, Saggi, Prose, Racconti, Milano, Mondadori, 1998.

Le immagini a corredo di questo articolo sono tratte da:
  1. G. Duby-M.Perrot, Immagini delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1992.

Paola Bora
docente di Antropologia generale ed etnosviluppo
p.bora@sns.it